Europa, Europa!
La “spada di Damocle” della crisi dell’euro sospesa sulla “testa” dell’Europa
di Gianfranco Sabattini*
Nell’imminenza delle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo si susseguono gli appelli perché le forze progressiste si organizzino, con la presentazione di liste comuni, al fine di evitare che le forze populiste e sovraniste possano diventare maggioritarie, portando l’Europa al caos e a un suo possibile punto di non ritorno. Le iniziative in sé sono certamente condivisibili; esse, però, al di là degli appelli lanciati per una mobilitazione generale contro il pericolo cui è esposta l’Europa, mancano, come si suole dire, di indicare a chiare lettere gli obiettivi da perseguire; obiettivi che, a livello di Europa, non possono che riguardare la rimozione dei “deficit” istituzionali. che, per un verso, hanno da tempo bloccato il processo di unificazione, concorrendo, per un altro verso, a favorire la diffusione di un generalizzato euroscetticismo in tutti i Pesi membri dell’Europa comunitaria, a causa delle conseguenze negative patite dalle popolazioni di tali Paesi, per via del permanere di quei “deficit”.
Le iniziative e la mobilitazione pre-elettorali si limitano infatti a formulare appelli per sconfiggere il pericolo populista e sovranista, ma mancano di valutare criticamente che la diffusione di tale pericolo è la diretta conseguenza del fatto che si sia voluto realizzare l’unificazione politica dell’Europa attraverso l’adozione di una moneta unica da parte di Paesi tanto diversi, sul piano della struttura economica, e con filosofie sociali spesso tra loro inconciliabili.
Ciò ha comportato che si vanificasse il “capitale politico” “accumulato” nel dopoguerra intorno all’idea di un’Europa politicamente unita; idea, questa, perseguita nella prospettiva che l’unificazione fosse lo strumento con cui assicurare, in condizioni di benessere, “una pace perpetua” ai popoli dei Paesi dell’Europa occidentale, anziché considerare l’unificazione politica come il risultato finale del processo di perseguimento della pace. Molti osservatori, non solo economisti, concordano ormai sulla “storia tragica” degli intenti politici pacifisti perseguiti, subito dopo la fine delle Seconda Guerra Mondiale, dai Paesi dell’Europa occidentale: intenti sacrificati, per avere voluto realizzare l’unificazione politica, partendo da ciò che avrebbe dovuto essere il “risultato finale”.
Nella speranza di poter accelerare l’unificazione politica, è stata adottata, da parte dei Paesi membri più avanzati sul piano economico, una moneta unica, il cui governo si è rivelato presto, non strumento di unificazione e di pace, ma causa di divisioni e conflitti. La causa principale dell’affievolimento dell’idea di un’Europa unita viene appunto individuata nella decisione di adottare una moneta unica, l’euro, senza la quale, si sostiene, la Comunità Europea avrebbe funzionato molto meglio.; si ritiene infatti che i più grandi successi sulla via dell’unificazione politica dell’Europa siano stati conseguiti prima che si affermasse una classe di leader europei sorretti dal proposito di portare avanti il progetto di una moneta unica, senza la preoccupazione di considerane, prima, tutte le implicazioni, sul piano economico e su quello politico.
Questi leader hanno ignorato le valutazioni formulate da molti economisti a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso: valutazione che evidenziavano innanzitutto il rischio che i vantaggi attesi dall’integrazione delle singole economie nazionali potessero trasformarsi in svantaggi, se tali economie avessero presentato, originariamente, strutture produttive completamente differenti; in secondo luogo, le valutazioni critiche prospettavano il pericolo che, in assenza di un’unità politico-istituzionale, la distribuzione dei vantaggi attesi tra i singoli Paesi venisse realizzata attraverso automatismi monetari, fuori dall’attuazione di una politica monetaria comune.
I leader politici europei, succeduti ai “padri fondatori” del progetto di unificazione dei Paesi dell’Europa occidentale, oltre che ignorare le valutazioni disinteressate degli economisti, hanno mancato di considerare anche i risultati del rapporto della Commissione Werner (1970), da loro stessi sollecitato. Tale rapporto metteva in evidenza che il governo di un’unione monetaria, conseguente all’adozione di una moneta unica da parte di un certo numero di Paesi, avrebbe richiesto che all’interno dell’area comune si accettasse una generalizzata mobilità dei fattori produttivi (in particolare della forza lavoro), quindi l’adozione di un bilancio e di una politica fiscale e monetaria comuni, con cui realizzare preventivamente l’omogeneità e la complementarità delle strutture produttive dei Paesi coinvolti nell’adozione di un’unica moneta.
Inizialmente, non sono mancate riserve sulla possibilità e opportunità che all’interno dell’area comunitaria si adottasse una moneta comune, prima che fossero rimosse le differenze strutturali; ma il sopraggiungere del crollo del Muro di Berlino ha posto improvvisamente il problema dell’unificazione tedesca, la cui soluzione col placet della Francia, veniva condizionata al fatto che il marco tedesco fosse legato alle sorti, oltre che del franco francese, anche delle altre valute europee. Le ragioni per cui è stato adottato l’euro, perciò, sono state di natura meramente politica, e non hanno tenuto in nessun conto le implicazioni economiche e monetarie negative che sarebbero inevitabilmente insorte nella regolazione delle relazioni economiche tra i Paesi aderenti all’area monetaria comune (eurozona), profondamente diversi tra loro.
Non appena insorgevano squilibri nelle bilance commerciali dei Paesi che avevano adottato la moneta comune, ci si appellava alla necessità che ciascuno di essi si attenesse ai famosi parametri di Maastricht, che stabilivano limiti all’indebitamento pubblico e al deficit corrente della pubblica amministrazione; oppure si procedeva all’approvazione di provvedimenti restrittivi, come è accaduto, ad esempio, con l’introduzione delle regole previste dal Patto di Stabilità e Crescita (un accordo, stipulato e sottoscritto nel 1997 dai Paesi membri dell’Unione Europea, per il controllo delle rispettive politiche di bilancio).
L’introduzione dell’euro, malgrado la natura politica delle ragioni che l’avevano giustificata, ha avuto inizialmente successo; ma ciò è servito solo a coprire l’insieme dei difetti che impedivano la correzione degli squilibri delle bilance commerciali dei Paesi, che avevano adottato la moneta unica, attraverso politiche monetarie attive dei governi dei singoli Stati. Ciò perché la Banca Centrale Europea, nominalmente indipendente, operava secondo una politica monetaria restrittiva, compatibile solo con il “buon funzionamento” delle più forti economie europee (in particolare di quella tedesca), che non consentivano che il riequilibrio delle posizioni di debito e credito dei Paesi aderenti all’eurozona avvenisse attraverso aggiustamenti del sistema dei prezzi interni.
Con i primi due presidenti, Wim Duisenberg e Jean-Claude Trichet, la Banca Centrale europea si è attenuta rigidamente ai canoni di una politica monetaria comune restrittiva, anche quando è sopraggiunta la crisi finanziaria della Grande Recessione del 2007/2008. E’ stato solo quando è divenuto governatore Mario Draghi, nel 2011, che la politica monetaria dell’istituto di credito centrale europeo ha iniziato a flessibilizzare la rigida condotta dei suoi predecessori.
A partire dal 2012, infatti, per affrontare le criticità dell’eurozona, Draghi ha assunto l’impegno di fare tutto il possibile (whatever it takes) per salvare l’euro; a tal fine, com’è noto, ha proceduto, prima, all’attuazione di programmi di intervento sul mercato dei titoli di Stato (denominati OMT: Outright Monetary Transactions), al fine di favorire l’omogeneo funzionamento del processo di trasmissione della politica monetaria comune in tutti i Paesi dell’eurozona; successivamente, egli ha fatto ricorso a operazioni di credito “non convenzionale” (quantitative easing), per aumentare la quantità di moneta in circolazione all’interno dell’area comune.
La politica inaugurata da Draghi è servita ad “ammorbidire” il peso della Germania (e degli altri Paesi ad economia integrata con quella tedesca) sull’azione della Banca Centrale Europea; ma le cause della crisi dell’euro non sono state rimosse, continuando ad essere motivi di scontro tra Draghi e il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann. Il prossimo anno Draghi potrebbe essere sostituito da qualcuno meno propenso ad attuare “whatever it takes”, per tenere ancora in vita l’euro; se dovesse accadere, per l’euro potrebbe essere realmente “l’inizio della fine”. Ciò è tanto più probabile, se si tiene conto del fatto, come osserva Danilo Taino su “La Lettura” del Corriere del 26 agosto, che le elezioni europee del 2019 “vedranno crescere nazionalismi e populisti in tutta la UE”, in grado di trasformare le istituzioni politiche e decisionali comunitarie in un condominio urbano litigioso; infatti, da anni in tali istituzioni siedono i rappresentanti dei vari Paesi aderenti all’eurozona, sempre propensi, quando si tratta di assumere obblighi comuni a sottrarsi agli impegni conseguenti, limitandosi a mostrarsi unanimi solo nel formulare dichiarazioni roboanti sul ruolo e sul futuro dell’Europa; dichiarazioni che hanno spinto qualche osservatore a definire l’Europa comunitaria attuale una sorta di “repubblica degli annunci”.
La fine dell’euro, afferma Taino, sarebbe certamente per tutti i Paesi membri, Italia in testa, un “disastro”, dovuto al fatto che “la moneta unica ha fallito nella missione di unire l’Europa”, perché l’Unione Europea, a causa degli egoismi nazionali, è stata “rinchiusa in una gabbia”, che ha ridotto l’europeismo, dalla caduta del Muro di Berlino, in un “flop storico le cui conseguenze non sono facili da immaginare”. Negli ultimi decenni, infatti, dalla caduta del “Muro” – continua Taino – gran parte delle energie mentali e politiche dell’Europa “sono state dedicate all’euro, alla sua costruzione prima e a preservarlo dalla sua crisi poi”.
Nel profondere tutti gli sforzi verso la conservazione dell’euro, così come originariamente è stato concepito, senza la preoccupazione di rimuoverne i limiti dai quali risultava affetto, è stato commesso, secondo Taino, “un peccato di presunzione che ha sostenuto l’ideologia della UE di oggi (a differenza di quella pragmatica delle origini): l’idea di essere non solo un esperimento unico nella storia, cosa che effettivamente è, ma di essere centrale nel mondo, un modello che avrebbe potuto essere replicato altrove. Fondato sulla tendenziale estinzione degli Stati [...]; sull’idea che sia stata solo la volontà degli europei a garantire decenni di pace in un continente in passato violento [...]; sul ritenere i valori usciti dal Sessantotto l’essenza dello spirito europeo; sull’illusione di essere ancora il centro del pianeta quando la globalizzazione stava rovesciando i tavoli: in sostanza sulla presunzione di poter vivere contando solo sul proprio brillate soft power, sulla convinzione che il resto del mondo avrebbe copiato il modello europeo”.
La vera resa dei conti per l’euro si verificherà, presumibilmente, con la fine del mandato di Draghi ed il venir meno della copertura politica dalla quale sinora la moneta unica è stata “assistita”. Ciò esporrà le economie deboli dell’Europa a una nuova crisi finanziaria; a questo punto sarà difficile contrastare in Germania la tesi dell’IFO (Institute for Economic Research di Monaco), da anni impegnato a sostenere che sarebbe un bene per l’eurozona se la Germania tornasse al marco. Se il successore di Mario Draghi sarà, come si prevede, il tedesco Jens Weidmann, attuale governatore della Bundesbank e oppositore di qualsiasi politica monetaria accomodante, è fondata la preoccupazioni che egli possa dar vita a una “stretta” alla politica monetaria permissiva del suo predecessore.
Se ciò accadrà, la conseguenza sarà, verosimilmente, la fine, non solo dell’euro, ma anche dello stesso progetto di unificazione politica dell’Europa. Con Weidmann, infatti, se succederà a Draghi, sarà azzerata la possibilità che si arrivi alla modificazione delle attuali regole che governano la moneta unica, in funzione del riequilibrio (attraverso la variabilità dei prezzi interni ai singoli Stati) delle posizioni delle bilance commerciali dei Paesi membri.
A questo punto, l’Europa, tornerebbe ad essere un amalgama di Stati tra loro litigiosi, esposti, come denuncia Taino, in presenza del “caos globale” oggi esistente, al rischio di diventare il “trofeo prezioso nella lotta tra un’America confusa e sempre più lontana dalla dimensione atlantica e una Cina che immagina una ‘sua’ Eurasia, cuore dell’ordine mondiale futuro, nella quale l’Europa sarebbe la penisola occidentale di un super-continente dominato da Pechino”.
Di fronte a questi scenari, decisamente poco entusiasmanti, sorprendono le reazioni al fatto che l’attuale Ministro per gli Affari europei, Paolo Savona, abbia sostenuto la necessità di una modifica dello Statuto della Banca Centrale Europea, al fine di conferire ad essa maggiori poteri per contrastare la speculazione che le istituzioni finanziarie globali hanno sinora effettuato ai danni delle economie dei Paesi europei maggiormente esposti. Le dichiarazioni di Savona sono state commentate in vario modo: come una difficoltà del governo attuale nel realizzare “molte delle sue promesse” (Ferdinando Giugliano, su Repubblica del 15 luglio scorso); oppure, in difesa dello status quo, ritenendo la Banca Centrale Europea sia già dotata dei poteri necessari per contrastare la speculazione (Lorenzo Bini Smaghi su Repubblica del 18 luglio).
Di fronte ai pericoli che si prospettano per l’Italia, i commenti come quelli sopra riportati hanno dell’inverosimile: più che esprimere valutazioni responsabili sulla necessità che lo Statuto della Banca Centrale Europea venga modificato, essi sembrano riflettere la preoccupazione che la situazione attuale possa essere cambiata e che possano essere annullati i vantaggi che dalla debolezza della moneta unica possono trarre gli speculatori finanziari.
In conclusione, chi sta lanciando appelli per avviare utili iniziative pre-elettorali, in vista del rinnovo del Parlamento europeo, dovrebbe anche promuovere il dibattito sui motivi reali per cui è necessario sconfiggere i movimenti che, a causa del malcontento sociale originato dal “cattivo” funzionamento dell’euro, possono portare al fallimento del progetto europeo, costituendo anche una minaccia di involuzione politica, sia delle istituzioni europee, che di quelle nazionali.
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* anche su Avanti! online
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