Salviamo il Pianeta Terra, con intelligenza
Che ne facciamo della plastica?
di Pietro Greco, su Rocca
E allora, che ne facciamo della plastica? Ogni anno nel mondo vengono prodotti all’incirca 400 milioni di diversi polimeri collettivamente chiamati con questo nome, plastica. Oltre il 40% trova impiego in quello che gli inglesi chiamano packaging, sì insomma nel settore dell’imballaggio. Un altro buon 20% nel settore dell’edilizia. La stessa percentuale, all’incirca, nel tessile. Una buona percentuale nel settore delle automobili e, anche, dei computer.
La plastica (ma faremmo meglio a dire le plastiche) ha diverse caratteristiche che hanno assicurato un loro rapido successo. Le principali ce le ricordava Gino Bramieri già mezzo secolo fa a proposito del poli-propilene (celebre con il nome commerciale di Moplen): inconfondibile, leggera, resistente. Ma possiamo aggiungerne tranquillamente altre due: flessibile ed economica.
La plastica è stata a lungo, dopo la seconda guerra mondiale, il simbolo stesso della modernità. La materia di una nuova era. Ma, parafrasando il chimico Luciano Caglioti, possiamo dire che oggi la plastica mostra un altro volto. Anzi, due. La sua immagine si è trasformata negli ultimi lustri e da espressione di progresso si è trasformata in emblema di una materia senz’anima. È fredda e inespressiva quella persona – si dice –, sembra fatta di plastica.
il volto cattivo della plastica
Ma più di recente la plastica è diventata anche l’emblema di un inquinamento pervasivo e inaccettabile. Emblema stesso di un modello di sviluppo insostenibile.
Se il primo volto negativo della plastica, quello di materia fredda, è tutto sommato ingiusto, il secondo, quello di materiale emblema di un modello economico (e, quindi, tecnologico) insostenibile è più che giustificato. Non che la colpa sia della plastica in sé – non esistono materiali buoni o cattivi in sé, esiste un buon uso o un cattivo uso di ogni materiale.
Il guaio è che sono i numeri a disegnare il volto cattivo della plastica (dell’uso della plastica): una parte non banale della pro- duzione mondiale di questi materiali – tra l’1,6 e il 4,2%, secondo Jenna Jambeck, della University of Georgia di Athens ne- gli Stati Uniti –, finisce in mare. Significa, dunque, che ogni anno gli oceani ricevono tra 6 e 17 milioni di tonnellate di plastica. Il mare non sa come smaltirla.
Già, perché molte di queste plastiche sono di sintesi, ovvero create in laboratorio in tempi recenti (da meno di cento anni) e la natura non riesce a digerirli. Detto in maniera più rigorosa, di quei 400 milioni di tonnellate annue di plastica che produciamo, meno del 2% (meno di 10 milioni di tonnellate) sono biodegradabili. Il resto subisce una serie di processi, più fisici che chimici, che non la rimettono in circolo nella biosfera. Il principale di questi processi è la frammentazione. La plastica che finisce in mare si riduce in grossi pezzi, in pezzettini e in briciole microscopiche: le cosiddette microplastiche.
Queste plastiche (dipende dal tipo) galleggiano in superficie, flottano a mezz’altezza o si sedimentano sul fondo. Provocando conseguenze ambientali ben poco desiderabili. Entrano persino nella catena alimentare, uccidono pesci e mammiferi marini, risalgono fino allo stomaco dei loro produttori. In pratica ce le troviamo disperse anche nei nostri corpi di Homo sapiens.
Secondo un recente rapporto del Wwf, i rifiuti plastici prodotti ogni anno e dispersi nell’ambiente (non solo in mare, dun- que, ma anche in terraferma) ammontano addirittura a 100 milioni di tonnellate. Con i medesimi problemi di cui sopra e con un punto interrogativo progressivamente più grande: che ne facciamo, dunque, della plastica?
Qualcuno sostiene, semplicemente, eliminiamola, non produciamola più e l’impronta ecologica dei polimeri di sintesi sparirà. Ma il discorso è più complesso e, dunque, va meglio articolato.
un obiettivo inderogabile
Partiamo da una premessa, che diamo per scontato. Dobbiamo tendere a una dispersione zero delle plastiche nell’ambiente. E, anzi, dobbiamo iniziarlo a ripulire sistematicamente, l’ambiente, dai frammenti plastici macro, medi e micro che già vi sono diffusi in milioni di tonnellate. Questo è l’obiettivo: assolutamente inderogabile. Ma come raggiungerlo, in un contesto di più generale sostenibilità?
La domanda non ammette una risposta semplice. Facciamo un esempio. Oggi molte plastiche vengono utilizzate, come abbiamo detto, nel settore automobilistico, il che consente di avere vetture più leggere e di risparmiare fino al 20% di energia di origine fossile. Se eliminassimo la plastica e tornassimo al metallo, le auto diventerebbero più pesanti e i conseguenti consumi di energia crescerebbero. Il risultato finale per l’ambiente sarebbe negativo. Più inquinamento, invece che meno.
L’esempio suggerisce che non dobbiamo avere un approccio ideologico verso la plastica (verso i diversi tipi di plastica). Come tutta la materia e l’energia che utilizziamo, anche i polimeri, come abbiamo detto, hanno una doppia faccia. Dobbiamo valorizzare la faccia positiva della plastica e fare il contrario con quella negativa. Sapendo bene che le differenze tra l’una e l’altra non sono sempre facili da cogliere e, a volte, sono i dettagli che contano.
Ritornando al nostro esempio: sappiamo bene che una parte della plastica usata sulle automobili finisce nell’ambiente a fino uso vettura. Per evitare che succeda abbiamo tre opzioni: produrre meno automobili; produrre automobili senza plastica; riciclare la plastica quando l’automobile viene dismessa. La prima è un’opzione generale, riguarda il modello di sviluppo. Riusciremo a fare a meno delle auto private e a sostituire con altri mezzi di trasporto o con una minore domanda di trasporto? In ogni caso una risposta positiva a questa domanda, che è sia di tipo culturale che economico e sociale, è di medio o lungo periodo. La seconda opzione, come abbiamo detto, non è ecologicamente sostenibile. La terza opzione è già oggi praticabile. Possiamo e, dunque, dobbiamo riciclare i materiali plastici usati nel settore automobilistico.
Semplice, no? Niente affatto. Prendiamo a esempio le plastiche utilizzate nel tessile. Si trasforma in camicie, magliette e quant’altro. Non sono il massimo, i tessuti sintetici: né di eleganza né di comodità. Ma sono economici e leggeri. In ogni caso il problema, del tutto inatteso solo qualche anno fa, è che essi producono micro frammenti quando vengono lavati. Così che le lavanderie sono tra le grandi fonti di produzione di microplastiche.
il riciclo
È chiaro, allora, che la domanda «che fare della plastica?» è mal posta. Perché non ammette una sola risposta, ma molte. Anche quando ci riferiamo non alla materia in sé, ma al suo uso. Queste risposte le possiamo, in questa sede, solo provare a riassumere in tre grandi classi.
Non alcune plastiche, ma alcuni usi delle plastiche vanno effettivamente messi al bando. Con prudenza e capacità selettiva. Il Wwf propone di mettere al bando almeno i contenitori monouso ed avremo eliminato il 40% dei rifiuti plastici. In realtà tutta la filiera del packaging va ripensata. E non è semplice. Ma alcuni contenitori in materiale polimerico forse vanno conservati. Pensiamo alle siringhe di plastica monouso che hanno sostituito quelle di vetro riutilizzabili. In questo caso il processo «usa e getta» si è rivelato utile, perché contribuisce a tenere sotto controllo la diffusione di molte malattie infettive (Aids compreso). È il «getta», semmai, che anche in questo caso va modificato. Nulla deve essere gettato, tutto deve essere riciclato.
Questa è la prima delle grandi strategie per contenere e minimizzare l’impatto ambientale della plastica. Le tecnologie già
esistono. Altre tecniche e altri materiali plastici possono essere messi a punto investendo di più nella ricerca. Ma il riciclo è già oggi possibile. A frenarlo non è l’impossibilità, ma la cultura diffusa e una mancanza di organizzazione. Cosa impedisce, per esempio, ai produttori e agli utilizzatori di flaconi di plastica di uniformare forme e chiusure, in modo che il riciclo possa essere totale?
sostituzione con altri materiali
Certo, anche in altri settori la plastica può essere sostituita da altri materiali, tradizionali (le finestre di legno invece che in Pvc, per esempio) o innovativi. Però facendo attenzione a effettuare una corretta valutazione di impatto ambientale. In modo che la pezza non si dimostri peggiore del buco. Facciamo un esempio: siamo proprio sicuri che piatti di carta monouso siano più sostenibili di piatti di plastica monouso? Non lo sappiamo. Dipende da tanti fattori. Che vanno attentamente valutati, prima di effettuare scelte improvvide.
ripensare la nostra economia e i nostri stili di vita
Oltre al riciclo (e all’eventuale sostituzione con altri materiali più ecosostenibili), c’è un’altra strada maestra da percorrere: il risparmio. O, se volete, l’abbattimento dei consumi inutili. Una parte rilevante del packaging non ha alcuna funzione utile. Spesso ha solo una (malintesa) funzione estetica. In questo caso non è (solo) la plastica che va eliminata, è il packaging in sé.
In conclusione. Non accettiamo l’uso della plastica così com’è oggi. Modifichiamolo profondamente. Senza fare una battaglia ideologica al materiale, ma ripensando la nostra economia e i nostri stili di vita. Senza fare in modo che la demonizzazione della plastica come materiale diventi l’alibi per conservare il nostro modello economico e i nostri stili di vita fondati sui consumi individuali. Essi sì insostenibili alla radice.
Pietro Greco
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SOLO UNA PAROLA: PLASTICA. Dal film IL LAUREATO.
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