Che succede? Ragioni per disperare, ragioni per sperare.
DECRETO SICUREZZA. Sicuri, da chi?
di Fiorella Farinelli, su Rocca
C’è un filo nero a legare le diverse materie trattate dal cosiddetto Decreto Salvini, convertito in legge il 3 dicembre scorso. Contrarietà, perplessità, segnalazioni di sicure contraddizioni con principi costituzionali e con trattati internazionali si concentrano da settimane soprattutto sulla parte relativa a «immigrazione e protezione internazionale».
Ma a leggerla bene anche quella su «sicurezza e criminalità» non scherza. Dice, per esempio, che a minacciare la sicurezza della gente perbene ci sarebbero i mendicanti che l’accattonaggio lo esercitano in «modo molesto» (punibili con arresto da 3 a 6 mesi) e i parcheggiatori abusivi, peggio se recidivi (da 6 mesi a 1 anno di car- cere).
Fa ridiventare reati penali (non lo erano più, significativamente, dal 1948) il blocco stradale e l’ostruzione di linee ferroviarie, forme di lotta classiche dei più classici tra i movimenti. Inasprisce (da 1 a 3 anni) le pene per promotori e organizzatori di occupazioni di immobili e terreni. Estende il Daspo, il divieto di accesso agli stadi, anche a presidi sanitari, fiere, mercati, spettacoli pubblici. Introduce nelle città sopra i 100mila abitanti l’utilizzo da parte delle forze dell’ordine, vigili compresi, della pistola elettrica che immobilizza con scariche ad alto voltaggio. Col rischio – secondo Amnesty International che classifica il Taser tra gli strumenti di tortura – di provocare arresti cardiaci e di determinare gravi conseguenze sul feto nel caso di donne incinte (a Genova in effetti la pistola elettrica ha già ucciso un ecuadoregno nel corso di un Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Sono solo alcune delle perle di una norma che non nasconde affatto la convinzione che siano solo questione di ordine pubblico la marginalità, la povertà estrema, persino le forme tipiche del conflitto sociale. Miserie, tensioni, contagi e connessioni tra povertà e criminalità, si può davvero prevenirli solo con una maggiore deterrenza e risolverli con il carcere? O l’intenzione autentica non è trovare soluzioni, ma gonfiare ancora di più l’onda delle paure e della criminalizzazione? È una ricetta infallibile per alimentare altro risentimento, altro disprezzo, altro odio, un mix che porta diritto alla voglia dell’uomo forte al potere. A rammentarlo c’è, tra le altre, anche la storia recente del nostro Paese.
grandi e piccole angherie contro gli immigrati
Anche sull’immigrazione non c’è solo la demonizzazione dei richiedenti asilo e di quanti li accolgono e li aiutano ad integrarsi. Nel mirino della legge ci sono anche gli immigrati stabilizzati, i cinque milioni e più di «regolari», in Italia da anni, che lavorano, fanno impresa, pagano le tasse, hanno famiglia, mandano i figli a scuola, si sposano con cittadini italiani. Con grandi e piccole angherie, tutte contrassegnate da pregiudizi e ostilità, e dall’intenzione evidente di «far cassa». Sono l’aumento da 200 a 250 Euro della tassa per l’avvio delle pratiche di cittadinanza, che si aggiunge a quelle già salate per il rinnovo, ogni due anni, dei permessi di soggiorno. È il prelievo del’1,5% sul money transfer, i 5 miliardi circa di Euro che vengono inviati ogni anno in aiuto delle famiglie rimaste nei paesi d’origine. Un giochetto che vale da solo 60 milioni annui, con tanti saluti non solo al ruolo tradizionale delle «rimesse dei migranti» che, ai tempi in cui ad emigrare per povertà eravamo noi, sono state importantissime per il nostro sviluppo economico , ma anche all’ attuale slogan leghista dell’ «aiutiamoli a casa loro».
Ma il peggio viene con il prolungamento da 24 a 48 mesi del termine per la conclusione dei procedimenti relativi alla cittadinanza, sia quelli richiesti per lunga residenza che quelli per matrimonio con un italiano o un’italiana. Che scandalo che un figlio di genitori stranieri nato in Italia arrivato ai 18 anni possa, se la chiede, accedere più facilmente alla cittadinanza . E che attacco subdolo all’identità nazionale che si possa farlo a soli tre anni dal matrimonio con un cittadino o cittadina italiani.
Nella prima bozza del testo del Decreto c’era del resto anche di più, per l’accesso alla cittadinanza si richiedeva, tra le altre condizioni, che ci fossero anche l’«incensuratezza dei familiari conviventi», l’«assenza di pericolosità sociale», la «condotta irreprensibile», un «reddito pari almeno all’assegno sociale», requisiti che neppure i più proni all’equazione immigrazione eguale delinquenza – come sembra essere qualche grillino – ce l’hanno fatta a digerire del tutto. Hanno digerito con facilità, invece, che anche sulle richieste già avviate di cittadinanza (che sono tante ormai tra gli stabilizzati di lunga durata: nel 2017 le «naturalizzazioni» sono state 200mila), pesi la decisione retroattiva di richiedere come requisito indispensabile il superamento di un test di italiano di livello B1 – superiore a quello richiesto per la conferma dei permessi di soggiorno. E senza l’ombra di un’offerta formativa di tipo nuovo assicurata dalla scuola pubblica. Persino la lingua del paese di accoglienza – promessa e chiave dell’integrazione – ridiventa, come ai tempi del ministro Maroni – una sorta di strumento di «sanzione» della condizione di immigrato.
protezione umanitaria circoscritta
E poi viene il clou. Gli argomenti che, secondo Salvini e il suo governo, hanno giustificato la decisione di procedere per decretazione (che l’articolo 77 della Costituzione limita ai soli casi di necessità ed urgenza), cioè l’«invasione» via mare dei migranti e il fatto che, se sono pochissimi (nell’insieme non più del 15%) i richiedenti asilo che ottengono lo status di rifugiato e la protezione internazionale, sono stati finora circa il 25% quelli che hanno ottenuto una «protezione umanitaria», un permesso di due anni con cui provare a integrarsi, imparare l’italiano, fare corsi di qualificazione professionale, trovare un lavoro, uscire da quello in nero e cominciare una nuova vita.
È qui che scattano, con la falsa rappresentazione di un fenomeno assai distante, per dati numerici, dalla tipologia dell’ «invasione», i provvedimenti centrali della norma. La quasi totale eliminazione della protezione umanitaria – circoscritta a casi di assoluta eccezionalità (da malattie gravissime a premi per atti eroici), l’esclusione di coloro che non ottengono l’asilo dai luoghi di accoglienza organizzati dai Comuni che assicurano i primi passi sulla via dell’integrazione e la deportazione in quelli, gestiti dallo Stato, che sono simili piuttosto a luoghi di detenzione, e un insieme di altre limitazioni. Il divieto, per esempio, di iscriversi alle anagrafi comunali per ottenere almeno una regolare residenza. Il taglio delle risorse destinate ai Comuni per gli Sprar, l’obbligo di restare nei Centri cosiddetti di identificazione per 180 giorni (finora erano 90, ed è la stessa polizia a dire che se nei primi due mesi non si riesce ad avere un accertamento, non ci si riesce di sicuro solo perché se ne allungano i tempi).
Ad essere smantellato, in sintesi, è il solo sistema dell’accoglienza comunale che, tenendo conto che tra i richiedenti asilo ci sono anche persone che non lo ottengono perché scappano dalla povertà e che tuttavia tentano questa strada perché dal 2013 in Italia non ce n’è nessun’altra, ha finora contrastato con più di un successo l’esposizione dei migranti a un abbandono che porta quasi inevitabilmente alla microcriminalità (e del peggio che può seguirne), e proprio distribuendo i migranti nelle piccole località dove è più facile integrarsi ed entrare nel lavoro. Tutto ciò perché l’idea che ispira la legge è del tutto diversa. La cosa da fare, la sola utile e necessaria, è ricacciare indietro tutti coloro che non hanno diritto all’asilo, scoraggiando proprio con il tragico fallimento di tanti progetti di integrazione e, prima ancora, con gli annegamenti in mare, altri probabili arrivi. È l’idea, dunque, di un rimpatrio coatto di tutti gli illegali, del riportarli «a casa loro». Anche se Salvini è il primo a sapere che i rimpatri, anche quelli volontari, si possono fare solo con i pochi paesi d’origine con cui ci sono già appositi trattati internazionali, tra cui alcuni del Maghreb. Col risultato che i rimpatriati sono, inevitabilmente solo poche migliaia l’anno.
finanziamento dei rimpatri
Ma la verità non la si dice, e comunque non importa. È qui, sul finanziamento dei rimpatri, che vanno le risorse sottratte alle politiche comunali di integrazione, 500mila Euro per il 2018, 1 milione e mezzo per il 2019, e altrettanti per il 2020. Ad essere colpiti dall’operazione sono in primo luogo i migranti che non possono né tornare indietro né raggiungere i paesi europei dove hanno appoggi familiari e amicali, ma poi anche le cooperative e le associazioni impegnate nell’impresa, con le reti attorno a loro del volontariato e della società civile. Anche per loro nuovi obblighi, nuovi controlli, nuove regole.
È il ritornello dei 35 Euro procapite al giorno «rubati» agli italiani, è il business da stroncare degli italiani cosiddetti «buonisti» ma in verità interessati solo ai soldi, è la strategia di scoraggiamento e di intimidazione di quella parte della società italiana che, qualsiasi cosa pensi delle migrazioni, sa di doversi misurare con un fenomeno di portata globale. Forse contenibile con politiche internazionali più accorte delle sventate operazioni di guerra in Libia e su altri scacchieri del Medio Oriente, con controllati «corridoi umanitari» che facciano entrare nei nostri confini una parte almeno di quelli disposti a tutto per cambiare paese, con la riapertura di flussi per lavoro che servtrebbero alla nostra economia e a compensare i vuoti del declino demografico. Ma che non può essere cancellato innalzando muri contro i conflitti, la povertà, le catastrofi climatiche. Di tutto questo però non c’è traccia nella legge di Salvini. Solo i muri, solo le polemiche contro l’Europa che non supera il trattato di Dublino, solo quello che inasprisce, impoverisce, inganna.
senza tetto né legge
Si profila dunque, con l’attuazione della legge, non una gestione più efficace dell’immigrazione, ma un disastro umanitario e civile che, perpetuando la falsa rappresentazione dell’«invasione», peggiorerà il clima politico del Paese. Perché se nel 2018 coi barconi sono arrivati solo poco più di 23mila migranti (una riduzione dell’80% rispetto ai due anni precedenti), l’abolizione della protezione umanitaria rovescerà però nelle strade delle nostre città un’altra ondata di migranti senza tetto né legge. I primi sono già arrivati, espulsi dagli Sprar dedicati d’ora in avanti solo ai minori stranieri non accompagnati e a quelli che hanno ottenuto la protezione. Sono i primi di un piccolo esercito che si aggiungerà agli oltre 300mila rimasti intrappolati da noi in fasi precedenti. Un altro bel cesto di opportunità per gli imprenditori dello spaccio e della prostituzione e per chi si arricchisce di sfruttamento e di lavoro nero. La «percezione» dell’insicurezza avrà ottimi motivi per crescere ancora. La paura di quelli che bighellonano senza far niente diventerà ancora più forte. L’insofferenza, la xenofobia, il razzismo, il risentimento per le prestazioni obbligatorie del welfare (a partire dai presidi di pronto soccorso affollati di persone senza accesso al sistema pubblico sanitario), per le occupazioni di spazi e di edifici, sono destinati ad acuirsi. Mentre l’onere di far fronte in qualche modo alle emergenze si rovescerà sui servizi sociali dei Comuni, non a caso tra i soggetti più critici e più preoccupati dell’impatto della nuova legge. Difficile ipotizzare che tutto ciò avvenga per caso, che non ci sia un calcolo della politica che proprio su questo impasto di paure più o meno giustificate di vaste aree della popolazione italiana ha costruito consenso e potere. Bisognerà esserne consapevoli per poter svolgere un ruolo utile. Discutere di ciò che è stato e delle sue conseguenze con la gente, denunciare le falsificazioni della realtà e i fallimenti della logica dei «muri» e dei «rimpatri», sostenere le azioni di accoglienza e di integrazione, valorizzare ciò che di buono si riesce a fare, inventare nuova politica.
In questi giorni sono in molti a polemizzare con il prete di Pistoia che in un’omelia ha dichiarato che, con la legge di Salvini, la famiglia di Gesù non sarebbe potuta scappare dall’infanticida Erode e rifugiarsi in Egitto. E la storia, la nostra storia, avrebbe forse preso un’altra piega. Già. Ci sono luoghi e tempi in cui una decisione o l’altra fanno la storia degli uomini e dei Paesi.
Fiorella Farinelli
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La vera Italia dell’umanità accogliente. Quattro motivi per sperare
Maurizio Ambrosini*
su Avvenire di sabato 29 dicembre 2018
Nel suo Rapporto 2018 Amnesty International chiude il severo capitolo dedicato alle politiche migratorie italiane con un cenno di speranza: la vede incarnata nei cittadini e nelle associazioni che si sono organizzate per opporsi alla xenofobia e per offrire assistenza a rifugiati e migranti. Il caso della mobilitazione di Lodi a favore dei bambini di famiglie immigrate esclusi dalla mensa è forse quello che negli ultimi tempi ha riscosso più interesse, ma questo giornale ha dato voce in molte occasioni alle iniziative di solidarietà sorte in tutta Italia: pensiamo per esempio all’accoglienza diffusa dei rifugiati giunti con i “corridoi umanitari” dal Vicino Oriente e dall’Africa, alle tante scuole d’italiano, ai doposcuola associativi e parrocchiali che seguono i ragazzi di origine immigrata. È importante sottolineare la varietà delle esperienze, dei soggetti e delle motivazioni che si sono attivate sotto la bandiera dei diritti dei migranti.
Non si tratta di élite cosmopolite e senza radici, ma di soggetti collettivi radicati nella società e di tanti cittadini normali e senza etichette.
È il caso, però, di approfondirne maggiormente i diversi profili. Credo infatti che questo complesso di attori possa essere suddiviso in quattro categorie.
La prima è costituita dalle Ong e da altri operatori strutturati e specializzati nel settore umanitario. Sono protagonisti dell’offerta di servizi dedicati, che spaziano dal salvataggio in mare all’accoglienza a terra. Hanno lavorato per diverso tempo in accordo con i Governi, ma possono coltivare visioni, valori e priorità non allineate con quelle dei poteri pubblici, agendo secondo codici, quelli dei diritti umani universali, che possono divergere dalle politiche degli Stati. La veemente campagna contro le Ong ha fondamentalmente questa motivazione: non accettano di ridursi a docile strumento della politica.
La seconda categoria è formata dalle organizzazioni della società civile che intervengono in vario modo sulle questioni dell’immigrazione e dell’asilo, pur non essendo specializzate in tale ambito o rimanendo prevalentemente nell’ambito del volontariato. Spesso combinano servizi operativi con azioni di sostegno e sensibilizzazione a livello politico e culturale. Rientrano qui i sindacati, le istituzioni religiose, le associazioni di volontariato. Per esempio le mense e gli empori solidali, così importanti per le famiglie in difficoltà e i rifugiati esclusi dall’accoglienza. Queste realtà impiegano personale retribuito, ma soprattutto volontari, talvolta cooperando con i poteri pubblici, altre volte compensando con i loro servizi le carenze dei sistemi di accoglienza. Come negli Stati Uniti, spesso si sentono in obbligo di assistere anche immigrati in condizione irregolare, per esempio presso gli ambulatori del volontariato.
Una terza categoria di attori è rappresentata dai movimenti sociali, portatori di istanze politiche radicali di protesta contro lo Stato e il sistema economico capitalistico. Sono particolarmente attivi nelle dimostrazioni contro le campagne xenofobe, ma non si limitano a questo. La novità consiste nel fatto che oltre a realizzare manifestazioni politiche, i movimenti sociali in vari casi si sono organizzati per fornire servizi materiali e immateriali ai migranti in difficoltà, come cibo, accoglienza, socializzazione, assistenza legale e burocratica. Un’evoluzione importante.
In quarto luogo, si possono distinguere singoli e gruppi che si sono attivati spontaneamente a livello locale per fornire servizi ai richiedenti asilo, temporaneamente accolti oppure in transito: per esempio i gruppi attivi per diversi mesi alla stazione Centrale di Milano, o quelli che in maniera diffusa sul territorio, e perlopiù in modo informale, offrono lezioni di italiano o propongono attività sportive, musicali, di animazione del tempo libero ai richiedenti asilo. Anche molti cittadini singoli, senza etichette e senza gruppi di riferimento, si mobilitano localmente per aiutare come possono immigrati e rifugiati.
Nel tempo di Natale, a questo “esercito del bene” va un pensiero di gratitudine. Insieme alla speranza che altri si uniscano a loro, facendo prevalere le ragioni dell’umanità sulla politica delle chiusure e dell’inimicizia.
*Sociologo, Università di Milano e Cnel
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