Governo vo’ cercando
E’ giustificabile un “governo dei tecnici” in alternativa alla democrazia?
Gianfranco Sabattini*
Jeson Brennan, autore di “Contro la democrazia” (con Prefazione di Sabino Cassese e un saggio introduttivo di Raffaele De Mucci), sostiene che esiste “un insieme di convinzioni ampiamente condivise sul valore e la legittimazione della democrazia e della partecipazione democratica”, per lo più fondate sugli assunti secondo cui la democrazia e un’ampia partecipazione politica sarebbero importanti perché condurrebbero “a risultati giusti, efficienti o stabili”, e tenderebbero “a istruire, illuminare e nobilitare i cittadini”, essendo esse “un fine di per sé”. Secondo Brennan, le tre finalità (dell’istruzione, dell’illuminazione e della nobilitazione dei cittadini) esprimerebbero ciò che egli chiama “trionfalismo democratico”, contro il quale egli muove la sua critica, rifiutandone la fondatezza.
Il politologo americano ritiene che tali finalità non meriterebbero la considerazione della quale esse godono; innanzitutto, perché la partecipazione politica non apporterebbe beneficio alcuno, in quanto, a suo dire, trasformerebbe in nemici i cittadini nell’arena civile e darebbe loro motivo di odiarsi l’un l’altro; in secondo luogo, perché il diritto al voto non sarebbe come gli altri diritti posti a presidio delle altre libertà civili (come, ad esempio, la libertà di parola, di culto, di associazione, ecc.); infine, perché la democrazia non sarebbe l’unica forma di governo intrinsecamente giusta, in quanto il suffragio universale incentiverebbe “la maggior parte degli elettori a prendere le decisioni politiche in condizioni di ignoranza e irrazionalità [...]. Un suffragio illimitato, uguale e universale sarebbe giustificato soltanto se non potessimo concepire un sistema che funzioni meglio”.
Da dove derivano le finalità sulle quali sarebbero fondate, a parere di Brennan, le presunte virtù della democrazia? Per il politologo americano, le finalità deriverebbero dal liberalismo filosofico, ovvero da quella concezione secondo cui “ogni individuo possiede una sua dignità, fondata su ragioni di giustizia che gli garantisce tutta una serie di libertà e diritti, i quali non possono essere calpestati alla leggera, nemmeno per perseguire un bene sociale più grande”. L’analogia presunta dal liberalismo filosofico tra singoli individui e società non è però giustificata; ciò perché un elettorato è un insieme di individui “con scopi, comportamenti e credenziali intellettuali distinti”.
Un elettorato, perciò, non è un corpo unico in cui ogni singoli componente propugna le stesse cose; al contrario, in esso esistono individui che impongono le loro decisioni ad altri, per cui se la maggior parte degli elettori dovesse “agire con stupidità” non farebbe del male solo a se stessa, ma danneggerebbe anche le minoranze di elettori “meglio informati e più razionali”. In politica, afferma Brennan, il processo decisionale non si riduce mai a scelte per se stessi, ma implica sempre scelte per tutti. Per queste ragioni, insiste Brennan, volendo giustificare le finalità sulle quali è basata la legittimazione della democrazia, occorre dare conto del perché alcuni individui “hanno il diritto di imporre cattive decisioni agli altri”; in altre parole, occorre spiegare perché è legittimo e possibile che un gruppo di individui, anche se maggioranza, possa obbligare le minoranze a subire le “decisioni prese in modo incompetente”.
Nel chiedersi quale valore abbia la democrazia, la maggior parte dei filosofi del liberalismo individualista ritiene che essa abbia un “valore procedurale”, nel senso che si tratti di una “procedura decisionale di per sé giusta”, assumendo che qualsiasi decisione presa col metodo democratico sia una decisione razionale. Al contrario, secondo Jason Brennan, il valore della democrazia è unicamente “strumentale”, per cui “la sola ragione per preferire la democrazia a qualsiasi altro sistema politico è che è più efficiente nel produrre risultati giusti, secondo standard di giustizia che sono indipendenti dalle procedure”.
Poiché la democrazia assegna a ogni individuo una quota uguale di potere politico, uno dei problemi dell’organizzazione politica di una comunità democratica consiste nello stabilire chi deve “detenere il potere”; data la natura individualistica della società democratica è plausibile assumere, secondo Brennan, che esistano opinioni diverse su chi debba detenere il potere, così come è plausibile ipotizzare che esistano opinioni alternative riguardo alla scelta dei criteri in base ai quali decidere a chi assegnare il potere politico. La soluzione del problema non puà quindi essere determinata in modo univoco.
Con lo strumentalismo, sostiene Brennan, l’indeterminazione sarebbe rimossa, perché la distribuzione del potere politico sarebbe determinata in funzione della possibilità di ottenere “risultati di governo giusti, indipendentemente dalle procedure e quali che siano tali risultati”. Secondo lo strumentalismo – afferma Brennan –“esiste un modo (o dei modi) intrinsecamente buono, giusto o legittimo di distribuire il potere” e, nella sua versione più radicale, “non esistono standard morali indipendenti con cui valutare i risultati delle istituzioni decisionali”. In altre parole, per lo strumentalismo non esiste un metodo di distribuzione del potere politico intrinsecamente giusto o sbagliato attraverso il quale si possa “stabilire con certezza quali siano i giusti scopi di un governo, quali le forme di policy che dovrebbe implementare o quali i risultati che dovrebbe conseguire”; sarebbe questa, secondo Brennan, la ragione per cui una comunità che scegliesse di vivere all’interno di un regime democratico, nel risolvere la questione della distribuzione del poter politico, dovrebbe optare per qualsiasi forma di governo “risulti più affidabile” nel perseguire i risultati decisi in modo indipendente dal regime politico adottato.
Se la democrazia non è un valore in sé, o se essa non può essere giustificata su basi procedurali, ma solo strumentali, allora per una comunità democratica diventa ragionevole – afferma Brennan – dotarsi di un governo “epistocratico” (esercitato da chi è dotato di maggiore conoscenza e capacità incontrovertibili); cioè di un governo che sia espressione di un regime nel quale il potere politico è distribuito secondo le competenze e le capacità degli individui che compongono la comunità. In questo modo, conclude Brennan, diverrebbe possibile, innanzitutto, evitare che una partecipazione politica universale, senza alcuna selezione, tenda a “corrompere” le relazioni tra i componenti la comunità; in secondo luogo, sarebbero evitate le inutili attese degli effetti positivi connessi al presunto valore intrinseco attribuito alle libertà politiche; infine, diverrebbe possibile, attraverso l’attività svolta dai soggetti più competenti e capaci che compongono la comunità, perseguire risultati efficienti e socialmente giusti, sostituendo la democrazia comunemente intesa con qualche forma di epistocrazia.
Ha ragione Brennan? Non proprio; meglio, avrebbe ragione se la democrazia fosse priva, come egli suppone, di elementi intrinseci idonei a garantire che le decisioni siano assunte con competenza e capacità. Le critiche di Brennan alla democrazia rappresentativa non sono che una variante dei numerosi tentativi da sempre portati avanti dall’ideologia neoliberista di rimuovere i “lacci e laccioli” che, a dire dei suoi sostenitori, inceppano il libero funzionamento del marcato, a causa di una distribuzione inappropriata del potere politico, resa possibile dall’organizzazione democratica dello Stato sociale di diritto. La forma di democrazia realizzabile all’interno di tale tipo di Stato è però sufficientemente dotata di “anticorpi” contro i pericoli di una deriva del processo decisionale, che Brennan paventa; se gli “anticorpi” non funzionano, non dipende tanto dalla democrazia in sé, quanto dal fatto che essa è rimasta ancora incompiuta, oppure perché alcuni suoi capisaldi, come i partiti, hanno smarrito il ruolo e la funzione che avevano all’origine, rendendo plausibile, per i critici della democrazia, la presunzione di poter sostituire, nell’interesse di tutti, un governo democraticamente espresso, con il governo di una ristretta “élite di professionals”.
Già Cassese nella Prefazione al libro di Brennan traccia i motivi per cui le proposte sul tipo di quella avanzata da questo autore non sono accettabili. La democrazia rappresentativa – afferma Cassese – “è nata come forma epistocratica e tale è rimasta per lungo tempo, nell’antichità prima e poi per tutto il periodo del suffragio limitato”. Successivamente, con la progressiva costruzione dello Stato sociale di diritto, il suffragio è stato allargato a tutti indistintamente e indipendentemente da ogni considerazione riguardante il genere, il censo e il colare della pelle degli individui, sulla base dell’assunto che l’eguaglianza formale e quella sostanziale in materia politica procedessero congiuntamente. Non casualmente, infatti, le Costituzioni moderne stabiliscono che è compito dello Stato “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Quindi, le Costituzioni moderne, assumendo che possano esistere delle originarie disuguaglianze di diverso ordine e tali da ostacolare la partecipazione politica al funzionamento dello Stato, stabiliscono che il problema dei cittadini “non educati” e quello dei rappresentanti politici “non competenti” siano progressivamente risolti, pena il “cattivo” funzionamento della democrazia. Sin tanto, però, che tale problema resterà irrisolto, o solo parzialmente risolto, la democrazia compatibile con lo Stato sociale di diritto è destinata a rimanere incompiuta e a manifestare forme evidenti di “zoppia”, destinate ad alimentare le ragioni, non disinteressate, dei neoliberisti nel sostenere la convenienza che al governo della comunità accedano i “professionals”.
Nel tentativo di rimuovere i problemi dell’”incompetenza politica dei cittadini e dei loro rappresentanti”, un ruolo basilare è stato svolto dai partiti, i quali – afferma Cassese – “hanno supplito gli Stati in un compito essenziale, quello di portare persone capaci e con esperienza alla guida di quella macchina complessa che sono oggi i poteri pubblici”. Sennonché, a un certo punto, anche i partiti sono venuti meno al loro ruolo, come dimostra il loro modo d’essere attuale, per cui buona parte dei rappresentanti del popolo presenta un grado di mediocrità tale da suscitare reazioni antidemocratiche, rafforzando le tesi delle quali è portatrice l’ideologia neoliberista.
Di conseguenza, oggi, la persistenza dell’incompletezza dei presupposti della democrazia non fa dell’epistocrazia una valida alternativa alla democrazia rappresentativa; se ciò accadesse – afferma Raffaele Di Mucci nell’Introduzione al libro di Brennan – si finirebbe “per privilegiare ancora di più i già privilegiati”, ovvero coloro che hanno avuto, e continuano ad avere, le maggiori opportunità per acquisire capacità e competenze. Per sventare il pericolo che la critica dell’ideologia neoliberista alla democrazia rappresentativa possa ulteriormente diffondersi tra i cittadini, occorre aumentare l’impegno dello Stato ad eliminare le differenze che ancora permangono tra uguaglianza formale e uguaglianza sostanziale in materia politica e ricuperare l’antico ruolo dei partiti politici; da un altro lato, occorre incrementare l’informazione tra i cittadini, soprattutto quella che origina dal dibattito attraverso un loro maggiore accesso ai mezzi d’informazione.
In questo modo sarebbe garantita la diffusione della cultura del discorso critico, la quale diverrebbe patrimonio di tutti, anziché essere appannaggio, come alcuni vorrebbero, di una ristretta “élite di professionals”, secondo l’affermazione di Karl Raimund Popper, in “La lezione di questo secolo”. Ciò avrebbe importanti conseguenze a livello politico, quali, esempio, quella di rifiutare qualsiasi decisione collettiva senza pubblico confronto, quella di mettere in discussione l’autorità costituita quando la sua azione mancasse di rispondere alle aspettative dei cittadini e quella del radicamento nel popolo delle fede nella necessità che sia sempre rispettato il diritto a partecipare ai processi decisionali politici.
Nel loro insieme queste conseguenze avrebbero l’effetto di rendere politicamente inappropriata, perché conservativa, per non dire reazionaria, qualsiasi proposta di natura epistocratica, in quanto la democrazia, già di per sé, è autosufficiente; basta realizzarla compiutamente, o impedire che alcune sue parti già portate a compimento siano ingiustificatamente soppresse.
* Anche su Avanti online.
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