AladiNewsEstate. I racconti immaginari di Stampace
SUOR MARTA È ANCORA VIVA .
di P.Ligio
- Suor Marta non è morta!, fu Barbasanta a portare la sconvolgente notizia ai quattro amici che cercavano di sopravvivere ad un’afosa serata d’estate. Sedevano davanti ad un tavolino all’aperto del bar tabacchi, davanti ad alcune bottiglie di birra Ichnusa e ad un mazzo di carte.
- Non dire fesserie, gli rispose il Cavaliere. Ziu Pissenti espresse la propria incredulità con un sorriso ironico, il Maresciallo continuò a mischiare il mazzo di carte, Angelino Sollai confermò, con un monosillabo, il giudizio del Cavaliere.
Intanto i quattro fecero spazio attorno al tavolino per consentire al nuovo venuto di collocare la propria sedia. Barbasanta si sedette e fece un cenno alla proprietaria del bar, anziana quasi quanto loro, perché portasse un altro bicchiere.
Lo stupore derivava dal fatto che suor Marta, che nessuno di essi aveva più incontrato da almeno 30 anni, veniva da tutti ricordata come persona molto anziana, per cui risultava loro difficile credere che potesse essere ancora viva.
Il Cavaliere sentì il dovere di dire la sua. Perché era uomo di chiesa, era stato componente del consiglio parrocchiale, dirigente della società di San Vincenzo, organizzatore delle feste del patrono. Senza contare quel suo titolo di cavaliere, che nessuno sapeva a cosa fosse dovuto, ma che egli, grazie anche alla mole robusta ed alla voce baritonale, portava molto bene. Per lunghi anni aveva utilizzato quel dono, quello della voce, cantando in un piccolo coro, composto da lui, dal Rais, e da un organista tedesco che abitava nel quartiere e la cui origine era sempre rimasta misteriosa. L’organista, nonostante le origini, si era inserito perfettamente nella cultura del quartiere, era persino diventato grande estimatore di gatti. Era capace di annegarli, non senza fatica, all’interno di un recipiente colmo d’acqua coperto da una tavola tenuta stabile da alcune pesanti pietre. Aveva anche imparato a scuoiarli, li esponeva alla luna per due notti di seguito, al clima secco del maestrale, dopodiché li imbottiva con aglio, rosmarino e sale prima di cucinarli.
Il suo problema principale era quello di procurarseli, i gatti. Acchiappava quelli che poteva tra i tetti ed i vicoli del quartiere, suscitando le ire di zia Annica, una vecchietta che divideva il suo tempo tra le funzioni religiose e la cura dei felini del vicinato. Preparava per loro dei piattini con il cibo, li distribuiva nella piccola terrazza, nel vicolo della propria casa e qualche volta, approfittando dell’assenza degli abitanti del palazzo, persino nell’androne. Li riconosceva uno per uno e li chiamava per nome. Ogni volta che qualcuno di essi mancava all’appello attribuiva le colpe, immancabilmente, all’organista tedesco. Lo riempiva di maledizioni, più di una volta, se solo le forze glielo avessero consentito, le si sarebbe avventata contro.
Il Cavaliere non era amico dell’organista, ma non poteva fare a meno del suo accompagnamento, sia quando cantavano nella chiesa parrocchiale, dotata di un grande organo, sia quando si dovevano accontentare di qualche scalcinato armonium nelle sette chiesette del quartiere. Si diceva, ma anche di ciò non vi era certezza, che in qualche occasione il quartetto fosse stato chiamato a cantare in altri quartieri e, forse, persino in alcuni paesi dell’interno.
Il Cavaliere era intimo amico del Raìs, erano soliti familiarizzare nel retrobottega della drogheria, una sorta di piccolo circolo privato per pochi intimi amici rigorosamente selezionati, si spostavano nei transetti o nei cori delle cappelle dove venivano chiamati. Preferivano i cori, perché dall’alto potevano dominare la navata della chiesa, inoltre, non essendo esposti alla vista dei fedeli, potevano continuare a sgranocchiare semi di zucca ed a sostenere le loro voci con qualche manciata di murta ucci, potevano continuare a scherzare, a scambiarsi battute sugli ignari fedeli, sugli sposi o sul morto, a seconda delle occasioni. [segue]
Non faceva differenza, per loro, che l’occasione fosse di gioia o di lutto, si sentivano protetti, come all’interno del retrobottega, dovevano sopportare, in più, solo la presenza dell’organista. Osservare dall’alto produceva una sensazione di potere, non come quando cantavano nel transetto, a contatto di gomito con i fedeli, sotto lo sguardo di occhi spesso malevoli. Quando stavano in alto, nel coro, erano loro a condurre il gioco. Siccome lo facevano con spregiudicatezza e goliardia, spesso finivano per attirarsi addosso le ire ed il risentimento del prete di turno.
Il Cavaliere era uomo di chiesa, si era sempre vantato di essere stato un innovatore. Amava dire di essere stato un precursore delle novità liturgiche introdotte dal Concilio Vaticano secondo per aver dialogato pubblicamente con il celebrante prima ancora dell’introduzione della regola che consente ai fedeli di prendere la parola durante l’omelia. Affermava che, un giorno o l’altro, il Vaticano gli avrebbe riconosciuto ufficialmente quel primato.
Era accaduto agli inizi degli anni sessanta in una delle chiesette del quartiere, dove era stato chiamato, con i suoi compari, per una messa cantata in occasione del triduo di ringraziamento per il santo patrono. Officiava un viceparroco, nuovo del quartiere, che lo aveva subito preso in antipatia. Al momento dell’omelia, nell’invitare i fedeli al rispetto delle quattro virtù cardinali, il celebrante prete si era lasciato trascinare dalla foga ed aveva indicato un esempio negativo, da non seguire.
- Ricordate – aveva detto – di non comportarvi come un certo cantore di mia conoscenza.
Il Cavaliere, che continuava a sgranocchiare i soliti semi di zucca ma che, stranamente, era attento all’omelia del celebrante, si era subito affacciato sulla navata rispondendo per le rime.
- Non cercare chi non ti cerca.
Il prete aveva ribattuto, dando del blasfemo al Cavaliere per aver osato interrompere l’omelia, ma il Cavaliere, per niente intimorito, si era sporto sporgendosi con aria di sfida sulla navata, poggiando le mani sulla balaustra, aveva risposto a tono. I fedeli, in parte scandalizzati ed in parte divertivi, spostavano lo sguardo alternativamente dall’altare al coro. Sulle accuse che i due si scambiarono durante quel faccia a faccia, le versioni non sono concordi. Nei giorni successivi, nel quartiere, non si parlava d’altro. Si ipotizzò un intervento del vescovo, qualcuno parlò di scomuniche, ma il tempo, alla fine, appianò tutto. L’episodio, riletto nelle diverse versioni offerte dai partigiani dell’una o dell’altra fazione, entrò definitivamente nell’immaginario collettivo.
- Lasciatemelo dire, – sentenziò solennemente il Cavaliere – quello che vai dicendo è impossibile. Quarant’anni fa, quando ero presidente della società di San Vincenzo, la incontravo almeno una volta alla settimana e vi assicuro che era già vecchia. E poi. Chi l’ha più vista?
Barbasanta, pazientemente, aveva atteso che si consumasse il primo moto di incredulità, ma non era disposto ad esser preso per visionario.
- Se lo dico, significa che ne sono certo. Del resto, il fatto che non si è più vista in giro non dimostra proprio niente, potrebbe essere stata trasferita in un’altra città, magari in un ospizio per suore anziane.
Anche Barbasanta, seppure non potesse vantare titoli o incarichi ufficiali, si considerava uomo di chiesa. Per oltre trent’anni aveva fatto parte della confraternita e tutti gli anni, il venerdì santo, partecipava alla processione degli incappucciati. Conservava ancora la cappa bianca, il cappuccio, la corda che si stringeva alla vita.
Quando ancora la processione manteneva elementi di spontaneità e tutto il quartiere vi partecipava, Barbasanta era uno dei pilastri di un coro che spaziava dalle voci bianche dei bambini sino ai confratelli più anziani. Faceva il basso, in quel coro di suoni lunghi, antichi, incomprensibili ai più, quando la folla era tanto fitta che si stentava ad avanzare. Durante la processione che usciva dalla chiesa alle due del pomeriggio, portando un pesante crocifisso di legno ed una statua della Madonna, si alternavano i cantori ed i fedeli che recitavano preghiere. ciò consentiva ai cantori, durante le pause, di infilarsi in qualche bettola per schiarirsi la gola con un bicchiere di vino. Il parroco aveva sempre cercato di frenare quell’abitudine, ma loro affermavano che faceva parte della tradizione e che, del resto, non avrebbero potuto eseguire canti così impegnativi senza bere almeno un goccio.
Poi era stato iscritto alla Società degli operai cattolici, che ogni anno organizzava un grande presepio nell’abside di una chiesa sconsacrata, che per carnevale organizzava la “ratantina”. Negli anni 50 la Società, in un’altra chiesa sconsacrata, costruiva i suoi carri allegorici di cartapesta per la grande sfilata del carnevale e lui, Barbasanta, era considerato uno dei più abili artigiani.
Aveva conosciuto suor Marta quando ancora frequentava le scuole elementari nell’asilo delle suore. Suor Marta non era mai stata una sua insegnante, non si occupava della cura dei bambini. La ricordava proprio per come era diversa da tutte le altre consorelle. La sua fantasia di bambino era colpita dal fatto che non vestisse come le altre suore. Spesso, sopra l’abito, portava un grembiule scuro o uno spolverino da lavoro. Non era raro incontrarla senza la grande cornetta bianca inamidata che ostentavano tutte le altre religiose. Inoltre, era l’unica suora che lavorasse, per come da bambino Barbasanta potesse intendere il lavoro, cioè zappare, fare trasporti, curare gli animali.
A lei era affidato il giardino ed il grande orto dell’asilo, allevava alcune coppie di conigli e qualche decina di galline. I bambini la intravedevano dal cortile, dietro il grande arbusto di buganvillea che escludeva la vista dalla stradina che costeggiava il muro di cinta dell’asilo, intenta alle sue occupazioni, la percepivano in maniera distinta dalle altre suore che insegnavano loro a fare il segno della croce ed a recitare a memoria il catechismo.
Barbasanta, sin da piccolo, intuiva l’importanza della materialità che occupava suor Marta. Se le altre consorelle trasmettevano noiose formule da imparare a memoria e insistenti richiami a tenersi lontani dal peccato, da Suor Marta arrivavano le uova della colazione, e i fichi, quando era il tempo. Barbasanta, che in cima ai propri desideri metteva una merenda composta da bocconcini di pane intinti nello zucchero, metteva l’alimentazione al primo posto delle sue esigenze.
Il fatto che suor Marta potesse essere ancora viva, quindi, non lo disturbava affatto, anzi, gli avrebbe fatto piacere. Certo, qualche dubbio lo nutriva pure lui, ma aveva altrettanta fiducia nella nuora, donna di grande frequentazione con le suore, che le aveva fatto filtrare la notizia.
I nipoti di Barbasanta crescevano nello stesso asilo che, un tempo, era stato frequentato dal nonno. Molte cose erano cambiate, la ristrutturazione del quartiere ne aveva ridotto l’estensione, l’orto non esisteva più, eppure l’asilo continuava ad aprirsi con lo stesso cancelletto e con il cortile disposto attorno a quel grande albero che esisteva anche ai suoi tempi
- Me lo ha riferito mia nuora, e lei queste cose le sa perché è di casa con le suore. Prima di sposarsi ha lavorato a lungo per loro e tutti i suoi figli hanno frequentato le scuole elementari nell’asilo.
Il Cavaliere avrebbe voluto insistere nel perorare la propria causa, ma fu bloccato dall’intervento del maresciallo.
Militare in pensione, non sapeva neppure chi fosse questa suor Marta né gli interessava minimamente saperlo. Non faceva parte della combriccola, lui che nel quartiere non era nato, che veniva da un’altra città. Non poteva dirsi neppure amico di Barbasanta, del Cavaliere o degli altri. Sino a qualche anno prima frequentava un altro tavolino, nello stesso bar tabacchi, ma i funerali avevano ridotto la schiera dei sopravvissuti ed era stato giocoforza unirsi agli altri per raggiungere il numero necessario per una briscola od una pinella. A lui interessava soltanto il gioco delle carte, partecipava raramente alle discussioni, quando lo faceva era sempre misurato, non era solito alzare la voce, non bestemmiava, non interrompeva nessuno, non rideva in maniera sguaiata. Da quando si aiutava con il bastone non poteva più procedere impettito, ma il suo incedere da militare appariva ugualmente inequivocabile.
Preferiva la vernaccia alla birra, soltanto d’estate si lasciava tentare da un fresco boccale di “bionda Sardegna”, fumava esclusivamente la pipa.
Dunque non conosceva suor Marta, non le interessava sapere se era viva, ma temeva che la discussione potesse mandare in fumo la partita. Per questo protestò, con garbo, richiamando i suoi compagni al loro dovere di giocatori, sollevando il mazzo di carte, con un gesto inequivocabile, chiese chi avrebbe dovuto da carte. Il suo intervento stemperò sul nascere l’ardore del Cavaliere e la partita ebbe inizio.
Passarono lunghe giornate dedicate alle carte ed ai commenti dei fatti del giorno, ma Barbasanta non aveva smesso di indagare ed una sera, giungendo volutamente in ritardo per trovare tutti riuniti, comunicò solennemente che aveva avuto la conferma: suor Marta era viva e si trovava in un’altra città. Glielo aveva confermato la nuora per averlo appreso direttamente dalla madre provinciale dell’ordine.
La notizia, non provocò l’effetto sperato. Il Cavaliere, ziu Pissenti e Angelino Sollai confermarono l’iniziale incredulità, il Maresciallo la medesima indifferenza.
Il Cavaliere, che amava argomentare le proprie affermazioni e la cui soddisfazione toccava il culmine quando poteva “dedurre”, spiegò che non si trattava di mettere in dubbio la parola della nuora di Barbasanta, e tantomeno della madre superiora, perché “evidentemente” poteva trattarsi di una suora che portava lo stesso nome, spiegò ai suoi amici, nonostante non ne fosse del tutto sicuro, che le suore non vengono chiamate con il loro vero nome ma con quello di una santa che scelgono nel momento di confermare i voti, per cui i casi di omonimia potevano essere frequenti.
Ziu Pissenti, che odiava le argomentazioni e preferiva affermazioni dirette ed indiscutibili, anche se indimostrabili, affermò che suor Marta era morta: punto e basta.
Anche ziu Pissenti proveniva da un altro tavolo, rimasto sguarnito per eccesso di mortalità, con i suoi 94 anni era di gran lunga il più vecchio del gruppo.
Non era uomo di chiesa, anticlericale e comunista aveva persino impedito alla moglie di battezzare i propri figli. Lei se ne era vergognata a lungo, ma non lo aveva potuto contrariare. Solo dopo qualche anno si era decisa ed aveva portato, di nascosto, i bambini in parrocchia perché fossero battezzati. Neppure i figli ne furono al corrente. Lo scoprirono soltanto quando il primo di essi dovette richiedere un certificato di battesimo per potersi sposare. Il parroco dovette sfogliare il registro, a partire dalla data di nascita, per ben quattro anni prima di incontrare la registrazione dell’atto.
Ziu Pissenti non era uomo di chiesa, anzi, non perdeva occasione per lanciare ogni sorta di accuse contro preti e suore. Un giorno, supponendo che una delle figlie fosse stata maltrattata all’asilo, l’aveva portata in piazza per mostrare pubblicamente i lividi della bambina, attribuendoli ai maltrattamenti ricevuti dalle suore, e perorare così la sua causa antireligiosa.
Eppure, ora stava allo stesso tavolo del Cavaliere e di Barbasanta, che sino a qualche tempo prima aveva considerato stupidi bigotti, in attesa del giorno seguente.
Anch’egli aveva avuto a che fare con suor Marta. Era stato tanto tempo prima, quando possedeva un posteggio per la vendita di frutta e verdura. Aveva avuto a che fare con suor Marta perché essendo la vivandiera dell’asilo frequentava quotidianamente il mercato. Ricordava accese discussioni sul prezzo, sul peso, sulla qualità, anche perché suor Marta, dovendo mantenere un intero asilo, non era un’acquirente qualunque. Non si limitava a comprare, ma proponeva baratti scambiando una parte dei prodotti del suo orto o dei suoi animali. Più volte, Ziu Pissenti aveva tentato di ingannarla sul peso, con la complicità delle sue stadere truccate, ne possedeva due, una utilizzata per le vendite e l’altra per gli acquisti. Ma non era mai riuscito ad ingannare suor Marta.
Aveva persino tentato di rubarle i conigli: una notte si era introdotto nell’orto, sicuro che le suore non concepissero accorgimenti contro i ladri, ma si era dovuto ricredere. Le erano rimaste le mani infilate in una sorta di rudimentale tagliola costruita da suor Marta. La suora l’aveva sospettato, quando il giorno dopo l’aveva incontrato al mercato con entrambi le mani fasciate, ma si era limitata ad un sorriso malizioso.
Ziu Pissenti non poteva accettare che suor Marta fosse viva anche per un altro motivo: perché sarebbe potuta risultare più anziana di lui. E lui ci teneva ad essere il più vecchio del quartiere e si proponeva mete ancora più ambiziose. Quando qualcuno brindava con il tradizionale augurio “a cent’anni”, cominciava ad offendersi e probabilmente si toccava le palle. Un giorno aveva risposto in malo modo al Maresciallo, quando sostenne che gli uomini non possono superare l’età di 115 anni, spergiurando di aver letto che in alcune zone della Siberia erano state individuate persone di oltre 130 anni di età.
A dar man forte a ziu Pissenti intervenne anche Angelino Sollai, una vita passata tra il porto ed il mercato, per comprare e rivendere pesce, tenuto fresco dalle scaglie di lunghi parallelepipedi di ghiaccio comprati nella vicina fabbrica.
Anche Angelino Sollai aveva conosciuto suor Marta, pur se non era in grado di ricordare particolari episodi. La verità è che si sentiva obbligato a dar man forte a ziu Pissenti, di cui, sin da giovane, aveva subito il fascino sino ad essere trascinato in folli avventure. Come quando, sotto la sua direzione, avevano cominciato a scavare in un giardino del quartiere alla ricerca di un fantomatico tesoro, per alcune notti di seguito, di giorno nascondevano lo scavo sotto un tavolato ed alcune frasche. Quando furono convinti di aver trovato qualcosa di solido, che nella loro fantasia sarebbe dovuto essere “su scussorgiu” diedero le ultime picconate e riuscirono a rompere la fogna. Fu allora che la proprietaria del terreno si affacciò alla finestra e riempì di terribili maledizioni ziu Pissenti, che restituì le imprecazioni con gli interessi, lui sul giardino e lei alla finestra del primo piano si augurarono vicendevolmente lutti e sciagure. Finì che fu lei ad abbandonare per prima questa valle di lacrime. Ziu Pissenti andò al suo funerale ed a partire da quel giorno, tutte le volte che moriva una persona nota del quartiere, incominciò a commentare: – Anche quest’altro l’ho sotterrato!
Neppure Angelino Sollai frequentava la chiesa, ma non mancava mai di addobbare la cappella per la processione e permetteva alla moglie di comprare mazzi di fiori per ricavarne i petali che avrebbe lasciato cadere dalla finestra del secondo piano al passaggio della madonna.
Angelino Sollai ammirava ziu Pissenti, anche perché era capace di ammazzare i gatti con un pugno ben dato sul naso dopo averli rinchiusi in un sacco, cosa che non era da tutti, disse che per quanto gli constava se suor Marta fosse stata viva avrebbe dovuto avere almeno 110 anni e che la cosa non sembrava verosimile. Non si rese conto della gaffe, ma ziu Pissenti, apprezzando il gesto, sorvolò sull’argomento.
Il Maresciallo stava sulle spine. – Se dovete continuare a parlare di suor Marta ci vediamo domani. Lo disse puntando le mani sui braccioli della sedia e spingendosi in avanti. Nessuno credette alla sua minaccia, tuttavia tirarono a sorte per decidere chi avrebbe dovuto dare le carte.
Per alcune settimane non si tornò sull’argomento, ma il dubbio si era insinuato sia in Barbasanta, che incominciava a chiedersi se non si potesse davvero trattare di un’altra suor Marta, sia nel Cavaliere, che incominciava a chiedersi perché mai, alla fin dei conti, non potesse essere vero, sia in ziu Pissenti disponibile ad ammettere di poter non essere il più vecchio del quartiere. Ad Angelino Sollai non interessava sapere se suor Marta fosse viva, ma era curioso di scoprire se ziu Pissenti avesse ragione o avesse torto. Al Maresciallo interessava ancor di meno, ma anche lui cominciava a chiedersi chi fosse questa suor Marta, se fosse veramente viva o morta, se non altro per offrire la soluzione ai compagni di gioco e chiudere una volta per tutte la questione.
Fu così che ciascuno, per il poco che poteva e per proprio conto, incominciò a svolgere indagini.
Il caldo torrido dell’estate era ormai terminato. Il Maresciallo aveva ripreso a bere vernaccia. Le partite di carte avevano continuato a svolgersi regolarmente, come un tempo, senza alcuna distrazione. Si continuava a chiacchierare prima di incominciare a distribuire le carte e negli intervalli, ma durante le partite, era la regola, si commentava soltanto il gioco. L’evento principale era l’attesa della carta buona, quella che consentisse di vincere la partita. Il Cavaliere scopriva lentamente la carta, facendola scivolare dietro un’altra carta già conosciuta. Ziu Pissenti la scopriva senza tante cerimonie, se era quella attesa esprimeva la propria soddisfazione con un sorriso beffardo. Barbasanta, prima di leggerla, mischiava la carta da scoprire in mezzo alle altre. Angelino Sollai, prima di scoprire la carta, face a ripetutamene le corna. Il Maresciallo avvicinava la mano al mazzo, afferrava con le dita la prima carta poi, sollevandola all’improvviso, esclamava: “sorgi Petrillo!”.
Per quanto tali cerimonie fossero riservate ai momenti cruciali della partita, mal si conciliavano con le animate discussioni. Oltretutto, se si giocava a briscola occorreva prestare la massima attenzione ai segnali del compagno, se si giocava a scopone si era impegnati nell’esercizio mnemonico di contare gli sparigli per guadagnarsi le prese finali.
Fu il Cavaliere a prendere l’iniziativa, una sera, asserendo che non vi erano più dubbi: suor Marta era morta e le voci sparse in giro erano tutte fandonie. Il tono solenne e la voce profonda lasciavano intender che volesse mettere una pietra sopra quello squarcio di un lontano passato che, improvvisamente, li aveva coinvolti.
Barbasanta, tuttavia, non si lasciò intimorire dal tono apodittico del Cavaliere e gli si oppose con pesante ironia: – Ne sei così sicuro? Vuoi che chiami don Baracca perché ti confessi?
Il Cavaliere comprese l’allusione ed avvertì il colpo.
Si era negli anni 50. Il Cavaliere si era recato a Parigi per qualche giorno di vacanze, per tutto il quartiere era stato un avvenimento. Il Cavaliere era timorato di Dio, Prima di recarsi al cinema non mancava di consultare la guida esposta in tutte le parrocchie. Evitava non soltanto i film vietati, ma anche quelli contrassegnati da una “R”, che voleva dire con riserva; si concedeva, oltreché i film contrassegnati con la “T”, per tutti, quelli classificati con la lettera “A”, che significava per soli adulti. Ma a Parigi la tentazione del collega, che voleva farlo assistere ad uno spettacolo di spogliarello in un locale di infimo ordine nel quartiere di Pigalle, aveva avuto il sopravvento. Il Cavaliere, per la verità, aveva cercato di opporsi con tutte le sue forze, ma quando il collega lo aveva redarguito ammonendolo che andare a Parigi e non assistere ad uno spogliarello è come andare a Roma e non vedere il Papa, aveva finito per acconsentire.
A cose fatte, tuttavia, si era sentito orgoglioso della trasgressione. Non era da tutti, all’epoca, né vedere Parigi, né assistere ad uno spogliarello, una volta che i suoi amici l’avessero saputo sarebbe stato oggetto di invidia e di ammirazione, ciò non gli sarebbe dispiaciuto.
Tornato a casa, si era convinto di dover confessare quel suo peccato ma, anziché vergognarsene, aveva deciso di affrontare con dignità il confessore mostrandogli che era uomo capace persino di peccare, nientemeno che a Parigi, assistendo ad uno spogliarello.
Il confessore era il sacerdote più vecchio della parrocchia, abituato alle rutinarie confessioni degli adolescenti alle prese con la masturbazione. Ad ognuno di essi non faceva che ripetere: “per la soddisfazione maledetta di un istante hai messo in croce Gesù; per penitenza recita tre pateravegloria”, li assolveva così, senza tanti complimenti.
Il Cavaliere si sentiva orgoglioso di dover confessare un peccato speciale, oltretutto commesso all’estero, e si era recato sicuro al confessionale. Qui aveva incominciato a declamare, a voce alta, la propria colpa per manifestare il suo orgoglio ed essere oggetto di ammirazione da parte degli altri parrocchiani. Dopo appena un minuto, l’anziano confessore, sentita la declamazione della colpa, si era alzato indignato dal confessionale, senza neppure dargli l’assoluzione, ed a voce altrettanto alta, per essere sentito dai presenti, lo aveva così apostrofato: – Cagau ses andau e cagau ndi ses torrau.
Da allora, in tante occasioni, chi voleva offenderlo o metterlo in difficoltà gli ripeteva quella frase. Aveva finito per diventare il suo tallone d’Achille, lui non era mai riuscito a riderci sopra.
Così ancora una volta, a quasi 50 anni di distanza, Barbasanta, con una semplice allusione, aveva demolito la sua sfrontata sicurezza.
Ziu Pissenti accennò un sorriso sarcastico, provava un’immensa soddisfazione tutte le volte che veniva messa in crisi l’immagine di quel mondo di preti e di bigotti che aveva sempre avversato. Ribadì, tuttavia, di aver avuto conferma, da una figlia, della morte di suor Marta.
Fu allora che prese la parola il Maresciallo che, ancora non la avevamo detto, aveva un figlio prete. Lo aveva sottoposto ad ogni sorta di insistenze e di pressioni perché prendesse informazioni sicure, era nel suo stile di militare, voleva venire a capo della questione, ad ogni costo ed una volta per tutte.
- Suor Marta è viva – affermò, pacatamente ma con tono sicuro -, è molto vecchia, ma la sua età non è certa, vive in un ospizio per suore anziane in una città del continente.
Barbasanta si sentì rincuorato per l’aiuto insperato. Il Cavaliere e ziu Pissenti provarono timidamente ad obiettare, ma il Maresciallo proseguì dimostrandosi molto più informato di tutti loro. Riferì che pochi anni dopo l’epoca nella quale il Cavaliere e gli altri l’avevano conosciuta, era stata trasferita per una sorta di incompatibilità ambientale. Secondo alcune suore aveva dato segni di squilibrio, sarebbe stata afflitta da mania ossessiva per la pulizia degli animali sino ad arrivare al punto di lavare, quasi ogni giorno, le zampe alle galline del pollaio.
Secondo altre, si era immedesimata così profondamente nel proprio ruolo di allevatrice da non riuscire più a convivere con talune delle consorelle. Tutte le volte che qualcuna di esse osava interferire nelle faccende relative all’allevamento degli animali reagiva malamente. Un giorno, correva voce, ma non era certo, avrebbe inseguito con un bastone una suora solo perché si era permessa di dar da mangiare ai conigli senza il suo permesso.
Ziu Pissenti ed il Cavaliere smisero di obiettare. Cominciarono a confrontare i propri ricordi con quanto, pur di seconda mano, riferiva il Maresciallo. Trovarono il racconto verosimile, vi lessero la conferma di antichi sospetti, dissero di comprendere, tanto tempo dopo, il perché di taluni atteggiamenti della suora. Barbasanta fu orgoglioso per essere stato il primo a scoprire che suor Marta era ancora viva. Il Cavaliere e ziu Pissenti, prima ancora di ammettere la veridicità del racconto, si sentirono istintivamente desiderosi che fosse vero. Mentre il Maresciallo raccontava, si riapriva davanti ai loro occhi la visione di un mondo lontano ed apparentemente irreale, un mondo che, al contrario, costituiva la loto unica realtà. Irreali erano le lunghe serate passate al tavolino del bar tabacchi, tra un boccale di birra Ichnusa ed un bicchiere di vernaccia, in attesa di scoprire chi per primo, tra di loro, avrebbe abbandonato il gioco.
Alla fine, tutti assentirono, riscoprendo un insospettato affetto per suor Marta.
Il Maresciallo, non appena terminato il racconto, cominciò a distribuire le carte. L’anziana proprietaria del locale si avvicinò e depose sul tavolino due bottiglie di birra ed un bicchiere di vernaccia.
Angelino Sollai si rivolse alla donna
- Se la ricorda suor Marta? – Poi, senza attendere la risposta, – Sa! E’ ancora viva!
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Qualsiasi riferimento a fatti e personaggio è puramente casuale.
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Agosto 1996
Mirto.
Sfilata di carnevale
Pentola colma di monete d’oro.
Sei partito con il culo cagato, e con il culo cagato sei tornato.
Tutti i diritti riservati. Rivolgersi alla Postazione mobile di segreteria quanto la vostra fiducia era ed è estremamente difficile.
Ciao
[…] a scambiarsi battute sugli ignari fedeli, sugli sposi o sul morto, a seconda delle occasioni. [segue] Non faceva differenza, per loro, che l’occasione fosse di gioia o di lutto, si sentivano […]
[…] MARTA È ANCORA VIVA . di P.Ligio su Aladinews. […]
Nina de is cadidas.
Si chiamava Nina, qualcuno raddoppiava e la chiamava Ninna. Per tutti era precisamente individuata dall’attribuzione funzionale ”de is cadidas”. Esile e con le gambe esageratamente storte, svolgeva un lavoro prezioso: distribuiva le sedie ai fedeli che non avevano trovato posto nei banchi, per la Messa e per le altre sacre funzioni. Il servizio era gratuito, ma la tariffa che tutti riconoscevano senza chiedere e batter ciglio era di 10 lire, che il fedele depositava in un cestinetto di paglia con un fondo di panno rosso. Nina accatastava un gran numero di sedie, incastrandole l’una con l’altra fino a creare un alta piramide e riusciva a non farla precipitare mano a mano che estraeva ciascuna sedia richiesta, con un’abilità impareggiabile, consentitale dalla sua agilità che si dimostrava molto più forte di quanto lasciasse pensare la sua esile costituzione. Certo spesso si faceva aiutare dal vice sacrista Bobboi. Nina era nubile, ma a noi ragazzi piaceva malignare che facesse copia ideale proprio con Bobboi.
Per tutti Nina era Nina de is cadidas.
Ciao! mi sono imbattuta in questo racconto facendo un po’ di ricerche sull’origine dell’espressione “Sorgi Petrillo!”. Mio nonno la diceva sempre quando giocavamo a carte e pescava dal mazzo e mi sono sempre chiesta da cosa derivasse, ma non riesco a trovare nessun riferimento sul web. In questo racconto viene utilizzata nello stesso contesto. Potreste darmi informazioni in più?
Grazie!
Ho chiesto informazioni all’autore del racconto, ma allo stato neppure lui è in grado di fornire le delucidazioni richieste. La frase era spesso ripetuta da un maresciallo dell’Areonautica, signor Francesco Ledda – padre di comuni amici – che abitava a Cagliari, nato a Pattada. Il maresciallo aveva svolto la sua carriera militare in diverse parti d’Italia. A Napoli aveva conosciuto la moglie, ma successivamente si trasferì a Orbetello, dove nacquero 4 figli. Uno morto fanciullo. Sopravvissero Vincenzo, Peppino (ambedue morti, Peppino di recente) e Mario (sacerdote), tutti trasferiti a Cagliari. Stiamo svolgendo ulteriori indagini. Intanto anche tu facci sapere le informazioni ulteriori che possiedi in argomento.
[…] a scambiarsi battute sugli ignari fedeli, sugli sposi o sul morto, a seconda delle occasioni. [segue] Non faceva differenza, per loro, che l’occasione fosse di gioia o di lutto, si sentivano […]
Ci scrive Giulia Romani (mail). Ciao! Purtroppo non possiedo molte informazioni, mio Nonno è nato a Roma e poi vissuto sempre nelle zone vicino. Era una frase che utilizzava solo il quel contesto, giocando a scala 40 con le carte francesi, ogni volta che pescava dal mazzo penso per augurarsi una buona fortuna nella pescata.
Grazie intanto per le info!
Buongiorno, anche mio papà usa questa espressione, ma non sa da dove venga. La sentiva dire da mio nonno durante le partite a carte.
Insomma non se ne viene a capo.