Dibattito. E la Sinistra?

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Le responsabilità della sinistra di fronte alla crisi del Paese

di Gianfranco Sabattini

La cosa che più colpisce della crisi della sinistra italiana, ma in generale della sinistra che ha governato per tanti anni gran parte dei Paesi ad economia di mercato e retti da regimi democratici, è il fatto che essa (la sinistra) sia stata quasi totalmente disinteressata a cogliere le cause delle trasformazioni che il progresso della scienza e della tecnica determinava nei Paesi della cui condizione era responsabile sul piano economico e su quello sociale. Essa, in sostanza, davanti ai fenomeni che hanno mutato in profondità la vita di milioni di uomini, caratterizzando gli assetti politici, sociali ed economici degli anni a venire, è stata affetta da una grave forma di disattenzione, interessata unicamente dalla cura dei problemi connessi all’unica preoccupazione di conservarsi al potere.
Per questo motivo, la sinistra appare oggi in difficoltà più o meno dovunque, sia per la perdita di consenso, che per la scarsa capacità di comprendere la natura dei nuovi bisogni sociali e le modalità con cui offrire valide e condivise soluzioni. La sinistra è, perciò, vittima di una perdita di consapevolezza che le ha causato un complesso d’inferiorità nei confronti della destra; causa, questo complesso, della mancata considerazione dei motivi che hanno determinato le trasformazioni economiche e sociali che hanno caratterizzato la vita dei Paesi nei quali essa era una delle forze politiche egemoni.
Per affrancarsi dal complesso d’inferiorità, la sinistra deve aggiornarsi e rinnovarsi, ricostruendo l’identità perduta e riformulando una cultura politica in grado di fungere da criterio di orientamento per quanti si riconoscono ancora in un’area politica che ha bisogno di essere ridefinita, se vuole affrontare le nuove sfide poste dalla globalizzazione e dalla sempre più rapida evoluzione delle tecnologie produttive e delle condizioni di operatività del sistema economico (digitalizzazione della conoscenza, robotizzazione del sistema produttivo, trasformazione del lavoro e delle relazioni sociali); fatti, questi ultimi, che hanno determinato, con l’esplosione dei nazionalismi e dei populismi, la radicale mutazione della politica, nonché il crescente affievolimento delle procedure decisionali proprie della democrazia.
In Italia, il dibattito politico non dà alcuna impressione che la sinistra, a fronte dell’egemonia acquisita dal pensiero unico neoliberista, sia impegnata a ridefinire la sua identità, per conformarla alle esigenze del mondo contemporaneo. Il riformismo del quale essa si considera portatrice ideale, è di solito impedito dalle divergenze profonde che animano le sue diverse “anime”; mentre la riflessione sul mondo che cambia è costantemente sacrificato dall’unica preoccupazione delle sue diverse componenti di non soccombere nella resa dei conti tra loro, sempre in atto. In tal modo, la sinistra si trova ad essere impossibilitata ad arricchire l’orizzonte ideale del suo riformismo, attraverso una riflessione che le permetta di evitare l’obsolescenza del suo approccio reale ai problemi del mondo contemporaneo. Di tutto ciò, il Paese sta pagando il grave prezzo di non riuscire a risollevarsi dalla condizione di crisi nella quale è caduto, dopo l’inizio della Grande Recessione del 2997/2008.
Nella sua storia secolare, la sinistra democratica europea – afferma Massimo Mucchetti (“La sinistra di fronte all’obsolescenza del suo approccio al reale”, Italianieuuropei, n. 5/6, 2018) – è stata alternativamente ispirata da diverse idee-guida, quali “la programmazione democratica, lo Stato imprenditore e il welfare pubblico. E poi la liberalizzazione dei movimenti di capitali [...], le privatizzazioni delle partecipazioni statali e del welfare, l’impresa come generatrice di valore per gli azionisti, la scoperta della concorrenza”. Alcune di queste idee-guida appartengono alla tradizione della sinistra democratica, mentre altre sono state acquisite dalla destra neoliberista. Le idee di quest’ultima sono quelle che hanno determinato la crisi d’identità della sinistra riformista, causandone una crisi, divenuta profonda negli ultimi trent’anni.
Si tratta, secondo Mucchetti, di idee già di per sé superate nel momento stesso in cui si sono affermate; ciononostante, esse sono state condivise dalla sinistra democratica, determinandone un’”afasia” che le ha impedito di comprendere le ragioni dell’”emergere prepotente della protesta populista e sovranista”; motivo, questo, che, “prima ancora che con la modestia professionale dei suoi ultimi esponenti”, spiega l’obsolescenza culturale e ideologica della sinistra democratica, impedendole di cogliere il senso della protesta populista generata dalla stagnazione economica e dal disagio sociale causati dalla conquistata egemonia politica da parte delle idee della destra neoliberista.
La sinistra, perciò, se vorrà riacquisire la propria identità che le consenta un più appropriato approccio ai problemi della realtà contemporanea, non potrà non “ripartire – sottolinea Mucchetti – dalle ragioni dell’obsolescenza del proprio approccio al reale”; ragioni che vanno rintracciate “nella trasformazione digitale dell’economia e, più in generale, dello stile di vita e dei valori morali della società civile con i conseguenti riflessi sull’organizzazione della politica”.
L’avvento, sempre più pervasivo, dell’intelligenza artificiale avrebbe dovuto preannunciare, per la sinistra, la radicale trasformazione che stava avvenendo nella società e la tendenziale “disintermediazione” politica che la trasformazione stava determinando nei processi decisionali. Ovviamente, il manifestarsi degli effetti della trasformazione sociale, indotta dall’avvento della “Big Tech”, hanno continuato a coesistere con il modo tradizionale col quale la società ha continuato ad autoregolarsi; ciò non di meno, essi (il manifestarsi degli effetti della trasformazione) hanno rinnovato il modo di funzionare della società, riordinandola “secondo una nuova gerarchia del potere”, che ha relegato, in maniera crescente anche se impercettibile, “in secondo piano le architravi della società moderna dell’ultimo secolo, e cioè la finanza e l’industria”.
Ciò avrebbe dovuto indurre la sinistra a domandasi se l’avvento dell’intelligenza artificiale stesse per caso determinando il passaggio della società stessa nel postcapitalismo; ovvero – afferma Mucchetti – in un mondo nel quale formazione e utilizzazione del capitale sono asservite “all’accrescimento senza fine della potenza dell’impresa prima che alla rimunerazione del capitalista”, che tuttavia continuerà a sussistere, “ma solo o principalmente attraverso l’aumento delle quotazioni” delle azioni possedute dai capitalisti; ciò in conseguenza del fatto che l’avvento della “Big Tech” segnerà il “trionfo” della tecnica sul capitale.
Se la sinistra mancherà di riflettere su quanto la prevalenza della tecnica sta determinando sulle modalità di funzionamento delle società industriali del capitalismo contemporaneo, essa correrà sicuramente il rischio di “rimanere al di qua della sfida” da affrontare, che non si ridurrà, osserva Mucchetti, a contrastare gli effetti negativi senza regole della globalizzazione delle economie nazionali, in quanto dovrà investire il “nucleo teorico fondante della “Big Tech”.
Se le osservazioni sin qui fatte hanno un senso – continua Mucchetti -, per riappropriarsi della sua identità, la sinistra dovrà necessariamente ripensare la propria politica; essa potrà riproporsi per il governo del mondo contemporaneo e di quello futuro, solo se riuscirà a sopravvivere, facendo “valere nel tempo nuovo i suoi valori”. Diversamente, se la sinistra dovesse perdere la “propria ragion d’essere politica”, credere di potersi opporre alla diffusione dei movimenti populisti e sovranisti attraverso la denuncia pedagogica dei rischi ai quali essi esporrebbero la democrazia rappresentativa e il governo dell’economia e della tecnologia, senza capire l’impatto che sull’una e sull’altro essi (i movimenti) hanno avuto (e continueranno ad avere in maggior misura anche nel futuro) varrebbe solo a segnalare uno suo “spirito conservativo”, destinato a non avere efficacia né in economia, né in politica..
Poiché l’avvento della “Big Tech” è causa del manifestarsi di effetti, quali – ad esempio – il dilagare della disoccupazione involontaria irreversibile e del fenomeno della povertà, che le tradizionali forme di funzionamento del capitalismo non sono più in grado di governare, la sinistra, tradizionale presidio sul piano politico della condizione sociale degli ultimi e in generale della forza lavoro disoccupata, dovrebbe rendersi conto della necessità di concordare “adeguati compromessi”, analogamente a quanto è accaduto alla fine del secondo conflitto mondiale, con il patto stretto tacitamente tra capitale e lavoro e con la creazione del sistema di sicurezza sociale del welfare State, che hanno consentito la continuità di funzionamento del capitalismo postbellico in condizioni di stabilità.
Ciò è accaduto, però, perché la sinistra aveva saputo trasformare lo Stato in garante del patto tra capitale e lavoro e del funzionamento del sistema di sicurezza sociale adottato; ma nell’era dell’egemonia delle “Big Tech” e della disintermediazione politica, chi svolgerà – si chide Mucchetti – le funzioni dello Stato e quali potranno essere le regole necessarie a dare attuazione ai nuovi compromessi? Gli attuali poteri forti dell’economia espressi dalla “Big Tech” tendono, invece, a distruggere – afferma Mucchetti – il “potere di governare l’economia e la società da parte della politica”, facendo venir meno la possibilità di esercitare il controllo sul funzionamento dell’attività economica a garanzia dei diritti dei cittadini.
L’affievolimento del potere della politica e dello Stato è dovuto, non solo al fenomeno della disintermediazione delle istituzioni politiche nazionali, ma anche alla riduzione del potere disciplinare delle regole adottate per il controllo degli esiti connessi al funzionamento del sistema economico contemporaneo. La disintermediazione delle istituzioni politiche nazionali ha ridotto il potere regolatorio di cui esse disponevano, trasferendolo invece a svariate burocrazie internazionali, le quali, sebbene nominate dai governi nazionali, esercitano il loro potere a favore degli interessi corporativi di ristrette minoranze, che si appropriano dei vantaggi economici assicurati dal progresso scientifico e tecnologico. La disintermediazione ha così favorito la liberalizzazione dei movimenti dei capitali che hanno consentito ai detentori del capitale di investirlo solo sulla base delle proprie convenienze.
Nel momento stesso in cui la disintermediazione delle istituzioni nazionali e l’affievolimento del potere delle regole adottate a livello nazionale (grazie anche all’organizzazione della società finalizzata alla disintermediazione delle istituzioni e all’indebolimento dell’efficacia delle regole nazionali) hanno generato dei potentati economici che hanno potuto agire liberamente, indipendentemente dal fatto che la loro azione risultasse compatibile con la soddisfazione degli interessi della generalità dei cittadini, è stata inevitabile l’insorgenza della protesta populista e sovranista.
Il “luogo di valorizzazione” del capitale è diventato così una “rete senza confini”, che ha sostituito il “patto” originario che nelle società del passato legava i detentori del capitale alla soddisfazione, oltre che dei propri anche di quelli di tutti gli altri cittadini dello Stato all’interno del quale essi (i detentori) operavano; e se la “Big Tech” costituirà il paradigma in base al quale sarà riproposta la continuità di funzionamento del capitalismo, è giusto chiedersi – come fa Mucchetti – quale potrà essere la politica più conveniente che la sinistra potrà adottare per sconfiggere il nuovo “fantasma che si aggira per l’Europa”, da tutti individuato nel movimento dei populisti e dei sovranisti.
Ora, conclude Mucchetti, sin tanto che la sinistra democratica non si aprirà alla comprensione delle radicali trasformazione che nell’economia e nella società sono state causate dall’avvento della “Big Tech”, essa potrà anche sopravvivere “battagliando affinché il gettito fiscale [...] sia sufficiente a sostenere il welfare pubblico” per il sostentamento dei disoccupati, dei poveri e, in generale, di tutti coloro che sono privi di reddito; oppure potrà anche trovare, di volta in volta, tra i problemi sociali correnti quelli che potranno consentire di stendere un programma elettorale; persistendo, però, nel formulare solo politiche per il contenimento dei movimenti populisti, la sinistra continuerà a sopravvivere, senza accorgersi dei cambiamenti intervenuti nelle strutture portanti dell’economia e della società, e soprattutto di quelli che caratterizzano ora il rapporto tra capitale e lavoro.
Quando, finalmente, la sinistra si aprirà alla comprensione della natura di questi cambiamenti, soprattutto del loro impatto negativo sul tradizionale meccanismo di distribuzione del prodotto sociale (fondato, in linea di principio, sulla rimunerazione della forza lavoro occupata nel processo produttivo), solo allora essa capirà che l’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza universale e incondizionato (che non sia, però, una sorta di reddito di inclusione) rappresenta le risorse da elargire alla forza lavoro che la “Big Tech” ha espulso (e continua ad espellere) dal processo produttivo.
Il reddito di cittadinanza, infatti, oltre ad essere uno strumento di giustizia sociale e un modo per garantire la sopravvivenza del capitalismo contemporaneo, rappresenta l’unico valido argomento che può consentire alla sinistra di porre rimedio alla sua attuale deriva, causata dal fatto d’essere rimasta legata a valori che non hanno più ragion d’essere nelle moderne società industriali.

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