Mercoledì 21 agosto 2019
Estate 2019. La nostra news non va in ferie. Tuttavia vi accompagnerà fino a metà settembre con ritmi più lenti, senza obblighi di scadenze quotidiane. Godetevi e godiamoci un periodo di rallentamento, di tempi lenti, per quanto ci è possibile. Buona estate a tutti noi e non perdiamoci di vista!
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———————Opinioni,Commenti e Riflessioni———————————
Secondo memoriale di Antioco Pabis
21 Agosto 2019
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Ecco il secondo memoriale di Antioco Pabis con prefazione di Federico Francioni
È un documento senza data e senza firma, ma la grafia è la stessa della lettera precedente. Questa fonte (che abbiamo utilizzato nel terzo saggio di questo volume) offre uno spaccato davvero notevole del sistema inquisitorio e […]
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EDITORIALE de il manifesto
Conte affonda il capitano nero
La pacchia è finita. Conte ha pronunciato una resa dei conti durissima contro un ministro degli interni responsabile di esprimere una tendenza autoritaria, nutrita da scelte e comportamenti frutto «della mancanza di una cultura istituzionale»
di Norma Rangeri
il manifesto, EDIZIONE DEL 21.08.2019, PUBBLICATO 20.8.2019, 23:59
Più una requisitoria che un’arringa, più un j’accuse senza appello contro Salvini che una difesa, abbastanza scontata, dell’operato del governo gialloverde. Senza alcun cenno di autocritica sull’operato del suo Ministero, anzi rivendicandolo, anche sulla questione dell’immigrazione e dei decreti-sicurezza salviniani.
In diretta televisiva, Conte ha pronunciato una resa dei conti durissima contro un ministro degli interni responsabile di esprimere una tendenza autoritaria, nutrita da scelte e comportamenti frutto «della mancanza di una cultura istituzionale». Poi l’affondo contro «un fomentatore di odio nel paese», un odio pericoloso perché mette la piazza contro il Parlamento.
[segue]
Nell’inedita atmosfera di una città deserta e di Palazzi romani invece affollatissimi, finalmente il Senato della Repubblica al gran completo si è riunito per ascoltare le comunicazioni del presidente del consiglio Conte sulla crisi del suo governo. Come aveva detto proprio davanti a quella stessa assemblea del senato appena qualche settimana fa, (e come forse già stava annunciando), qualora si fosse manifestata una crisi della maggioranza, lui sarebbe tornato alle Camere per discuterne in totale trasparenza.
Il passaggio di Conte politicamente più rilevante, applaudito anche dai banchi del Pd, è arrivato quando ha affondato la lama nel cuore nero del salvinismo: «Chiedi pieni poteri, invochi le piazze, esprimi una concezione della politica che mi preoccupa».
Fitta e puntigliosa la disamina della lunga serie di scorrettezze istituzionali, compresa quella di rifiutarsi di presentarsi in Parlamento per rispondere «della vicenda russa che va chiarita», fino richiamarlo all’imbarazzante circostanza di presentare una mozione di sfiducia contro il capo del governo senza però ritirare i propri ministri.
E dopo il de profundis, la salita al Quirinale per rassegnare le dimissioni al Capo dello Stato. Con una stilettata finale nella replica del Presidente del consiglio, mentre le agenzie di stampa parlavano del ritiro della mozione leghista: «Se manca il coraggio a Salvini, nessun problema la responsabilità della crisi me l’assumo io».
Salvini non lo ha smentito pronunciando un comiziaccio di terz’ordine, farcito dei cattivi pensieri dell’estrema destra, compreso il riferimento al calo demografico e al pericolo di sostituzione del popolo italiano con l’invasione dei migranti, fino all’appello finale all’immacolata vergine Maria a protezione dell’Italia, un’invocazione accolta dai plaudenti senatori leghisti. Poi se ne è andato al Viminale per replicare con un video sui social lo sproloquio appena svolto in aula.
Voleva mostrarsi nel suo ufficio, per comunicare che ha ancora il potere di ministro e per estendere al pubblico dei suoi sostenitori lo stesso testo appena pronunciato a palazzo Madama.
Il suo appello alle piazze (mediatiche e reali) è tuttavia anche un segno di debolezza di chi sta per restare senza le leve (e i soldi) del suo ministero, di chi è inevitabilmente azzoppato da una crisi che gli è sfuggita di mano.
A dimostrazione, proprio ieri la magistratura ha deciso di far sbarcare i migranti della Open Arms tenuti, inutilmente, ferocemente in ostaggio dal ministro leghista.
Ma i protagonisti della scena ieri erano tre. Dopo i duellanti Conte e Salvini, sotto la luce dei riflettori del Senato si è alzato Renzi per un breve e studiato intervento, che aveva soprattutto lo scopo di inviare un messaggio innanzitutto al suo malconcio partito, in seconda battuta agli alleati di una futuribile maggioranza Pd-M5S. Renzi ha assicurato che non farà parte del nuovo governo, che, secondo la sua idea, deve evitare il voto subito per scongiurare l’esercizio provvisorio dei conti pubblici, delineando così un governo di scopo per fronteggiare la recessione europea. Il contrario di un governo di legislatura sostenuto da altri esponenti del partito, forse, chissà, anche dal segretario Zingaretti.
Finalmente questa crisi fantasma diventa una crisi conclamata con il passaggio del testimone nelle mani di Mattarella. Un primo passo, una prima tessera pur dentro un puzzle impazzito perché onestamente nessuno può immaginarne ancora la conclusione, e capire l’esito finale tra showdown elettorale come chiede l’ormai ex ministro dell’interno o l’inedita alleanza di centrosinistra.
SUL DECRETO SICUREZZA BIS
“L’articolo 10 della nostra Costituzione recita: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge“. Quindi i partiti che ora stanno all’opposizione dovrebbero continuare la battaglia in sede di Corte Costituzionale perchè questa robaccia che è stata votata oggi, che fa ribrezzo, è anche in contrasto con la Costituzione. Quindi è illegale”.
(Luciano Canfora, da In onda, La7 – 5/8/2019)
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COMMENTI
Le difficili acrobazie dell’intesa che si prospetta
Crisi di governo. Tra i tanti interrogativi, come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti?
di Alfio Mastropaolo
il manifesto EDIZIONE DEL 21.08.2019 PUBBLICATO 20.8.2019, 23:59
L’estremo atto di arroganza di Matteo Salvini, volto a capitalizzare elettoralmente il credito attribuitogli dai sondaggi, a escludere il Movimento 5 Stelle e a inglobare i residui del berlusconismo, si è rivelato un errore. C’è un problema di tempi tecnici, c’è la volontà di sopravvivere di un parlamento da poco eletto, c’è un’aritmetica parlamentare che sulla carta consente altre maggioranze.
SOLO CHE in questo difficile frangente se arduo è capire cosa accade tra i 5 Stelle, in cui c’è un’ala che con Salvini s’è trovata benissimo, complicatissimo è capire cosa capiti nelle file del Pd. Dove si misurano almeno tre posizioni: quella di chi era disposto fin dal 4 marzo 2018 a negoziare coi 5 Stelle; quella di Zingaretti, di suo prossimo a tale posizione, ma incapace di governare un partito il cui gruppo parlamentare è ostaggio dell’altro Matteo e che potrebbe liberarsene a seguito di nuove elezioni; quella dell’altro Matteo, che, avendo finora vietato ogni contatto coi 5 Stelle, si è testé riconvertito. Nuove elezioni metterebbero a rischio le sue truppe parlamentari, gli serve tempo per fondare un suo partito ed è sempre in cerca di una rivincita personale. Risibile è la minaccia di Carlo Calenda, fresco eletto al parlamento europeo col Pd, di fondare anche lui un suo partito se 5 Stelle e Pd s’incontrano. Motivando, non a torto, con l’inaffidabilità dell’altro Matteo.
LA PARTITA purtroppo si gioca sulla pelle degli italiani. Intendiamoci. Un accordo tra Pd e 5 Stelle, sarebbe stata la soluzione più ovvia già dal 16 marzo. Vuoi per minor distanza programmatica, vuoi per contiguità dei due elettorati. Parte rilevante degli elettori a 5 Stelle proveniva dal Pd e da sinistra. Respinti all’indomani delle elezioni, i 5 Stelle si sono accordati con Salvini per formare il governo più tristo nella storia repubblicana. È ancora da notare come la polemica del Pd, a guida Zingaretti, ma ipotecato da Renzi, si sia accanita più che contro Salvini contro i 5 Stelle. Che hanno replicato per le rime: il culmine è stato la squallida vicenda del “partito di Bibbiano”.
ADESSO, con svariate acrobazie – governo di scopo, di legislatura e quant’altro – si prospetta un’intesa. A scandalizzarsi dell’opportunismo in politica è di solito chi ci perde. Ma qualche problema si pone comunque. Dopo le parole che si sono dette, come potranno mai convivere 5Stelle e Pd? Come non aspettarsi una riedizione del dualismo Salvini/Di Maio? E come si spiegheranno con i loro elettori? Il Capo dello Stato, che ha finora e interpretato rigorosamente il ruolo di rappresentante di tutti gli italiani, ottenendo nei sondaggi amplissimo consenso, si troverà in imbarazzo. Con che animo potrà conferire l’incarico di formare il nuovo governo viste simili premesse? Dopo la pagliacciata xenofoba gialloverde, ciò di cui meno c’è bisogno è una riedizione verderosa. Il sempre volenteroso Prodi ha invitato a una seria riflessione i due partiti e se possibile l’inclusione nell’accordo delle residue milizie berlusconiane, in nome dell’Europa. Ebbene, chi sa immaginare come un simile assemblaggio possa partorire un programma di governo capace di non predisporre la rivincita di Salvini?
Tutti ripetono tre formule: confermare la vocazione europeista del paese, tenere i conti in ordine (bloccando l’aumento dell’Iva) e scongiurare il pericolo populista.
Senonché, le tre formule sono alquanto difficili da conciliare. Se il Pd avesse meditato sulla débacle del 14 marzo avrebbe dovuto forse riconoscere che proprio la sottomissione ai diktat di Bruxelles e dei maggiori governi europei sui conti in ordine che ha spianato la strada ai 5 Stelle. Anche se i governi Renzi e Gentiloni hanno fatto il resto. È mancata una politica del lavoro e degli investimenti adeguata, volta a rimettere alfine in moto il sistema produttivo (alleviando, di conseguenza, il debito pubblico), insieme a incisive misure di tutela dei ceti svantaggiati. L’abbandono del Mezzogiorno e delle periferie urbane è stato drammatico. Micidiale alfine l’accoppiamento con le oscillanti politiche condotte sull’immigrazione, che hanno dato gas al motore di Salvini.
VA DA SÉ che questi indirizzi andrebbero rovesciati. Ma com’è pensabile di farlo, non tanto alla luce degli incerti orientamenti dei 5 Stelle, quanto della divisione entro il Pd tra un’ala arciliberista, convergente con Forza Italia, e una (moderatamente) interventista, convergente con Leu, intorno a una politica d’investimenti e di contrasto alle disuguaglianze sociali e territoriali, che dovrebbe necessariamente forzare i vincoli europei?
E ANCORA: come revocare la politica migratoria di Salvini, finora avallata dai 5 Stelle, per impostarne un’altra, che non sia neppure quella perseguita da Minniti? Sarebbe mai un governo giallorosa in grado d’imporre all’Europa, oltre alla revisione degli accordi di Dublino, una politica verso il sud del mondo più generosa, lungimirante e assai più costosa di quella attuale, magari scontrandosi con l’amico americano? E che dire infine delle politiche costituzionali da condividere? Renziani e 5 Stelle s’intendono nel cavalcare l’ondata antipolitica tramite la riduzione selvaggia del numero dei parlamentari. L’ala zingarettiana è in sintonia con LeU e Forza Italia nell’immaginare correzioni meno dirompenti. Mentre permane assoluto mistero circa il futuro della legge elettorale. Che invece è decisiva.
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