Lavoro, lavoro
DISOCCUPAZIONE. Cercare lavoro a 50 anni.
di Sabrina Magnani, su Rocca.
In queste settimane si parla molto di povertà, si citano quasi di continuo gli oltre 5 milioni di italiani che si trovano in tale condizione. E se un milione e 600 mila sono stranieri, i restanti sono italiani privi di lavoro o con lavori sottopagati: oggi povero è molto spesso sinonimo di competenze e professionalità acquisite ma rimaste sospese nel limbo di un lavoro che non c’è, specie a 45-50 anni, quando, una volta perso, è quasi impossibile ritrovarlo.
Le storie che si potrebbero raccontare sono tante e accomunate dalle stesse dinamiche di frustrazione e alienazione, del sapersi esclusi da un contesto sociale e professionale a cui si è appartenuti, dal sapersi senza quell’autonomia e quella dignità che il lavoro dà. Tra queste vi è la storia di Paolo, cinquant’anni da poco compiuti, da dieci in cerca di un lavoro degno di questo nome e di un reddito su cui poter contare. [segue]
Laureato in giurisprudenza a Bologna dove si è recato dopo aver frequentato il liceo nella sua città natale, in Veneto, con sacrifici della famiglia di piccoli artigiani e coltivatori, Paolo è nella città felsinea che rimane prima lavorando – o meglio prestando gratuitamente manodopera come purtroppo in uso negli ambiti professionali – presso uno studio di avvocati penalisti, poi specializzandosi in consulenze legali legati al mondo immobiliare. «Erano gli anni 90 e il mercato immobiliare era quello che offriva maggiori possibilità di guadagno – ricorda con nostalgia -. Questo ambito, che mi piaceva, mi permetteva di vivere a Bologna, di avere una vita normale, con piccole soddisfazioni e di poter mettere il mio impegno e la mia competenza al servizio delle persone sapendo quanto sia importante l’acquisto di un immobile». Ed è proprio grazie a quel lavoro e alla serietà che vi pone che si crea una sua piccola clientela. «Alcuni di quei clienti sono diventati amici e lo sono tuttora, segno di un rapporto di fiducia che poi si è arricchito».
A Paolo piace leggere, il teatro e la montagna ed è verso di essa che orienta anche la sua professione. A 40 anni decide di lasciare la città e di trasferirsi in un paese dell’Appennino bolognese dove si trova più a suo agio e anche le compravendite non mancano. «Vendere una casa in collina o in montagna non è come venderla in città – spiega con un orgoglio in cui si percepiscono gli echi del suo essere un nativo della campagna –; ci sono elementi diversi da considerare, come le strade di accesso, i terreni di pertinenza, la morfologia del luogo». Apre una piccola società con un suo collega per offrire servizi immobiliari a chi intende acquistare o vendere un immobile fuori città. L’idea è buona ma non son buoni i tempi per questa decisione. È la fine del 2007 quando avvia questa piccola società dove investe i risparmi del lavoro degli anni precedenti. Ma la crisi dei mutui subprime in terra americana è lì a venire. E nell’ottobre del 2008 investe anche il vecchio continente.
la crisi del 2008 e l’avvio della precarietà
Paolo e il suo collega, che ha moglie e una figlia piccola, vengono travolti come tanti altri e costretti a chiudere quell’attività da poco iniziata, perdendoci tutto quello che vi avevano investito. «Nel giro di poche settimane ho perso le collaborazioni che avevo con alcune importanti cooperative costruttrici costrette a ridurre drasticamente il loro personale interno – racconta –. La società con il mio amico è stata sciolta e tutti e due ci siamo trovati dall’oggi al domani a non avere più nulla. Un colpo terribile specie per lui, con famiglia, ma anche per me che proprio in quel periodo avevo iniziato a convivere con la mia nuova compagna e suo figlio. Insomma, avevo trovato l’amore e una famiglia ma avevo perso il mio lavoro».
Inizia il periodo più brutto della vita di Paolo. Ricerca di lavoro e colloqui estenuanti, dolorosa perché a nessuno sembra importare delle sue competenze; tra le poche proposte, quasi tutte di vendita di oggetti improbabili, l’unica degna di nota è quella di un call center di recupero crediti dove rimane qualche mese, con paga bassa e a provvigione, toccando con mano cosa significa precarietà a quarant’anni. Incontra altri nella sua situazione tra cui Luca, anche lui una laurea in giurisprudenza (quella che negli anni 90 doveva essere garante di lavoro certo), anche lui con una madre che lo aiuta ad arrivare a fine mese e anche lui destinato, negli anni a venire, a passare da un lavoro malpagato a un altro.
Con l’aggravarsi della crisi anche quei lavori a provvigione vengono meno. Per Paolo si apre il periodo più nero. «Mi rendevo conto che non avrei più trovato una mia dimensione lavorativa, che dovevo pesare sulla mia compagna che aveva e ancora ha un lavoro da dipendente ma con tante situazioni difficili e costose da affrontare. Lei mi ha sempre aiutato, anche dandomi idee e nomi di persone che potevano aver bisogno di me. Alternavo qualche ora di ripetizione di italiano e latino a qualche studente con qualche ora per aiutare nel giardinaggio alcune persone anziane che la mia compagna conosceva».
La sua competenza in ambito immobiliare fu messa a frutto per vender la casa della compagna, un immobile importante, di famiglia, a cui lei era molto legata. La vendita e la ricerca di una nuova casa, dove trasferirsi insieme, in campagna, durò un paio d’anni. «Trasferirci in collina, in mezzo alla natura, mi ha aiutato molto – racconta Paolo che ama i cani più degli esseri umani, come gli piace evidenziare –. A Bologna non riuscivo più a vivere e sentivo che la mia vita non aveva un senso. In campagna invece almeno ho ritrovato le mie radici e anche se sempre senza lavoro o con lavoretti in nero molto saltuari, almeno ho ritrovato me stesso. Mi diedi al far legna per il riscaldamento, potendo almeno risparmiare sul gas, a tenere dietro alla strada sterrata di casa nostra, a capire come migliorarla, non appena avessimo potuto accedere a un mutuo».
quando la cultura salva
Anche se il lavoro a 45 anni pareva avergli voltato le spalle, Paolo trovò in altre attività un senso per la sua vita, nella lettura e in attività di volontariato in ambito ambientale. «Dicono che con la cultura non si mangia, sono tutte stupidaggini. La cultura intesa come voglia di conoscere, di stimolo al sapere, è quella che ti tiene in vita anche quando il mondo ti abbandona, che ti aiuta a non perdere l’anima quando ti sembra di cadere in un buco nero, e ho avuto la fortuna di incontrare una donna che da questo punto di vista mi assomiglia molto, curiosa e sempre aperta alla conoscenza – confessa oggi –. Gli animali poi sono la mia passione. Ho un bellissimo cane che adoro, un vero amico, e mi sono scoperto anche ‘gattaro’, io che dicevo di odiare i gatti».
Fonda anche un paio di associazioni, una di educazione cinofila e un’altra di tutela della montagna. «In quegli anni ho anche presentato progetti alle istituzioni che, se partiti, sarebbero potuti diventare anche un’occasione di guadagno per me, ma la burocrazia e l’inerzia di chi prima si esalta ma poi ti dice che ‘non ci sono fondi sufficienti’ o ‘non trovo chi politicamente me li appoggia’ hanno reso vano anche questo tentativo di trasformare una passione in un minimo di reddito».
Nel frattempo continua la ricerca di lavoro con altre delusioni di poche proposte e senza guadagni certi, anche di minima entità, con inevitabili ricadute sull’umore e facendo aumentare la sfiducia in un mercato e, più in generale, su una società di fortissime diseguaglianze. Paolo alterna momenti di serenità dovuta a quell’amore che rimane il suo punto fermo e a quelle passioni che in qualche maniera riesce a portare avanti, a momenti di profonda tristezza e delusione che a tratti lo chiudono al mondo e rischiano di inghiottirlo. «L’apice l’ho avuto in una notte di agosto in cui, mentre stavamo ristrutturando la casa grazie a un mutuo che la mia compagna era riuscita ad avere, ci siamo resi conto che le spese da sostenere sarebbero state troppo elevate e abbiamo dovuto terminare i lavori intrapresi. Sapevo quanto lei ci teneva, provai un disagio e un dolore fortissimo per non poterla sostenere come avrei voluto, sarei voluto scappare, fuggire, cosa che ho anche fatto, per una notte».
il deludente incontro con i servizi pubblici per l’impiego
Spesso, tuttavia, occorre toccare il fondo per poi avere la forza di risalire e farlo con nuove prospettive e nuovi stimoli. Dal buco nero di quella notte Paolo ne uscì con maggiore umiltà, capendo che non doveva demordere e cercare anche laddove non avrebbe mai voluto. «Io che ho sempre considerato il pubblico come un luogo per chi non ha voglia di lavorare e dove i tempi si dilungano inutilmente, mi sono arreso nel cercare anche in quell’ambito un aiuto». L’incontro con il servizio pubblico, in particolare con i servizi sociali, per Paolo è stato un test di tolleranza. Pessima l’esperienza con i centri per l’impiego. «Così come sono fatti ora non servono a nulla. Lunghe ore di attesa per raccontare la tua storia a un tutor che poi non ti chiama mai, alcuni incontri per imparare a fare un curriculum e avere qualche consiglio su come cercare lavoro, un foglio d’iscrizione con attestato che si è disoccupati ma che serve solo per aver alcune facilitazioni sanitarie. Le uniche proposte sono per chi ha una certificazione di invalidità, perché le aziende sono obbligate a inserire nei loro organici lavoratori di categorie protette. Per il resto nessuna proposta mi è arrivata in due anni che vi sono iscritto».
Anche l’incontro con i servizi sociali del territorio di residenza non è stato meno deludente. «All’inizio ci ho anche creduto – racconta Paolo con un leggero sorriso – . Avevo conosciuto un bravo assistente sociale, di origine straniera, che mi ha aiutato a non perder la fiducia e grazie al suo impegno ho potuto svolgere un paio di tirocini presso due realtà locali. Ma sono stato presto smentito. Il primo tirocinio si sarebbe potuto tradurre in un’assunzione vera e propria, come operaio in una centrale di biomasse, ma non ho potuto continuare per una forte allergia alle sostanze da maneggiare. Poi mi è stato proposto un tirocinio presso una cooperativa sociale per fare pulizie in un paio di capannoni aziendali».
È a questo punto che il sorriso sparisce per lasciar spazio, sul volto di Paolo, a un’ombra dura e severa. «Sono stati tre mesi in cui non sono mai mancato e in cui ho svolto con puntualità ed efficienza il lavoro, come mi è stato riconosciuto. Ma non è bastato. A tirocinio appena terminato mi è arrivata una telefonata dal mio assistente sociale che si dispiaceva ma mi diceva che la cooperativa non aveva intenzione di assumermi. Ho voluto sapere i motivi, che non sono mai arrivati. O per lo meno non quelli veri. All’incontro che ho chiesto con insistenza con la responsabile del personale che all’inizio e più di una volta mi aveva garantito ci fossero le possibilità per un’assunzione, mi sono sentito dire cose assurde e fumose, come la necessità di avere empatia e termini come ‘soft skills’ (competenze non specifiche) che nulla c’entrano con quel tipo di lavoro. Ho capito che non era intenzione assumermi fin dall’inizio, penso (e lo pensa anche l’assistente sociale) per il mio curriculum. Tenersi un ex avvocato in una cooperativa che di fatto sfrutta manodopera a basso costo ai limiti della legalità non era il loro intento».
Parole forti e che denunciano una realtà che anche in una regione come l’Emilia-Romagna, che ha sempre fatto del sociale e del cooperativismo un punto di forza, si è trasformata nel tempo in altro, con finalità ben diverse e un forte contenimento dei costi di manodopera. «È la legge sui tirocini che è fatta male e sarebbe da rivedere o da eliminare – commenta Paolo –. Le aziende non hanno nessun vincolo e utilizzano manodopera a costo zero senza alcun obbligo di dare continuità o anche solo metter nero su bianco i motivi di tale scelta». Nonostante questa grossa delusione, Paolo si è reso disponibile per continuare, anche se gli è stato detto che per ora non ci sono tirocini adeguati per il suo profilo alto. «Già avevo un’idea non positiva dei percorsi pubblici, ora ce l’ho ancora meno. Ma almeno ci ho provato e ho ricevuto anche i complimenti dal mio tutor che ha detto di non aver mai visto italiani accettare questo tipo di proposte. In effetti mi sono trovato sempre a lavorare per lo più con stranieri, che accettano qualsiasi condizione pur di lavorare, spesso anche il non essere in sicurezza. Li capisco, anche io farei così se fossi al loro posto. Io da italiano l’ho fatto ma per me pare non esserci posto nemmeno lì».
Potrebbe essere una constatazione amara se non fosse per la consapevolezza di avere ancora la voglia di lottare e di mettersi in gioco. «A 50 anni da poco compiuti e dopo dieci anni di questa situazione non voglio darmi per vinto ma non è facile. Penso di essere cambiato, anche interiormente, diventando più diffidente. Spesso mi sono sentito in un deserto e mi accorgo di quante stupidaggini vengono dette da chi non conosce e non ha toccato con mano cosa significa non trovare lavoro a questa età. Se per un giovane è frustrante, molto di più lo è per chi a 40 o 50 anni non ha una sua piena autonomia e il vero e unico welfare è l’aiuto dei genitori pensionati o della propria compagna. E di questo non si parla mai, come non esistessimo». Per Paolo la ricerca del lavoro e della dignità continua.
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