Europa, Europa
Il “costo sociale e politico” della Brexit
di Gianfranco Sabattini
Sarà bene che si aggiornino coloro che devono le loro fortune elettorali al sostegno dell’idea che l’uscita dall’Unione Europea rappresenti la soluzione dei problemi dell’Italia; il “costo dell’uscita” non potrà essere ridotto al disagio temporaneo del cambio della valuta e del ritorno alla lira (disagio peraltro ritenuto compensabile con i presunti vantaggi che dovrebbero essere assicurati dal ricupero del pieno controllo della politica monetaria da parte del Paese). Il “costo” sarebbe infatti di ben altra natura e spessore, come stanno a dimostrare le vicende dell’”ex Paese comunitario”, il Regno Unito che, con il referendum svoltosi il 26 giugno del 2016 ha deciso di uscire dall’Unione Europea. I “troubles” britannici, che caratterizzano la ricerca di opportuni accordi per rendere definitivo il “divorzio” del Regno Unito dall’Unione, stanno a dimostrare (come nessuno immaginava) quanto siano complicate, complesse e destabilizzati le procedure necessarie per giungere ad un accordo finale.
Il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione avrebbe dovuto concludersi il 29 marzo 2019, ma tale data è stata ulteriormente rinviata, senza la certezza che alla nuova scadenza sia possibile giungere alla fine delle trattative, la cui mancata conclusione sta provocando una grave instabilità economica e politica all’interno del Paese già membro dell’Unione. L’incertezza che grava sulla fine del processo del “leave” è provata dal fatto che, nel novembre del 2018, in una bozza di accordo stipulato tra il governo britannico e i negoziatori europei si è preferito indicare come termine ultimo il “20XX”, lasciando intendere che l’accorso finale sulla Brexit potrebbe essere raggiunto addirittura anche nel 2099.
Sulle problematiche connesse alla posizione di stallo in cui “languono” le trattative riguardo alle modalità con cui “liquidare” i rapporti instaurati tra il Regno Unito e l’Unione durante la quarantennale appartenenza del primo alla seconda, è dedicato quasi per intero, con interessanti articoli, il n. 2/2019 della rivista “Italianieuropei”; particolare interesse riveste l’articolo di Paolo Graziano e Mario Almagesti (entrambi docenti di Scienza politica all’Università di Padova), nel quale gli autori propongono alla “sinistra dispersa italiana che volto non ha” di approfittare dell’esperienza che la Gran Bretagna sta vivendo (a seguito della decisone di fuoriuscire dall’Unione), per elaborare un progetto politico, idoneo a consentire al “campo progressista” di porsi come valida alternativa all’euroscetticismo dei partiti attualmente al governo dell’Italia.
In presenza dello stallo sulla prosecuzione delle trattative tra il Regno Unito e l’Unione europea, si è fatto sempre più probabile – afferma l’eurodeputato Pier Antonio Panzeri, nell’articolo “Come la Brexit ha cambiato l’immagine dell’UE” apparso sul n. 2/2019 di “Italianieuropei” – “lo spettro di un no deal, cioè una separazione tra Regno Unito e Unione Europea senza un accordo che non riservi un canale preferenziale per le relazioni tra i due soggetti”. I timori principali riguardano il ritorno dei burocratici controlli ai confini del Regno Unito, per via del fatto che esso, raggiunto l’accordo, finirebbe coll’essere considerato Paese terzo dall’Unione, con tutte le complicazioni che tale status comporterebbe sul piano del libero svolgimento degli scambi commerciali e del movimento delle persone con i Paesi europei; ma i timori riguardano soprattutto la situazione di instabilità economica, manifestatasi nel Regno, già all’indomani dello spoglio del referendum favorevole al “leave”, a causa dello stato di incertezza sulla chiusura dell’accordo.
Il continuo rinvio della chiusura dell’accordo non può, perciò, che essere fonte di preoccupazioni per i cittadini e le imprese delle due parti in causa che, rispettivamente, risiedono ed operano fuori sede e che hanno potuto sinora continuare a lavorare, studiare ed operare nel Paese di residenza, beneficiando dei diritti dei quali godevano prima del referendum. La prospettiva di una “Brexit” no deal” potrebbe dare corso ad un esodo e ad un controesodo di persone e di imprese tra le due parti, con ripercussioni negative, non solo sulle condizioni di vita di molti cittadini, ma anche sulle normali condizioni di operatività delle imprese, soprattutto di quelle operanti soprattutto nel settore dei servizi sanitari e sociali. Sebbene l’Unione Europea abbia dichiarato che, in condizioni di reciprocità da parte del Regno Unito, garantirà ai cittadini britannici le stesse condizioni di residenza delle quali essi godono attualmente, la mancanza di un accordo definitivo non manca di essere fonte di preoccupazione, soprattutto per i tre milioni di cittadini europei residenti in Gran Bretagna (700.000 dei quali sono italiani).
Nel complesso, dunque, il processo di uscita del Regno Unito dall’Unione Europea si sta rivelando, secondo Panzeri, “un evento di portata storica” e, indipendentemente dalle forme, ancora non definite, che l’evento assumerà, esso (l’evento) influenzerà profondamente “il futuro dell’Unione Europea”. Il lungo e complesso negoziato che sembra non avere termine ha messo in evidenza la “profondità dei legami giuridici, amministrativi, economici e sociali che più di quarant’anni di partecipazione del Regno Unito al processo di integrazione hanno determinato, e quanto sia difficile reciderli”.
Dopo il referendum, gli euroscettici e, in generale, i critici del progetto europeo avevano inteso rappresentare la Brexit come la dimostrazione che l’adesione all’Unione non costituisse una scelta irreversibile e come fosse facile recedere da essa. Il tempo, però, è valso a smentire, sia gli euroscettici, sia coloro che sostenevano quanto fosse facile la recessione dall’Unione; infatti, sono passati tre anni dal referendum, e il Regno Unito sta attraversando un periodo di instabilità maggiore di quella conosciuta negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale; cosicché, molti suoi cittadini si sono pentiti della loro originaria decisione di aderire alla proposta di abbandonare l’Unione, mentre altri chiedono che si torni ad una nuova consultazione popolare.
La sicurezza con cui i vincitori del referendum esultavano per il risultato raggiunto, hanno affievolito oggi il loro fervore; a molti di essi, l’uscita dell’Unione non appare più una liberazione, ma piuttosto la fonte di un crescente caos politico, del quale il Regno Unito sembra incapace di liberarsi. Da ciò che doveva essere il “primo calcinaccio caduto dell’edificio europeo – afferma Panzeri – è emerso uno dei messaggi più europeisti di sempre [...]. E così anche molto politici euroscettici che basavano la loro dialettica su messaggi contro l’Europa e contro l’euro” hanno dovuto provvedere a riorientare il loro pensiero, “concludendo che fosse più conveniente conquistare le istituzioni europee per modificarle dall’interno piuttosto che abbandonarle e trovarsi soli in mare aperto”.
Oltre all’instabilità economica e al caos politico dovuti all’incertezza sulla chiusura dell’accordo tra le due parti, vi è anche un altro problema che preoccupa non poco i britannici; si tratta del fallimento cui sono andati incontro sinora tutti i tentativi compiuti dal Regno Unito di raggiungere con l’Unione europea un accordo sul cosiddetto “backstop” per il confine tra l’Irlanda del Nord e la Repubblica d’Irlanda. La Brexit, infatti, sta mettendo in discussione l’accordo del Venerdì Santo, stipulato alla fine degli anni Novanta, che aveva portato alla pace l’Irlanda e il Regno Unito, dopo tanti anni di violenze ed i attentati; questo accordo – ricorda Domenica Cerabona, nell’articolo “Brexit, un’equazione a troppe incognite”, apparso anch’esso su “Italianieuropei” n. 2/2019 – è stato costruito all’interno del quadro giuridico comunitario, partendo dal presupposto “che il confine tra le due Irlande sarebbe stato quello tra due membri dell’Unione Europea e dunque un soft border, cioè “un confine senza controlli doganali, necessità di verifica di passaporti o visti”, per persone e merci.
Con l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, il problema del confine tra le due Irlande, dato per risolto, torna ad essere un’incognita per i britannici; ciò perché, se da un lato l’Unione non vorrà concedere all’Irlanda del Nord una posizione di favore rispetto al quadro legislativo comunitario, dall’altro lato il Regno Unito non potrà permettersi di consentire che l’Irlanda del Nord goda di uno status privilegiato rispetto alle altre nazioni del Regno. Il problema non si presta ad essere risolto facilmente, per le difficoltà che nascono dalla necessità di salvaguardare le regole comunitarie esistenti in fatto di libera circolazione di persone, capitali e merci solo entro l’area comunitaria; se all’interno di questa è un fatto del tutto normale che tra Regno Unito e Repubblica d’Irlanda non esistano controlli sulla libera circolazione di persone, capitali e merci, una volta però che il Regno Unito dovesse uscire dall’area comunitaria, l’assenza di controlli al confine tra le due Irlande non sarebbe più giustificata.
Per risolvere in via transitoria questo problema tra il Regno Unito e l’Unione europea è stato concordato un “backstop”, cioè una “sospensione della Brexit”, con la quale è stato stabilito che sino a quando non si troverà un accordo soddisfacente tra le parti sul problema del confine, il “backstop” rimarrà in vigore; in tal modo, il Regno Unito, a causa della mancata soluzione del problema del confine tra le due Irlande, si troverà esposto al rischio, denunciato dai sostenitori della Brexit, di conservare lo status di membro dell’Unione Europea, perdendo però, come osserva Cerabona, “il diritto di partecipare alle fasi decisionali comunitarie”. Il caos politico che la Gran Bretagna sta attraversando, a causa dei problemi insorti dopo il referendum del 2016, ha raggiunto un livello tale da indurre un numero crescente di cittadini a manifestare per chiedere, col supporto di diversi milioni di firme per il “remain”, un nuovo referendum per controvertire il primo.
Le manifestazioni che si susseguono sono un fatto inaspettato di grande importanza, che prospetta un impatto positivo sul rilancio del processo d’integrazione del Vecchio Continente e sulla riforme delle attuali Istituzioni comunitarie e delle regole concernenti l’eurozona. L’impatto potrebbe avere conseguenze politiche positive anche per l’Italia. Il fatto che le difficoltà sollevate per il Regno Unito dal “leave” consenta di ricuperare l’dea di Europa nella coscienza dei cittadini di molti Stati europei, potrebbe costituire l’occasione che le forze riformiste e progressiste italiane dovrebbero cogliere per schierarsi “unitariamente”, alla vigilia delle elezioni europee, con l’obiettivo di realizzare un’altra Europa.
Questa occasione è offerta dal movimento di fondo che, a livello europeo, proprio a seguito dei molti “troubles” che stanno affliggendo i britannici dopo il referendum del 2016, sta lentamente e progressivamente emergendo. Non è casuale che i disagi del Regno Unito siano seguiti da segnali che vanno nella direzione di una riappropriazione dell’idea di Europa da parte dei cittadini europei. Ne è prova il fatto, come riporta nel suo articolo Antonio Panzeri, che l’ultimo Eurobarometro (i sondaggi periodici che le Istituzioni europee commissionano per rilevare le tendenze di opinione presso tutti gli Stati dell’Unione), condotto sul finire dello scorso anno, mostri come un numero sempre maggiore di cittadini in tutti gli Stati membri valuti che continuare ad appartenere all’Unione Europea sia positivo per il proprio Paese. Il 62% del campione intervistato si è infatti pronunciato in tal senso, esprimendo il gradimento pro Europa più alto registrato negli ultimi venticinque anni; inoltre, il 68% degli intervistati ritiene che il loro Paese abbia beneficiato dell’appartenenza all’Unione.
Queste tendenze di opinione non possono lasciare indifferenti le forze riformiste e progressiste italiane; a parere di Paolo Graziano e Mario Almagesti, autori di “Pensare un’altra Europa: un’opportunità per il campo progressista” (una sorta di “Manifesto” sulla necessità di riformare l’attuale Europa, pubblicato sempre sul n. 2/2019 di “Italianieuropei”) i partiti italiani che hanno vinto le elezioni del 4 marzo 2018 devono il loro successo al fatto che l’Europa attuale, con l’imposizione di un’insopportabile austerità, di una pesante limitazione di sovranità e di eccessivi vincoli alle procedure democratiche, è stata responsabile dello smarrimento, o quantomeno del forte affievolimento, degli ideali europeisti; ciò che è valso a radicare e a diffondere l’euroscetticismo, politicamente “capitalizzato” dai partiti attualmente al governo dell’Italia.
Partendo da queste considerazioni, le forze riformiste e progressiste italiane potrebbero trarre motivo per elaborare una proposta politica unitaria che, tenendo conto dell’atteggiamento favorevole all’Europa da parte della maggioranza dei cittadini europei, sappia proporre una riforma delle Istituzioni europee (in particolare di quelle che presiedono al governo dell’eurozona) in grado di rispondere alle esigenze dei vari Paesi dell’Unione. E’ questa la prospettiva di azione politica che può animare e rilanciare, secondo i due docenti di Scienza politica, il “campo progressista”: questa prospettiva non può che avere come obiettivo il ripensamento di un’altra Europa, inserita in un percorso di integrazione più solidale, inclusiva e partecipativa, che risulti di “segno radicalmente diverso” rispetto all’Europa sinora realizzata.
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