Alla radice dei populismi. Ripensare la democrazia

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di Giannino Piana, su Rocca
La metà dei cittadini italiani (e oltre), in occasione delle ultime elezioni nazionali, ha dato la propria adesione a partiti – Movimento 5 Stelle e Lega – che, pur con le dovute differenze, sono accomunabili sotto l’etichetta del «populismo». Il fenomeno non è del resto isolato, se si considera la presenza di esperienze analoghe in altri paesi d’Europa – dalla Brexit in Gran Bretagna, al Front National in Francia fino all’ascesa delle destre in Germania e in Austria – al punto che si può ormai parlare di una internazionale populista europea.
Al di là della discussione teorica sui tratti che qualificano il populismo – diverse sono le definizioni che di esso vengono date dai politologi –, tra le varie posizioni espresse (non solo in Italia) esistono significative convergenze: dalla condivisione di una radicale protesta nei confronti dello status quo, in particolare dei partiti tradizionali, al rifiuto di una società aperta verso i migranti, fino alla dura critica rivolta all’Europa, considerata la causa di tutti i mali che affliggono lo stato di difficoltà di molte delle nazioni che ne fanno parte. A questo si aggiungono le spinte sovraniste e nazionalistiche – la Lega accentua questa visione –, il rifiuto della democrazia rappresentativa e la sua sostituzione con la democrazia diretta che, per il Movimento 5 Stelle, va realizzata mediante il ricorso alla tecnologia dell’informazione oggi a disposizione.

alla ricerca delle cause immediate
Le cause che hanno prodotto questa svolta, sorprendente per la rapidità con cui è avvenuta, vanno ricercate in più direzioni. Un ruolo determinante ha anzitutto avuto – è questo il dato di fondo da cui occorre partire – la grave crisi economico-finanziaria iniziata negli anni 2007-2008, che non hatrovato nella classe politica tradizionale risposte rassicuranti. Lo stato di recessione tuttora in corso (nonostante alcuni timidi segnali di fuoriuscita) e la crescita delle diseguaglianze hanno suscitato (e non potevano che suscitare) un diffuso (e trasversale) senso di scontento. Al disagio causato dal forte incremento delle povertà, vecchie e nuove, e dal livello patologico della disoccupazione e dell’inoccupazione giovanile si accompagna il sentimento di deprivazione del ceto medio, dove la sperimentazione di una consistente riduzione delle possibilità economiche, provoca una crescente aggressività sociale.
A questi dati si aggiunge (e con essi interagisce) la radicale sfiducia nei confronti della politica – mai in passato l’indice di gradimento era sceso tanto in basso – a causa dei fenomeni di corruzione, presenti in maniera sempre più consistente e capillare, dei privilegi di cui godono gli eletti alle cariche pubbliche – si pensi soltanto ai vitalizi dei parlamentari – e della incapacità ad affrontare i problemi reali del paese, facendo le riforme e preoccupandosi delle fasce più deboli della popolazione.
Tutto questo è poi ingigantito dalla strumentalizzazione che ne fanno i media, i quali accentuano gli aspetti negativi della situazione, alimentando una percezione distorta della realtà, che esaspera gli animi e favorisce lo sviluppo di atteggiamenti qualunquistici con l’emissione di valutazioni approssimative e demagogiche dettate dal pregiudizio e dalla superficialità. Si va dalla convinzione che non esistano differenze tra i politici nell’accaparramento di posti e di prebende – «sono tutti uguali», si dice, indipendentemente dalle posizioni ideologiche – alla contrapposizione tra classe politica e società civile, con l’addebitamento alla prima di tutti i mali e la considerazione della seconda come del tutto pulita e vittima dei soprusi di chi esercita il potere.

la svalutazione della politica
Dietro a queste critiche non è difficile scorgere una forte svalutazione della politica, legata tanto al convincimento dell’assenza in essa di qualsiasi professionalità, quanto al venir meno delle ideologie e al rifiuto pregiudiziale di ogni forma di mediazione.
La prima di tali cause – il rifiuto di considerare la politica come una professione – si traduce nell’assunzione di un atteggiamento superficiale che giustifica l’improvvisazione e l’assenza di competenza. Anziché arte difficile, professione alta e di grande complessità – come da sempre è stata presentata dal pensiero occidentale a iniziare dalla filosofia greca (emblematica è la riflessione di Aristotele) – essa viene guardata con diffidenza (e con sufficienza) come l’ultimo dei mestieri, per il quale non si esigono doti particolari e i cui rappresentanti sono del tutto intercambiabili. La battaglia contro gli stipendi dei parlamentari o la severità con cui da parte di alcuni ci si oppone a più mandati nelle cariche pubbliche, oltre a denunciare la presenza di atteggiamenti demagogici, non fa che confermare la scarsa reputazione che si ha della professionalità della politica.
La seconda causa – la crisi delle ideologie – peraltro giustificata dalla condanna delle grandi ideologie del «secolo breve», che hanno dato vita ai totalitarismi, si traduce nell’affermazione che è del tutto anacronistico parlare di destra e di sinistra, e coincide di fatto con l’accettazione di una politica nella quale si mescolano posizioni diverse (talora di segno opposto) – vi è chi ha definito per questa ragione il Movimento 5Stelle come «una realtà amorfa» – con il rischio dell’assenza di ogni progettualità. Il doveroso rigetto dell’ideologia totalizzante conduce pertanto al rigetto di ogni forma di ideologia, anche di quella limitata e pragmatica che consente alla politica di darsi una prospettiva di futuro.
Infine – è questa l’ultima causa (ma non in ordine di importanza) – un rilievo particolare occupa il rifiuto di ogni forma di mediazione; rifiuto che ha quale esito – come si è già accennato e come ben rileva Cecilia Biancalana nel suo recente volume dal titolo eloquente Disintermediazione e nuove forme di mediazione. Verso una democrazia post-rappresentativa? (Feltrinelli) – l’affermarsi di una democrazia post-rappresentativa, nella quale non vi è più bisogno di mediatori. La stessa adesione al «vincolo di mandato», sul quale il Movimento 5 Stelle e la Lega hanno insistito in campagna elettorale, può essere ricondotta a questa logica. La piaga del trasformismo, che è nel nostro Paese endemica, esige che si provveda a qualche aggiustamento – un’operazione in tal senso è stata fatta al Senato al termine della scorsa legislatura –; ma non ci si può non chiedere se la strada indicata dal Movimento 5 Stelle e Lega è quella giusta, considerando che essa finirebbe per vincolare i parlamentari non tanto ai propri elettori quanto ai vertici del partito in cui sono stati candidati, concorrendo alla «verticalizzazione» dei rapporti politici e favorendo il leaderismo.
La rinuncia alla mediazione contiene poi anche un altro aspetto negativo che non può non essere stigmatizzato; essa coincide infatti con la condanna preventiva del compromesso, anche nella versione più nobile di «compromissione con la realtà». Il che comporta il mancato riconoscimento della identità stessa della politica, la quale è per definizione l’arte del «possibile», che sta tra l’«ideale», che non deve mai essere messo tra parentesi, e la «realtà» con cui è necessario fare seriamente i conti, se si intende uscire dall’astrattezza e promuovere un’effettiva crescita della società. Ciò che sembra mancare è, in definitiva, una «cultura della politica», l’assenza cioè della conoscenza dei fini e delle leggi, che presiedono alla sua conduzione.

tra prometeismo e nichilismo
Ma, al di là delle ragioni fin qui addotte, un posto di rilievo meritano alcune motivazioni più radicali, legate ad alcune dinamiche proprie della cultura contemporanea.
La prima di esse fa riferimento al ruolo privilegiato della tecnica, quale artefice di una mentalità e di un costume che condizionano in modo rilevante la condotta umana. La possibilità di interventi sempre più incisivi e sofisticati della realtà genera una forma di prometeismo, che finisce per vanificare la possibilità di «vivere in una comunità politica», la quale – come lucidamente scriveva Mario Vegetti da poco scomparso – esige per potersi attuare «la condivisione di un orizzonte di valori etico-politici, la giustizia, la legge, l’educazione collettiva» (La Lettura, supplemento domenicale del Corriere della Sera, 18 marzo 2018, p. 27).
D’altro canto – è questa la seconda motivazione apparentemente in contrasto con quella precedente – a destituire di significato la politica è anche l’avanzare di una forma di nichilismo radicale, dettato paradossalmente – come ha acutamente messo in luce Roberto Esposito in un suo recente, importante saggio (cfr. Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, Einaudi) – dalla edulcorazione del negativo, dal tentativo cioè di minimizzarlo fino a rimuoverlo. La politica – quella dei nuovi movimenti che hanno come obiettivo una radicale palingenesi, rifiutando per questo la mediazione e il compromesso e facendo propria una lettura moralistica e giustizialista – affonda le proprie radici nell’incapacità di accettare l’ambivalenza della realtà, perseguendo un purismo irrealistico e paralizzante.

le vie da percorrere per uscire dal tunnel
La possibilità di uscire dal tunnel, ricuperando una democrazia rappresentativa, che interpreti in modo corretto le esigenze della gente e ottenga pertanto un alto livello di consenso, non è facile. A rendere ardua la condivisione di tale prospetti- va concorrono, da un lato, la individualizzazione dei bisogni e delle aspirazioni – come ha messo bene in evidenza Zygmunt Bauman – e, dall’altro, il mancato bilanciamento della cultura dei diritti con la cultura dei doveri e della responsabilità. Il problema è dunque anzitutto culturale, e implica una nuova coscienza del «bene comune» fondata su un sistema di valori e di norme condivise. «Non c’è polis – osservava ancora Mario Vegetti – senza un sistema di norme di giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica, infine senza un’educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli comunitari» (art. cit., p. 27). Sono qui perfettamente armonizzate dimensione personale e dimensione istituzionale, che vanno tra loro integrate in un dinamismo che le renda reciprocamente interagenti.
Il nodo centrale diviene, in questo quadro, pertanto la rivisitazione delle modalità di costruzione e di organizzazione del sistema democratico. L’entrata in crisi dei partiti tradizionali e la loro sostituzione con movimenti e partiti personali non è soltanto frutto delle scelte di una classe politica degradata; è anche, in larga misura, espressione di un profondo mutamento sociale prodotto dai sistemi di comunicazione, i quali, oltre a condizionare in termini consistenti le scelte personali, favoriscono forme di leaderismo, che limitano l’esercizio della democrazia con la riduzione degli spazi partecipativi.
Una delle questioni che occorre allora affrontare con maggiore urgenza è quella della identità della forma-partito, della sua struttura interna e delle modalità di esercizio della propria azione. Ma, ancor più radicalmente, si tratta di ripensare il rapporto tra società civile e istituzioni pubbliche, con la valorizzazione delle soggettività sociali o degli enti intermedi che, nella misura in cui superano le logiche corporative, sono destinati a svolgere un’importante funzione di cerniera tra società e Stato, favorendo lo sviluppo di una politica, dove alla crescita partecipativa della società corrisponde il riconoscimento del ruolo essenziale (e non dunque puramente residuale) dello Stato, nel rispetto di un giusto equilibrio tra principio di sussidiarietà e principio di solidarietà. In definitiva, a doversi radicalmente trasformare è la politica, che deve ricuperare un sistema di valori, al quale ispirare la propria azione, e individuare, nello stesso tempo, forme di intervento nei confronti della realtà legate a una precisa proposta ideologica, nonché dare vita a una «cultura dei mezzi», che consenta di fornire ad essa un contenuto operativo. In questo modo (e solo in questo) è possibile restituire dignità e credibilità all’impegno politico, e vincere la tentazione del ricorso al populismo, che costituisce un grave attentato allo statuto della stessa democrazia.
Giannino Piana
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Rocca – Cittadella

One Response to Alla radice dei populismi. Ripensare la democrazia

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Rispondi a Oggi martedì 17 aprile 2018 | Aladin Pensiero Annulla risposta

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