60anni della Parrocchia di Sant’Eusebio a Is Mirrionis

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L’INFLUENZA DELLA PARROCCHIA NELLA VITA DEL QUARTIERE
franco-meloni-alla-fiera-per-sanita(Intervento agli atti di Franco Meloni)

Premessa
In questo periodo capita molto spesso che il Quartiere di Is Mirrionis salga alla ribalta della cronaca cittadina per comportamenti malavitosi, retate e arresti per possesso e spaccio di droga e così via… (Segue)
Tutto questo male fa passare in sordina ciò che di buono si è fatto e si fa in Quartiere, soprattutto ad opera di organizzazioni storiche (cito le Acli), dell’associazionismo di base (cito ad esempio: il Centro di iniziativa socio-culturale di via Brianza e, per ultimo, il Comitato di Quartiere La Casa del Quartiere), richiamando infine – per parlare del tema di questo Convegno – le iniziative sociali delle diverse Parrocchie che operano nel Quartiere, considerato nella sua maggiore estensione di Is Mirrionis-San Michele (SS Pietro e Paolo, Massimiliano Kolbe, Sant’Eusebio e, in parte Medaglia Miracolosa). Qui ovviamente ci limitiamo alle benemerite iniziative della Parrocchia di Sant’Eusebio, di cui peraltro in questo mio breve intervento non tratterò se non per un doveroso rapido richiamo per dar conto della loro importante presenza: dalla Caritas parrocchiale, alla biblioteca, alle attività sociali, culturali e sportive per i ragazzi, i giovani, gli anziani, la promozione di iniziative terze come il Teatro Sant’Eusebio… Altri ne parleranno.
Io, dopo un ricordo personale del mio legame con il Quartiere (nel quale non abito più – ma in cui tuttora abitano in case diverse due miei fratelli e una mia sorella con le rispettive famiglie – e in cui opero attraverso l’impegno nel Comitato Casa del Quartiere), mi permetto di riflettere su quanto a mio parere può fare la Parrocchia per il Quartiere. Quanto può fare di più di quanto già fa, o meglio: di nuovo rispetto a quanto fa.

Il mio rapporto con Is Mirrionis
Seguirò il filo della memoria prendendo in considerazione un arco di tempo di circa 56 anni (1963-2019)

1963
In questo anno la mia famiglia si trasferì dal quartiere di Stampace a quello di Is Mirrionis, precisamente in uno dei nuovi nuclei delle case popolari Ina Casa (poi IACP) del complesso realizzato tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni 60 (da molti chiamato Saint Tropez, dall’intitolazione di un bar all’ingresso del nuovo nucleo residenziale). Alla mia famiglia fu assegnata una casa al civico 10 della via Parragues.
Qui un ricordo a mio parere significativo: accompagnai mia madre e una mia sorella al Centro Sociale, dove le assistenti sociali dell’ISSCAL (Istituto per il servizio sociale case per i lavoratori) – un Ente pubblico finanziato dalla Gescal – spiegarono come doveva essere organizzata la gestione condominiale dei palazzi (case in locazione o “a riscatto”).
Al riguardo una riflessione sulla capacità che si aveva allora di intervenire in modo integrato sull’organizzazione della vita sociale in tutti gli aspetti (lavoro, diritto alla casa, socialità). Una veloce ricerca in internet ci da conto della capacità di questo Ente di affrontare le problematiche sociali con interventi sostenuti da “documentazione e ricerca” e con un personale operativo (parlo delle assistenti sociali) capace e professionale.

Devo dire che in quel periodo militavo nelle fila dell’Azione Cattolica e continuavo a far riferimento all’associazione “Giuseppe Toniolo” della Parrocchia di S.Anna in Stampace. Lasciata detta associazione, nel 1967, continuai il mio impegno nella Presidenza diocesana della Giac fino al 1970-71.
Intrattenevo certo rapporti di amicizia con la Parrocchia, in particolare con diversi amici miei coetanei e saltuariamente partecipavo ad iniziative organizzate dal vivace gruppo dei giovani sotto la direzione spirituale di don Gianni Sanna, coadiuvato per un certo periodo anche da don Andrea Portas. Ero al corrente della vita parrocchiale intanto perché mia madre era un’assidua fedele praticante della Parrocchia e in quanto mio fratello Giacomo era fortemente impegnato nell’attività catechistica e pastorale. Proprio dalle richieste di un gruppo di giovani, lavoratori e disoccupati, che facevano riferimento alla Parrocchia, nacque l’idea della Scuola Popolare. Dopo una serie di incontri con questo gruppo la Scuola Popolare cominciò a funzionare nel mese di ottobre 1971, nei locali messi a disposizione dal parroco don Antonio Porcu.

1971
Ci trasferimmo nel Centro Sociale proprio alla fine dell’anno, dopo essere stati allontanati dal parroco (il quale peraltro – dopo l’ intervento del Cardinale Baggio – ci assegnò un magazzeno di fronte al Centro e di fianco al Circolo Acli di quartiere (via Is Mirrionis 43/d). La Scuola cresceva e aveva bisogno di nuovi locali. Ci presentammo quindi alle Assistenti sociali (Clara Loddo, Lalla Carta, Lidia Mulas) che ancora “abitavano” il Centro e, ottenendone la fiducia, cominciammo a funzionare in quei locali, inizialmente come ospiti, successivamente come “occupanti”, comportandoci da legittimi possessori. Riuscimmo a ottenere una sorta di formalizzazione della nostra titolarità attraverso un accordo con l’allora presidente dello IACP (prof. Piero Marcis) che incontrammo nella sede di via Firenze. Nel mentre avevamo costituito formalmente con atto notarile il “Centro culturale Scuola Popolare dei Lavoratori di Is Mirrionis”.
Fummo un esempio di notevole capacità organizzativa.

1972 – 1975
In questi anni si sviluppò l’esperienza della Scuola Popolare, che con l’istituzionalizzazione dei corsi (150 ore – scuole serali per lavoratori”, passò il testimone allo Stato
Un bell’esempio di passaggio dall’welfare autogestito a quello pubblico, attraverso la “pratica dell’obbiettivo”, con gli aspetti positivi (diritti sociali costituzionalmente previsti e finalmente assicurati alla generalità dei cittadini) ma anche con gli aspetti negativi della burocratizzazione e della “ingessatura” della partecipazione nelle gabbie istituzionali.

1975 – 2000 (soglie del) …
L’attività proseguì con le iniziative del Circolo di quartiere e del Comitato di Quartiere di Is Mirrionis.
Tra l’altro il Centro Sociale ospitava il “Coordinamento dei Comitati e Circoli di Quartiere di Cagliari“ e la redazione della rivista “Cittàquartiere”, di proprietà della Cooperativa “Senzaquartiere”.

Libro SP Is Mirrionis caTutta la vicenda della Scuola Popolare è descritta nel libro di recente edizione, mentre la vicenda contemporanea e soprattutto successiva del Centro culturale sarà oggetto di auspicabili iniziative di memoria (un altro libro e un documentario video) su cui si sta lavorando. Una specifica iniziativa consiste nel recupero del Centro Sociale, ma di questo vi parlerà Terenzio Calledda, presidente del Comitato Casa del quartiere.

L’INFLUENZA DELLA PARROCCHIA NELLA VITA DEL QUARTIERE
Quanto può fare di più di quanto già fa, o meglio: di nuovo rispetto a quanto fa

Per sviluppare, seppure in estrema sintesi quanto propongo, faccio riferimento alle riflessioni di alcuni teologi/sociologi (1) tese a ripensare l’annuncio del cristianesimo nelle città e quindi nei suoi quartieri, a partire dalle provocazioni di papa Francesco in tema di «sfide delle culture urbane» contenute nella Evangelii gaudium (2), che, per certi aspetti, detti Autori considerano come “punto di partenza e di arrivo di molte delle sfide del mondo attuale”*.
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Secondo questi Autori* oggi un compito ineludibile per i cattolici è «tornare a pensare» e a “far pensare”, facendolo con tutti coloro che sono disponibili, credenti e non credenti. Come sostengono (uso il presente) il filosofo Norberto Bobbio e il cardinale Carlo Maria Martini:
«La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza».
E per questo occorre riscrivere, dalla testa ai piedi, «le istruzioni del vivere da quelle del credere», in un contesto di progressiva estraniazione le une dalle altre, è proprio quel «cambiamento d’epoca» costituito dalla postmodernità che caratterizza in modo spiccato le culture urbane (che non è estraneo, soprattutto a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, anche agli ambienti rurali).

La postmodernità ha «un impatto fortissimo sul cristianesimo vissuto, sul modo cioè in cui quest’ultimo ha, lungo due millenni, fissato le sue istruzioni per credere e soprattutto sul modo in cui le ha raccordate con quelle per vivere, ovvero sulla concreta azione pastorale, oggi semplicemente paralizzata e sempre meno capace di far sorgere nuovi credenti nel Vangelo».

Il postmoderno richiede ai credenti di ripensare profondamente il loro modo di essere cristiani: non per esserlo di meno, ma per esserlo con maggiore autenticità. Contrariamente a quanto succedeva fino a qualche decennio fa, oggi la fede non si trasmette più semplicemente per tradizione, familiare o sociale, quasi per osmosi ambientale di qualcosa di ovvio per tutti, ma è sempre più oggetto di scelta consapevole e criticamente avvertita, di fronte ad un pluralismo crescente di credenze e non credenze.

Oggi il cristianesimo sembra essere essenzialmente «una cosa per bambini e, tutt’al più, per i loro nonni». Ed è «sempre più condivisa l’idea che l’esperienza del credere non è per gli adulti e, di conseguenza, non è per i giovani, i quali, per l’inclinazione stessa della loro condizione di vita, si proiettano più verso il mondo degli adulti che verso quello dei bambini».

Per «dare vita ad un modo di dire e di fare cristianesimo sotto e alle condizioni che il postmoderno pone», è quanto mai urgente prendere sul serio quanto papa Francesco scrive al n. 35 della Evangelii gaudium: «Quando si assume un obiettivo pastorale e uno stile missionario, che realmente arrivi a tutti senza eccezioni né esclusioni, l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e, allo stesso tempo, più necessario».

«E che cosa ci sarebbe oggi di più bello, di più attraente, di più necessario da annunciare alla popolazione urbana, così spesso inquieta, così spesso isolata, così spesso chiusa in se stessa e pur aperta a qualche spiritualità, se non proprio la gioia del Vangelo».

Sperimenta e testimonia la gioia del Vangelo solo una «comunità di festa», capace di purificare e vivacizzare una fede stanca e abitudinaria che soffre di «una certa depressività e monotonia».

Per essere all’altezza della sua missione e per abitare in modo creativo la condizione della postmodernità la «Chiesa in uscita missionaria» proposta da papa Francesco deve ritornare alla «via originaria del Vangelo» esprimibile «in un indisgiungibile triangolo: Gesù, i discepoli e la folla».

I discepoli, scelti a rappresentanza delle folle, fanno vita comune e itinerante con il Maestro e, pur tra esitazioni e timori, ne ascoltano la Parola e cercano di credere. Le folle, invece, sono un insieme di gente incuriosita e interessata all’insegnamento del Nazareno perché ne sperano un aiuto ma non necessariamente lo seguono. I discepoli, partecipando all’opera di Gesù, sono invitati a mettersi a servizio della folla. C’è stato un tempo in cui curiosità della folla e sequela del discepolo coincidevano nella «cristianità». Ma oggi, «venuto meno il costume cristiano», non è più così. Oggi, perdere la folla, destinataria del discepolato, potrebbe significare la fine della Chiesa.

Ne consegue che, in primo luogo, è da mettere al bando la logica del “piccolo è bello” e dei “pochi ma buoni”.

La parrocchia non è e non può essere sinonimo di campanilismo o di mentalità chiusa.
Al contrario, la parrocchia, in quanto comunità «vicina alle case» (appunto, para-oikia, paroikia), ha il compito «di realizzare la prossimità con le folle», diffidando dei «duri e puri», abbattendo muri e confini, costruendo ponti, cercando di essere lievito nella pasta (Lc 13,21), relazionandosi con credenti e non credenti, praticanti e non praticanti, critici e perplessi, agnostici e indifferenti e intercettando – come afferma la Gaudium et spes – le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini e delle donne di oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono.

L’aggettivo “cattolica”, che qualifica la fede, sta a indicare che la missione della Chiesa è quella di rivolgersi, con stile dialogante, alla “totalità” di persone che vivono in un determinato contesto urbano: non solo, quindi, ai membri della comunità ecclesiale, ma anche a chi nella comunità dei credenti immediatamente non si riconosce.

«Il modello della Chiesa missionaria non è la propaganda, ma l’inculturazione, cioè la testimonianza cristiana negli ambienti di vita e nella cultura». Esige una buona capacità di incontro e di dialogo e implica l’esplicitazione rispettosa e mite della propria identità cristiana che si fa carico della fede altrui nelle più variegate forme. La caratteristica testimoniale, per rendere ogni fede cristiana contagiosa e irradiante verso l’esterno, va curata con sistematicità e continuità mediante idonee ed efficaci offerte formative. Si deve essere consapevoli, infatti, che oggi «si rimane credenti solo se convinti, e si resta convinti solo se in formazione continua».

Sulla base delle indicazioni di papa Francesco, questi Autori sono impegnati ad elaborare una teologia della città in grado di aiutare i credenti a rispondere in modo convincente alle esigenze odierne.

Quanto all’individuazione dei contenuti di una possibile spiritualità nella città, la prima cosa da fare è superare ogni «atteggiamento difensivo, chiuso, anestetizzante e pessimista» che impedisce ai soggetti dell’agire pastorale della Chiesa di restare responsabili di fronte al tempo presente e di sognare in grande, come grandi sono i pensieri di Dio.

Nell’attuale contesto culturale urbano non possono essere trascurati importanti segnali che rappresentano una grande sfida per testimoniare ed annunciare il Vangelo:

- l’apertura al sacro e al trascendente,
- la sete di una spiritualità capace di introdurre maggiormente nello spirito del Vangelo,
- il bisogno di scoprire o riscoprire l’immagine di un Dio che si propone e non si impone,
- la riscoperta dell’importanza della coscienza e della libertà della persona,
- l’atteggiamento critico nei confronti di tutte le ideologie assolutizzanti…

In sostanza, si tratta di «continuare a inventare il cristianesimo» venendo incontro a quella sete di Dio presente anche oggi nei contesti urbani, ma per lo più non soddisfatta dalle proposte organizzative provenienti dal modello di parrocchia rigidamente ancorato al concilio tridentino.

Vi è dunque un compito storico «a cui una Chiesa che intende evangelizzare la città e il domani non può sottrarsi». È quello di «uscire sulla soglia e iniziare a portare la gioia del Vangelo anche fuori dai recinti di sicurezza della pastorale ordinaria e dagli schemi e linguaggio precostituiti». «Continuare a occuparsi di mantenere in vita – cosa peraltro neanche sempre scontata – coloro che sono già dentro, significa destinare il cristianesimo a una lenta inesorabile morte da invecchiamento e logoramento».

Come realizzare questo programma?

Occorre parlarne, discutere, progettare e realizzare sia negli ambiti dei parrocchiani militanti, assidui… sia in tutti gli altri ambiti possibili che coinvolgono non solo i credenti, ma anche i non credenti o coloro che fanno riferimento ad altre confessioni o religioni.

Occorre creare un’Agenda fatta di iniziative, a completamento e miglioramento di quanto già si fa:

- che rispondano alle esigenze “profonde” sopra elencate;

- che intervenga nelle problematiche quotidiane della gente (le folle): casa, lavoro, istruzione, sanità… cercando di mettere insieme i punti di vista e prospettare soluzioni (La politica diceva san Paolo VI è la più alta forma della Carità);
- tenere sotto pressione i decisori politici per le scelte che essi devono fare. Costringerli a operare per rispondere alle esigenze del popolo. Per parlare di questioni che ci interessano direttamente come abitanti del Quartiere (e della città). facciamo l’esempio dell’ITI (Interventi Territoriali di Investimenti) di San Michele-Is Mirrionis, progetto di grande rilevanza e finanziato in misura cospicua (15 milioni di euro), che sembra essere stato imposto al/ai Quartiere/Quartieri. Occorre essere pessimisti per come si sta realizzando (ritardi, scarso coinvolgimento, obbiettivi che cambiano direzione nella concreta attuazione: quale partecipazione?) e ottimisti per quanto riusciremo insieme a raddrizzare e realizzare positivamente. E qui la Parrocchia deve avere un ruolo e deve saper sviluppare un’iniziativa.
Sappiamo che il terreno dell’impegno politico è difficile e rischioso, ma non lo possiamo evitare/snobbare. Siamo lontani dal ricostituire ipotesi di collateralismi (partito dei cattolici), ma non possiamo non esserci, anche come cattolici organizzati, rispettosi delle diverse opzioni politiche. A noi interessano i valori cristiani e la loro concreta incarnazione nelle cose che si fanno.

Conclusioni?
Costruiamo insieme!

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(1) Armando Matteo, docente di teologia presso la Pontificia Università Urbaniana;
Domenico Cravero, parroco della diocesi di Torino, psicologo, psicoterapeuta, sociologo e scrittore; Francesco Cosentino, teologo e docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma.
(2) Esortazione apostolica Evangelii gaudium, nei paragrafi 71/75.
Sostiene papa Francesco che
“71-74 Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. (…) Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza.
La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile. D’altra parte, vi sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita personale e familiare, però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” o gli “avanzi urbani”.
La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti.
In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza.
75. Non possiamo ignorare che nelle città facilmente si incrementano il traffico di droga e di persone, l’abuso e lo sfruttamento di minori, l’abbandono di anziani e malati, varie forme di corruzione e di criminalità.
Al tempo stesso, quello che potrebbe essere un prezioso spazio di incontro e di solidarietà, spesso si trasforma nel luogo della fuga e della sfiducia reciproca. Le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare.
La proclamazione del Vangelo sarà una base per ristabilire la dignità della vita umana in questi contesti, perché Gesù vuole spargere nelle città vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Il senso unitario e completo della vita umana che il Vangelo propone è il miglior rimedio ai mali della città, sebbene dobbiamo considerare che un programma e uno stile uniforme e rigido di evangelizzazione non sono adatti per questa realtà. Ma vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città”.

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* Per redigere la seconda parte dell’intervento si è utilizzato il bell’articolo, su Settimana News, Andrea Lebra (“Il vangelo nella città”). Lebra riassume i contenuti dei primi due volumi già in libreria: uno di Armando Matteo (Il postmoderno spiegato ai cattolici e ai loro parroci. Prima lezione di teologia urbana), e l’altro a firma di Domenico Cravero (parroco della diocesi di Torino, psicologo, psicoterapeuta, sociologo e scrittore) e Francesco Cosentino (teologo e docente di teologia fondamentale alla Pontificia Università Gregoriana di Roma): Lievito nella pasta. Evangelizzare la città postmoderna [ripreso da PERCORSI DI TEOLOGIA URBANA
15 Gennaio 2019 by Forcesi | su C3dem
].
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Su Aladinews: https://www.aladinpensiero.it/?p=92344
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Dalla Evangelii Gaudium
Sfide delle culture urbane

71. La nuova Gerusalemme, la Città santa (cfr Ap 21,2-4), è la meta verso cui è incamminata l’intera umanità. È interessante che la rivelazione ci dica che la pienezza dell’umanità e della storia si realizza in una città. Abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a tentoni, in modo impreciso e diffuso.

72. Nella città, l’aspetto religioso è mediato da diversi stili di vita, da costumi associati a un senso del tempo, del territorio e delle relazioni che differisce dallo stile delle popolazioni rurali. Nella vita di ogni giorno i cittadini molte volte lottano per sopravvivere e, in questa lotta, si cela un senso profondo dell’esistenza che di solito implica anche un profondo senso religioso. Dobbiamo contemplarlo per ottenere un dialogo come quello che il Signore realizzò con la Samaritana, presso il pozzo, dove lei cercava di saziare la sua sete (cfr Gv 4,7-26).

73. Nuove culture continuano a generarsi in queste enormi geografie umane dove il cristiano non suole più essere promotore o generatore di senso, ma che riceve da esse altri linguaggi, simboli, messaggi e paradigmi che offrono nuovi orientamenti di vita, spesso in contrasto con il Vangelo di Gesù. Una cultura inedita palpita e si progetta nella città. Il Sinodo ha constatato che oggi le trasformazioni di queste grandi aree e la cultura che esprimono sono un luogo privilegiato della nuova evangelizzazione.[61] Ciò richiede di immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane. Gli ambienti rurali, a causa dell’influsso dei mezzi di comunicazione di massa, non sono estranei a queste trasformazioni culturali che operano anche mutamenti significativi nei loro modi di vivere.

74. Si rende necessaria un’evangelizzazione che illumini i nuovi modi di relazionarsi con Dio, con gli altri e con l’ambiente, e che susciti i valori fondamentali. È necessario arrivare là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città. Non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale. Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile. D’altra parte, vi sono cittadini che ottengono i mezzi adeguati per lo sviluppo della vita personale e familiare, però sono moltissimi i “non cittadini”, i “cittadini a metà” o gli “avanzi urbani”. La città produce una sorta di permanente ambivalenza, perché, mentre offre ai suoi cittadini infinite possibilità, appaiono anche numerose difficoltà per il pieno sviluppo della vita di molti. Questa contraddizione provoca sofferenze laceranti. In molte parti del mondo, le città sono scenari di proteste di massa dove migliaia di abitanti reclamano libertà, partecipazione, giustizia e varie rivendicazioni che, se non vengono adeguatamente interpretate, non si potranno mettere a tacere con la forza.

75. Non possiamo ignorare che nelle città facilmente si incrementano il traffico di droga e di persone, l’abuso e lo sfruttamento di minori, l’abbandono di anziani e malati, varie forme di corruzione e di criminalità. Al tempo stesso, quello che potrebbe essere un prezioso spazio di incontro e di solidarietà, spesso si trasforma nel luogo della fuga e della sfiducia reciproca. Le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare. La proclamazione del Vangelo sarà una base per ristabilire la dignità della vita umana in questi contesti, perché Gesù vuole spargere nelle città vita in abbondanza (cfr Gv 10,10). Il senso unitario e completo della vita umana che il Vangelo propone è il miglior rimedio ai mali della città, sebbene dobbiamo considerare che un programma e uno stile uniforme e rigido di evangelizzazione non sono adatti per questa realtà. Ma vivere fino in fondo ciò che è umano e introdursi nel cuore delle sfide come fermento di testimonianza, in qualsiasi cultura, in qualsiasi città, migliora il cristiano e feconda la città.
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franco-meloni-alla-fiera-per-sanita

One Response to 60anni della Parrocchia di Sant’Eusebio a Is Mirrionis

  1. […] una profonda stima reciproca, che abbiamo mantenuto negli anni. Bello, piacevole e utile un recente incontro per i 60 anni della parrocchia di Sant’Eusebio: il suo l’intervento migliore e carico di speranza, rivolto ai giovani e a tutti. Grazie don […]

Rispondi a Addio a don Antonio Porcu | Aladin Pensiero Annulla risposta

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