Salviamoci insieme!
di Enrico Giovannini
1. Da Marx allo sviluppo sostenibile
“Perché dovrebbe importarmene delle generazioni future? Cosa hanno fatto per me?” Questa famosa frase di Groucho Marx, attore di grande successo della prima metà del secolo scorso, noto per il suo senso dell’umorismo sarcastico, sintetizza in modo assolutamente mirabile il tema della sostenibilità e ci interroga profondamente come persone e come membri della comunità umana. Infatti, abbiamo ormai un’evidenza scientifica consolidata sul fatto che il modello di sviluppo che abbiamo seguito nel corso degli ultimi due secoli, ma soprattutto a partire dal secondo dopoguerra, sia insostenibile sul piano non solo ambientale, ma anche economico e sociale. Anzi, tutte le analisi ci segnalano che alcuni fenomeni fortemente destabilizzanti (si pensi al cambiamento climatico, alle migrazioni o all’aumento delle disuguaglianze) stanno verificandosi con una velocità superiore a quella prevista solo alcuni anni fa. Ciò vuol dire che il problema che abbiamo di fronte non riguarda solo le generazioni future, ma anche la nostra generazione, il che risolve alla radice l’obiezione di Marx (Groucho).
In effetti, già nel 1972, con il Rapporto I limiti dello sviluppo del Club di Roma, i modelli matematici disponibili all’epoca (molto meno sofisticati di quelli di cui disponiamo oggi) indicavano che, dati i tassi di crescita previsti per la popolazione, la produzione e lo sfruttamento delle risorse, entro un centinaio di anni si sarebbe determinato un declino improvviso ed incontrollabile della popolazione e della capacità economica, a causa del collasso delle condizioni economiche, sociali e ambientali del pianeta. Peraltro, confrontando le traiettorie previste dal Rapporto con gli andamenti effettivi delle variabili chiave (Figura 1), emerge chiaramente come questi ultimi siano quasi perfettamente in linea con le prime, il che dimostrerebbe, come alcuni autori sostengono, che negli ultimi quaranta anni il mondo abbia seguito una politica di “Business As Usual (BAU)”, nonostante i tanti impegni presi nel corso degli anni a migliorare l’efficienza energetica, a ridurre l’inquinamento, ecc.
Confronto tra le previsioni del Rapporto “I limiti dello sviluppo” e gli andamenti effettivi.
Per valutare la storia passata si pensi che è solo nel 1987, cioè quindici anni dopo il Rapporto del Club di Roma, che il famoso “Rapporto Bruntland” (intitolato Our Common Future) introduce il concetto di “sviluppo sostenibile”, definito come “lo sviluppo che soddisfa i bisogni della presente generazione senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Ed è solo quest’anno, con la nuova Agenda 2030, cioè dopo quasi vent’anni, che l’obiettivo di portare il mondo su un sentiero di sostenibilità, non solo ambientale, viene riconosciuto come meritorio di unire tutti i paesi del mondo.
Peraltro, nonostante il fatto che il Rapporto Bruntland individuasse quattro pilastri della sostenibilità, quello economico, quello sociale, quello ambientale e quello istituzionale (per molti anni sostanzialmente dimenticato), gran parte delle persone, compresi i policy maker e i dirigenti delle imprese, ha interpretato la questione della sostenibilità come un problema sostanzialmente legato alle questioni ambientali. Si è trattato, purtroppo, di un gravissimo errore concettuale, con drammatiche conseguenze sulle politiche economiche e sociali condotte in tutto il mondo. Un simile errore ha riguardato il modo di rappresentare graficamente la questione della sostenibilità, con tre cerchi (relativi all’economia, alla società e all’ambiente) parzialmente sovrapposti, con l’area di intersezione indicata come “l’area della sostenibilità”. In effetti, la sostenibilità deve riguardare l’unione delle tre (o quattro) dimensioni, non solo la loro intersezione, al cui interno, eventualmente, si concentrano i problemi legati ai trade-off delle scelte “settoriali”. Ad esempio, sappiamo che alcuni comportamenti ambientalmente più sostenibili sono anche economicamente e socialmente più convenienti, mentre in altri casi si tratta effettivamente di scegliere di rinunciare a benefici in un campo a favore di una maggiore sostenibilità nel medesimo campo o in altri campi.
2. “Quello che non possiamo misurare non lo possiamo nemmeno gestire”
Il concetto di sostenibilità proposto dalla Commissione Bruntland ha un’indubbia forza evocativa e appare facilmente comprensibile sul piano intuitivo. Purtroppo, misurare quanto una certa combinazione di condizioni economiche, sociali, ambientali ed istituzionali sia sostenibile nel tempo presenta enormi difficoltà concettuali e pratiche.
Uno dei primi progetti che mi trovai a gestire appena nominato, nel gennaio 2001, Chief Statistician dell’OCSE, riguardò proprio la misura dello sviluppo sostenibile, nell’ambito di una ricerca estremamente articolata in cui l’Organizzazione si era lanciata in quegli anni. Ebbene, fin dall’inizio della ricerca emerse come la sostenibilità fosse estremamente difficile da misurare. Mentre sul piano economico, e in parte su quello ambientale, tale concetto appariva abbastanza radicato nella letteratura e nella pratica statistica, era sul versante sociale che le difficoltà erano quasi insormontabili. Infatti, la sostenibilità di un modello di crescita economica, la sostenibilità finanziaria, la sostenibilità dei sistemi pensionistici, solo per fare alcuni esempi, erano temi abbondantemente indagati già quindici anni fa, sui quali l’evidenza statistica e la modellistica econometrica fornivano indicazioni utili per la conduzione di politiche orientate a favorire la sostenibilità nel tempo delle condizioni economiche e finanziarie (anche se ciò non eviterà la crisi del 2008-2009).
In quegli anni stava crescendo significativamente anche la ricerca sulla questione della sostenibilità ambientale. Ancorché con una distanza enorme rispetto alle tematiche economiche, cominciavano a svilupparsi sistemi articolati di indicatori ambientali (disponibili, però, con ritardi temporali enormi rispetto a quelli economici e solo con riferimento ai paesi industrializzati), così come modelli econometrici che legavano la dimensione economica a quella ambientale. Una caratteristica comune di tali modelli era l’uso del concetto di “soglia”, oltre la quale una particolare condizione del sistema economico-ambientale veniva giudicato “insostenibile” (si pensi al caso della concentrazione di anidride carbonica o di altri inquinanti nell’atmosfera). Coerentemente, sia sul piano economico che su quello ambientale, si andava diffondendo l’uso di valori “soglia” nella legislazione europea o nazionale, come nel caso dei famosi “parametri di Maastricht” o dei limiti alla concentrazione di talune particelle nell’aria dei centri urbani.
Diversamente che in campo economico e ambientale, il concetto di sostenibilità sociale appariva, invece, estremamente sfuggente. La mancanza di una “teoria della rivoluzione” in grado di indicare valori “soglia” della disoccupazione, della povertà, dell’esclusione sociale, ecc.,oltre la quale si potrebbe determinare un’ insostenibilità sociale (cioè una rivoluzione) rendeva estremamente difficile integrare questa dimensione nel quadro concettuale della sostenibilità. Nell’ambito del progetto dell’OCSE al quale ho fatto riferimento, si propose anche di guardare alla sostenibilità delle istituzioni che sovrintendono a importanti politiche sociali (la sanità, la previdenza, l’assistenza, l’educazione, ecc.): in questo modo, però, la sostenibilità sociale veniva fondamentalmente ricondotta alla sostenibilità finanziaria delle politiche sociali, un concetto che, evidentemente, spostava l’attenzione dai risultati per i cittadini (outcome) agli strumenti con i quali si conducono le politiche (input), il che rendeva questo approccio assolutamente insoddisfacente.
È solo alla metà degli anni Duemila, dopo aver fronteggiato enormi resistenze da parte delle autorità statistiche nazionali (in nome di argomentazioni alquanto ridicole, come “lo sviluppo sostenibile è una questione politica e la statistica ufficiale deve starne alla larga”), che riuscii a promuovere la prima task-force internazionale sulla misura dello sviluppo sostenibile, con la partecipazione dell’OCSE, dell’Eurostat, dell’ONU e di alcuni istituti di statistica. Il risultato fu una prima lista di indicatori di sviluppo sostenibile, ma soprattutto l’elaborazione di un approccio concettuale basato sul “capitale”, declinato in quattro dimensioni: il capitale prodotto (cioè quello economico), il capitale naturale, il capitale umano e il capitale sociale. L’attenzione al capitale si spiega con il fatto che esso collega il passato, il presente e il futuro, in quanto è a partire da esso che, attraverso processi produttivi, culturali, istituzionali e politici, vengono non solo realizzati beni e servizi che passano per il mercato e soddisfano i bisogni economici della società, ma vengono anche soddisfatti bisogni immateriali, alltrettanto importanti per il benessere delle persone, e vengono prodotte esternalità i cui costi o benefici influenzano le condizioni della società e dell’ecosistema.
Parallelamente, è in quegli anni che, proprio grazie alle iniziative dell’OCSE (come il primo Forum Mondiale sulla “Statistica, Conoscenza e Politica” che organizzammo a Palermo nel 2004), prese le mosse il movimento mondiale per andare “oltre il PIL”, così come la revisione del Sistema dei Conti Nazionali, lo sviluppo del Sistema dei Conti Economici ed Ambientali, la predisposizione dei manuali sulla misura di diverse dimensioni del benessere (compreso quello soggettivo e la felicità), la pubblicazione di un manuale metodologico sugli indicatori compositi finalizzati a sintetizzare in un “solo numero” indicatori relativi a diverse dimensioni del benessere, nonché alla sua sostenibilità nel tempo.
Possiamo quindi affermare che, nel corso degli ultimi quindici anni, la statistica “ufficiale” ha fatto passi enormi verso la misura dello sviluppo sostenibile. Ciononostante, siamo ancora lontani dal raggiungimento dell’obiettivo di misurare in modo soddisfacente tutte le forme di capitale, specialmente il capitale umano e il capitale sociale.
Manca poi una metrica comune nella quale esprimere tali misure, vista l’impossibilità di tradurre in termini monetari fenomeni ai quali non è possibile associare un “prezzo”. È anche cresciuta la consapevolezza che cercare di ottenere un indicatore unico in grado di sintetizzare le dimensioni economiche, sociali e ambientali, si scontra con ostacoli concettuali e metodologici probabilmente insormontabili. Infine, poiché la sostenibilità è un concetto legato alle dinamiche future, è indispensabile integrare le informazioni di natura statistica sul presente e sul passato con quelle relative al futuro derivanti dalla modellistica, a patto che quest’ultima prenda in considerazione le interazioni tra le diverse dimensioni e le non linearità che da tali interazioni possono scaturire (i cosiddetti tipping points).
3. Gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e l’Agenda 2030
Nel settembre del 2015 i paesi membri delle Nazioni Unite hanno approvato la nuova Agenda per lo sviluppo sostenibile e i relativi Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (OSS) da raggiungere entro il 2030. Si è trattato di un evento storico da più punti di vista. Infatti:
è stato confermato, anche grazie alle informazioni statistiche ora disponibili e alle previsioni sulle future tendenze, il giudizio sull’insostenibilità dell’attuale sentiero di sviluppo, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. In questo modo è stata superata l’idea che la sostenibilità fosse unicamente una questione ambientale e si è affermata una visione veramente integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo;
tutti i paesi del mondo sono chiamati a contribuire allo sforzo di portare lo sviluppo globale su un sentiero sostenibile, senza più distinzione tra paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se, evidentemente, le problematiche possono essere diverse a seconda del livello di sviluppo già conseguito. Ciò vuol dire che ogni paese dovrà impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli obiettivi definiti dall’Agenda Globale e che l’ONU svolgerà un continuo monitoraggio dello stato di attuazione di tali strategie;
è stato sancito come l’attuazione dell’Agenda richieda un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese al settore pubblico, dalla società civile alle istituzioni filantropiche, dalle università e dai centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura. Nessuno è escluso dallo sforzo di cambiamento, anche se le forme di coinvolgimento delle diverse componenti vanno definite a livello nazionale, ferma restando la promozione di momenti di coordinamento regionale e globale da realizzare a cura delle organizzazioni e dei network internazionali delle diverse constituencies.
Il processo di cambiamento verrà monitorato attraverso un complesso sistema fatto di 17 obiettivi, 169 target e circa 200 indicatori. Sarà rispetto a tali parametri che ciascun paese verrà valutato periodicamente e starà alle opinioni pubbliche internazionali e nazionali usare l’evidenza fornita dagli indicatori per mettere sotto pressione i decisori, pubblici e privati, e per orientare i propri comportamenti nella direzione giusta. Anche in questo caso, la sfida è globale, in quanto anche nei paesi sviluppati non tutti i dati necessari per il monitoraggio sono attualmente disponibili o tempestivi. Per questo, l’ONU ha promosso una riflessione non solo su come utilizzare la cosiddetta “Data Revolution” per produrre i dati necessari, ma anche su come favorire l’uso dei dati per migliorare la sostenibilità dei processi economici e sociali. Il Rapporto al Segretario Generale predisposto dal Gruppo di esperti internazionali che ho coordinato l’anno scorso contiene numerose proposte, molte delle quali in fase di implementazione.
4. Le implicazioni per l’Europa e l’Italia
L’Europa è stata, da molti anni a questa parte, all’avanguardia nelle politiche a favore dello sviluppo sostenibile. Il livello di benessere economico raggiunto nella prima metà degli anni 2000, il modello di economia sociale di mercato realizzato in molte aree del continente e l’attenzione alla protezione dell’ambiente naturale, soprattutto nei paesi nordici, hanno condotto l’Unione Europea non solo ad adottare legislazioni orientate a ridurre gli impatti negativi dei processi economici sui fenomeni ambientali e sociali, ma anche a darsi obiettivi ambiziosi per gli anni futuri (si pensi alla Strategia Europa 2020) e a battersi in campo internazionale per la firma di accordi orientati a rendere più sostenibile il futuro del pianeta.
Con la crisi avviata nel 2008-2009 la situazione è mutata significativamente: la priorità è divenuta quella di assicurare la sostenibilità finanziaria delle economie europee, anche a costo di rigorose politiche di austerity, e di far ripartire la crescita economica e l’aumento dell’occupazione. La nuova Commissione Europea ha riflesso questo cambiamento di prospettiva, definendo, nell’estate del 2014, priorità in linea con le preferenze degli Stati Membri e del Parlamento Europeo. Anche l’Italia ha subito un simile cambiamento, con un’attenzione soprattutto alle questioni economiche e finanziarie.
L’adozione della nuova Agenda Globale pone l’Europa e l’Italia di fronte ad una triplice sfida di enorme complessità:
integrare gli OSS nei propri programmi a breve e medio termine, così da evitare la coesistenza di agende differenti e incoerenti, nelle quali esigenze politiche di breve termine diventano sistematicamente prioritarie (si pensi alla questione della sicurezza, dopo i drammatici eventi di Parigi) e magari determinano interventi che aumentano i costi a medio-lungo termine, richiedendo aggiustamenti ancora più difficili da realizzare sul piano politico, ancorché ritardati nel tempo. D’altra parte, disegnare politiche per raggiungere gli OSS richiede un approccio integrato difficilmente compatibile con le articolazioni settoriali delle strutture governative: di conseguenza, è richiesto uno straordinario sforzo di integrazione di competenze e punti di vista diversi;
sviluppare sul piano concettuale un nuovo modello di sviluppo (andando “oltre il PIL”, cioè evitando di basarsi unicamente su una crescita quantitativa) che integri in modo innovativo le opportunità derivanti dalle nuove tecnologie, riduca i costi di transizione, soprattutto in termini sociali, sia attraente sul piano politico e si basi su una piena collaborazione tra soggetti privati e pubblici;
essere credibili a livello internazionale, così da poter promuovere i propri valori in tutto il mondo e sostenere il cambiamento globale, coniugando annunci in linea con gli OSS e pratiche concrete che migliorino la qualità della vita delle persone, superando i timori derivanti da sommovimenti socio-economici globali (quali le migrazioni) o locali, che alimentano il populismo politico. Tutto ciò richiede una leadership politica notevole, capace di rendere un paese o un’istituzione in grado di essere forward-looking e coerente nel tempo rispetto alle scelte di fondo.
Realizzare tutto ciò comporta un cambiamento culturale straordinario, impossibile senza un forte coinvolgimento delle opinioni pubbliche nazionali, la cui attenzione venga sistematicamente posta sulle tematiche dello sviluppo sostenibile come definito dalla nuova Agenda Globale, superando gli stereotipi e le logiche settoriali.
In questo contesto, cosa dovrebbe fare l’Italia per presentarsi come un “campione della sostenibilità”? In primo luogo, introdurre il concetto di sviluppo sostenibile nella propria Costituzione, così da orientare la legislazione futura e le decisioni dei tribunali al riconoscimento dell’equità intergenerazionale (si pensi al caso dei “diritti acquisiti” di tipo previdenziale). Alcuni paesi – dall’America Latina alla Nuova Zelanda – l’hanno già fatto e i tribunali di Olanda e Stati Uniti hanno recentemente avallato azioni legali da parte dei cittadini per la difesa degli ecosistemi come beni comuni, spronando governi e aziende a fare di più nella lotta ai cambiamenti climatici.
D’altra parte, non si può pensare di gestire problemi migratori, politiche sociali e una conversione dell’apparato industriale in chiave di sostenibilità attraverso interventi parcellizzati, mettendo un settore (o un ministero) contro l’altro. I paesi più attenti al tema dello sviluppo sostenibile utilizzano principi del “governo integrato” che l’OCSE definisce come un sistema di coordinamento indispensabile nella progettazione e nell’attuazione di politiche trasversali. Va quindi superata l’attuale divisione del lavoro novecentesca tra i ministeri. La Svezia, per esempio, ha istituito un ministero dedicato al “futuro” per monitorare la coerenza dell’intera azione legislativa in chiave di sostenibilità ed equità intergenerazionale. Il secondo passo potrebbe, quindi, essere la sostituzione del “Comitato interministeriale per la programmazione economica” con uno dedicato allo “sviluppo sostenibile”, come il Governo di cui ho avuto l’onore di far parte si apprestava a fare all’inizio del 2014.
In terzo luogo, l’Italia dovrebbe dare un minor peso a dinamiche economiche di breve periodo, superando il “capitalismo trimestrale” che Hillary Clinton ha criticato di recente. L’Italia potrebbe allora utilizzare il sistema degli indicatori di “Benessere Equo e Sostenibile” (BES), sviluppato dall’Istat e dal Cnel, non solo per tracciare le dinamiche economiche, sociali e ambientali ex-post, ma anche per valutare le politiche future, secondo quanto previsto da una proposta di legge già presentata in Parlamento. La Legge di Stabilità in discussione potrebbe essere l’occasione per introdurre, come ha fatto recentemente la Francia, un obbligo da parte del governo di valutare l’impatto delle proposte di legge utilizzando i diversi domini del BES. Allo stesso modo, i progetti d’investimento nelle infrastrutture (tipicamente approvati dal CIPE) dovrebbero essere basati su analisi costi-benefici che diano più importanza a impatti futuri rispetto a quelli a breve termine, seguendo l’esempio di un numero crescente di investitori privati, come nel caso del Club of Long Term Investors, che vede la presenza di un folto gruppo di società italiane.
A livello internazionale, infine, l’Italia dovrebbe farsi promotrice di norme che sostengano i principi del benessere sociale e ambientale. Non sarà, infatti, possibile realizzare i nuovi obiettivi finché l’economia globale resterà dominata da un sistema finanziario altamente speculativo e da accordi commerciali che minano la coesione sociale e l’ambiente. Come affermato dal Segretario Generale dell’ONU e dal Papa nella recente Enciclica, c’è bisogno di un nuovo quadro di regole che dimostrino come il benessere sociale, economico e ambientale siano indivisibili.
Conclusioni
Nella sua recente Enciclica “Laudato si’”, Papa Francesco ha scritto:
“L’ambiente umano e l’ambiente naturale si degradano insieme, e non potremo affrontare adeguatamente il degrado ambientale, se non prestiamo attenzione alle cause che hanno attinenza con il degrado umano e sociale. Di fatto, il deterioramento dell’ambiente e quello della società colpiscono in modo speciale i più deboli del pianeta”
e ha sottolineato come
“La nozione di bene comune coinvolge anche le generazioni future. Le crisi economiche internazionali hanno mostrato con crudezza gli effetti nocivi che porta con sé il disconoscimento di un destino comune, dal quale non possono essere esclusi coloro che verranno dopo di noi. Ormai non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni.”
Per chi spende la propria vita formando le giovani generazioni e ricercando le soluzioni più idonee per affrontare e risolvere i problemi di oggi e di domani, queste parole costituiscono un richiamo fortissimo alla nostra responsabilità di persone che operano all’interno di questa comunità accademica e, più in generale, all’interno della comunità umana.
Se non noi, chi? Se non adesso, quando?
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