Dibattito sul Reddito di cittadinanza e dintorni
Perché il reddito di cittadinanza non può sostituire il lavoro
di Vittorio Pelligra*
Si fa un gran parlare in queste settimane di “reddito di cittadinanza”. Due considerazioni al proposito: il reddito di cittadinanza come lo hanno proposto i 5Stelle in campagna elettorale, c’è già e si chiama REI; è stato introdotto nel Consiglio dei ministri del governo Gentiloni il 29 agosto 2017. Ma allora dove sta la novità della proposta di Grillo e soci? Io credo non tanto nel “come”, ma nel “perché”. La questione importante non attiene tanto, cioè, a come supportare il reddito di chi ora, e sono tanti, non ce la fa, perché ha perso il lavoro o non riesce a trovarne uno. Ciò che conta piuttosto è capire perché ci sono sempre meno lavori e come occorra attrezzarsi rispetto a un futuro in cui di lavoro ce ne sarà sempre meno. Dietro la proposta del reddito di cittadinanza, in altre parole, c’è molto di più, c’è una visione del rapporto tra reddito e lavoro, c’è una particolare visione del futuro e del posto che noi, uomini e donne, andremo a occupare nella società prossima ventura. Questa è la vera questione, il resto sono nominalismi. (Segue)
Ma andiamo per ordine. La terminologia, innanzitutto; quella adottata crea già di per sé confusione. Il reddito di cittadinanza è, infatti, se propriamente inteso, un sostegno al reddito che deriva dal semplice fatto di essere cittadino di uno Stato; come dice mia figlia tredicenne – “ti pagano per essere nato”. E un reddito svincolato dal soddisfacimento di nessun criterio a parte l’essere cittadino italiano. La proposta elettorale dei 5Stelle, invece, è molto diversa. Prevede un sostegno fortemente condizionato: per ottenerlo bisogna superare un income test, avere cioè determinati requisiti rispetto al reddito, che dev’essere inferiore ad una certa soglia o del tutto assente; bisogna inoltre impegnarsi in percorsi di formazione o (ri)qualificazione attraverso agenzie di formazione e di accompagnamento; bisogna poi mettere a disposizione un certo numero di ore di lavoro gratuito per la collettività e, infine, bisogna accettare almeno una delle tre offerte di lavoro che i centri per l’impiego proporranno al beneficiario, durante i tre anni di godimento del reddito, pena l’esclusione dal programma e la perdita del beneficio stesso.
Ora, come si diceva, questo programma esiste già, si chiama REIS (reddito d’inclusione sociale); proposto originariamente dall’Alleanza contro la Povertà e poi implementato dal Governo Renzi nella misura del REI (Reddito di inclusione). La differenza con la proposta dei 5Stelle, sta solo nella quantità e non nella qualità: le risorse messe in campo per il 2018 dal governo Gentiloni, sono pari a poco più di 2 miliardi, mentre per allargare la platea dei beneficiari i 5Stelle ne promettono 17, una bella differenza certo, ma l’idea di fondo è, per quanto strano possa sembrare, la stessa dei governi PD.
E in questo senso la “nuova” proposta sconta tutti i problemi legati all’attuazione delle proposte precedenti. Ne accenno alcuni di seguito: innanzitutto non s’interviene sulle cause strutturali della povertà, che in definitiva riconducono alla mancanza di capitale umano, in particolare capitale umano non-cognitivo. Non si interviene neanche sulla principale soluzione del problema della disoccupazione, cioè la creazione di nuovi posti di lavoro. La condizionalità, poi, implica che si debbano accettare i lavori proposti dai centri per l’impiego, altrimenti si perde il diritto al reddito. Ma se lavori non ce ne sono che cosa si potrà offrire? E in base a quali criteri quel determinato lavoro sarà ritenuto “congruo” per me piuttosto che per te? Se oggi, poi, percepisco il reddito di cittadinanza e domani inizio a lavorare, perderò il beneficio. Questo significa che il mio nuovo reddito verrà tassato, e pesantemente, due volte; e che questa tassa occulta (la perdita del beneficio) andrà a disincentivare la ricerca effettiva di un lavoro. Che effetti avrebbe poi sull’efficienza del mercato del lavoro lasciare che le imprese domandino liberamente lavoro e contemporaneamente obbligare i lavoratori ad accettarlo per non perdere i benefici del sostegno al reddito? Si potrebbero elencare molte altre criticità della proposta dei 5Stelle, così come della misura attualmente in vigore.
Ma la questione vera, però, ripeto, è un’altra, e non attiene tanto all’efficacia del provvedimento in sé, quanto all’orizzonte culturale in cui si situa; alla visione di fondo espressa chiaramente da Grillo circa una certa idea di futuro, un nuovo nesso lavoro-reddito. «Il mondo come lo conosciamo – scrive Grillo in un recente post – sta scomparendo. Scuola, lavoro e reddito hanno perso il loro vecchio legame. Siamo ancora convinti di avere un posto di lavoro, si fa qualsiasi cosa per un lavoro, qualsiasi. È il reddito che ci fa rimanere parte della società, non il lavoro». È il reddito che conta, non il lavoro. Questa tesi Grillo la riprende da Dominique Méda, sociologa francese autrice di vari volumi tra cui Società senza lavoro. Per una nuova filosofia dell’occupazione (Feltrinelli, 1997) consigliere di Benoît Hamon, candidato socialista alle presidenziali francesi del 2017. «Il lavoro serve a produrre merci e servizi per soddisfare i bisogni dell’uomo – scrive in un altro post Grillo – Siamo condizionati dall’idea che ’tutti devono guadagnarsi da vivere’, tutti devono essere impegnati in una sorta di fatica perché devono giustificare il loro diritto di esistere. Siamo davanti ad una nuova era, il lavoro retribuito, e cioè legato alla produzione di qualcosa, non è più necessario (…) È il reddito che inserisce un cittadino all’interno della società. Una società evoluta è quella che permette agli individui di svilupparsi in modo libero, generando al tempo stesso il proprio sviluppo. Per fare ciò si deve garantire a tutti lo stesso livello di partenza: un reddito, per diritto di nascita».
Ecco questo è il punto vero. Il “reddito di cittadinanza” così come ora lo propongono i 5Stelle, cioè un REI potenziato, è in realtà l’apripista, in una visione di medio periodo, al vero reddito di cittadinanza, un reddito, cioè, garantito e universale che ogni cittadino riceve per il solo fatto di essere nato, svincolato da ogni considerazione di povertà o ricchezza, occupazione o disoccupazione, progetto di riqualificazione o altro. E questo reddito, lo stesso reddito, lo percepirebbe Berlusconi, così come l’utente della mensa del povero, Montezemolo così come il garzone del negozietto sotto casa, in egual misura.
Si può discutere sulle virtù di una simile misura, che io, per esempio, ritengo migliore di un reddito condizionale, ma la questione vera è un’altra. Perché se la visione di fondo dei 5Stelle è quella coerente con un reddito universale la loro proposta politica si limitata a una copia carbone del REI, un provvedimento del PD? Come prenderebbero gli elettori la proposta di un vero reddito universale?
Un’ultima considerazione. Davvero ci aspetta un mondo senza lavoro? Davvero, come scrive Grillo, non è il lavoro ma il reddito che inserisce un cittadino all’interno della società? Si dovrebbe quindi essere tanto più cittadini quanto maggiore è il proprio reddito? Davvero Il lavoro serve solo a produrre merci e servizi per soddisfare i bisogni dell’uomo? Davvero l’idea che tutti ’tutti devono guadagnarsi da vivere’, serve solo a giustificare il nostro diritto di esistere?
Io no credo, non lo credo proprio. Penso che il lavoro abbia un valore in sé, come il gioco di un bambino o l’attività di un artista; non si misura in base alla sua ricompensa, ma in base al suo valore intrinseco. E il lavoro non serve a “giustificare” il nostro diritto di esistere, perché questo non va giustificato da nessuno e a nessuno. Il lavoro è manifestazione della nostra naturale scintilla creativa, dell’eccedenza della nostra azione nel mondo, della nostra capacità trasformativa e generativa. Il lavoro e ogni lavoro non equivale al suo reddito.
Le ricerche sull’economia della felicità lo dimostrano su basi quantitativamente. Il lavoro è per gli altri tanto quanto per noi stessi, crea legami e valore condiviso. È il valore che noi generiamo e che possiamo condividere a farci uomini e donne in relazione, non il suo corrispettivo monetario. In questo senso la visione del futuro preconizzato da Grillo non è altro che una distopia legata a una visione radicalmente capitalistica. Al contrario sono convinto, con Simone Weil, che «L’iniziativa e la responsabilità, il senso di essere utile e persino indispensabile, sono bisogni vitali dell’anima (…) Una completa privazione di questo si ha nell’esempio del disoccupato, anche quando è sovvenzionato, sì da consentirgli di mangiare, vestirsi e pagare l’affitto». Il lavoro negato, dunque nega un bisogno dell’anima. Perché il lavoro, non dice solo e tanto “cosa” facciamo, ma anche e più sostanzialmente “chi” siamo.
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*INTERVENTI sul Sole 24h online.
Una riflessione in tema del prof. Gianfranco Sabattini sul blog Democraziaoggi.
Gianfranco Sabattini
26 Marzo 2018 – 10:30
Caro Direttore, dopo la pubblicazione su questo “Blog” degli articoli sul problema dell’introduzione in Italia del reddito di cittadinanza e di alcuni commenti sull’argomento da parte dei lettori, consentimi di esporre alcune brevi riflessioni.
Il reddito di cittadinanza incondizionato e universale correttamente inteso non è una “misura welfarista”; esso consente di dare risposte, economicamente e socialmente significative, di natura strutturale, ai problemi connessi con l’allargamento e l’approfondimento del fenomeno della disoccupazione irreversibile, della precarizzazione del lavoro e della povertà.
L’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza corrisposto incondizionatamente a tutti i componenti (per alcuni a tutti i residenti) di un sistema sociale comporta una profonda trasformazione della tradizionali forme organizzativa della sicurezza sociale, soprattutto di quella particolare che si è espansa ed approfondita dopo la critica keynesiana al libero mercato di concorrenza.
La crisi di questo mercato comporta, non solo la necessità di una sua riforma, ma anche della riforma del modello di distribuzione del prodotto sociale, al fine di adeguare quest’ultimo alla prevalere crescente del fenomeno della disoccupazione irreversibile (che riassume in sé, sul piano delle conseguenze, anche la precarizzazione del lavoro e lo stato di povertà). Conseguentemente, la riforma del welfare State, o tiene conto dell’inadeguatezza del sistema della “copertura dei rischi sociali”, nato e consolidatosi nell’epoca pre-fordista, o si espone alle critiche neoliberiste, finalizzate a sottoporre lo Stato sociale ad un drastico ridimensionamento, in quanto considerato causa della continua espansione della spesa pubblica. La riforma del welfare State fordista, perciò, come osservano, Agostino Mantegna e Andrea Tiddi in “Reddito di cittadinanza”, deve, da un lato, “garantire i diritti acquisiti dai padri ‘fordisti’…, dall’altro consegnare ai figli un sistema di garanzie adeguate alla nuova forma del lavoro post-fordista”. In questa prospettiva, trova giustificazione l’istituzionalizzazione di un reddito di cittadinanza a vantaggio del disoccupati (e dei poveri) permanenti, in grado di assicurare l’accesso al reddito a tutta quanta la forza lavoro che perde involontariamente la stabilità delle condizioni della propria “esistenza”.
In questo modo, la “questione sociale”, propria della società post-fordista, caratterizzata dalla compresenza di due classi di lavoratori (lavoratori occupati e lavoratori disoccupati) può essere risolta con l’introduzione del reddito di cittadinanza, realizzata attraverso una riforma del welfare State, al fine di estendere a tutti un sicuro sistema di garanzie, valido anche per i coloro che sono privi di reddito, in quanto privi di lavoro.
In presenza delle condizioni di funzionamento degli attuali sistemi economici, la mancata riforma del welfare State fordista è considerata causa dell’inefficacia, non solo delle politiche pubbliche tradizionali, orientate al sostegno del pieno impiego, ma anche di rutti i tentativi di mediazione statale fondati su una ridistribuzione delle opportunità di lavoro esistenti; sia le politiche pubbliche tradizionali, che questi tentativi di mediazione, se adottati da soli, sono destinati a non incidere sul contenimento della disoccupazione strutturale. Come Affermano Mantegna e Tiddi, si tratta di “provvedimenti che, per così dire, lavorano sugli argini, mentre sul letto del fiume scorrono le acque che portano le macerie del Welfare State”.
Le perplessità sollevate dai “critici” degli articoli pubblicati sul “Blog” riguardo al reddito di cittadinanza, ripropongono inintenzionalmente quelle solitamente avanzate, non disinteressatamente, dai sostenitori dell’ideologia neoliberista. Il critico Giorgio, ad esempio (trascurando il problema delle disuguaglianze internazionali del tutto indipendente dal quello dell’introduzione del reddito di cittadinanza), solleva principalmente il dubbio che non vi siano abbastanza risorse per finanziare il reddito di cittadinanza, avanzando tra l’altro il dubbio, assieme a Tonino Dessì, della sua non sostenibilità morale.
Il problema della “copertura delle risorse necessarie” è una falsa preoccupazione, perché il reddito di cittadinanza incondizionato non è una “misura caritatevole aggiuntiva” di natura welfarista, destinata a causare una maggior spesa pubblica, ma un’innovazione complessiva dello Stato sociale esistente, implicante una riorganizzazione di tutte le risorse attualmente impiegate per il suo mantenimento, al fine di renderlo conforme alla nuove modalità di funzionamento dei moderni sistemi produttivi.
La perplessità avanzata da Tonino Dessì non ha ugualmente ragion d’essere, in quanto, come è stato continuamente ripetuto nei numerosi interventi apparsi su questo “Blog” sull’argomento, il reddito di cittadinanza incondizionato è logicamente svincolato dalla cosiddetta “etica del lavoro”. Se ciò non fosse, l’affermato rapporto che esiterebbe tra lavoro e stima di sé (perché “il Lavoro è vita”, “il lavoro è partecipazione”, “il lavoro è autonomia”, il lavoro è solidarietà, ecc.), senza del quale nulla avrebbe valore, comporterebbe la necessità di riconoscere che la continua creazione di posti di lavoro costituisce una priorità ineludibile delle politiche oubbliche. Ora, però, perché il lavoro porti stima di sé occorre che i posti di lavoro esistano; sennonché, il capitalismo post-fordista da tempo, distruggendo posti di lavoro con la continua crescita della conoscenza, crea solo una crescente disoccupazione strutturale irreversibile, per cui nel mondo attuale diventa ineludibile una nuova priorità, quella di garantite il diritto al reddito e non il diritto al posto di lavoro; ciò, perché diventa sempre più difficile contenere la riduzione dei livelli occupazionali del passato.
Infine, un’ultima riflessione, sempre nella speranza che ciò serva a fare chiarezza (e, soprattutto, ad avere chiarezza di idee) quando si parla di reddito di cittadinanza (o, come lo chiama André Gorz reddito di esistenza). Tra il reddito di cittadinanza e il reddito minimo garantito non esiste alcun corrispondenza, né sul piano della loro definizione, né su quello della loro funzione.
Il primo è un reddito attribuito incondizionatamente a tutti i cittadini, indipendentemente dal fatto che essi siano percettori o meno di altri redditi da lavoro o da capitale, mentre la sua erogazione non è subordinata a nessuna “prova dei mezzi” e, in quanto incondizionato, sottoposto ad altre forme di vincoli (impegno del beneficiario alla riqualificazione delle proprie capacità lavorative, obbligo di cercare il reinserimento nel mercato del lavoro, ecc.); per quanto riguarda la funzione, il reddito di cittadinanza incondizionato è volto a ridefinire (è bene ripeterlo sino alla nausea), da un lato, la struttura dello Stato sociale, al fine di renderla conforme alle attuali modalità di funzionamento dei sistemi produttivi capitalistici; dall’altro, a sottrarre allo “stigma sociale”, connesso allo stato di disoccupato e a quello di povertà di chi ha perso (o non ha mai acquisito), indipendentemente dalla propria volontà, ogni possibilità di reddito, per cui sia costretto a vivere con le elargizioni caritatevoli dell’organizzazione del welfare State esistente.
Il reddito minimo garantito, in quanto “misura welfarista”, è una forma di sostegno economico illimitata nel tempo, riservata a coloro che, per varie ragioni, hanno difficoltà ad inserirsi o reinserirsi nel mercato del lavoro, potendo esso integrarsi anche con un reddito già esistente se il beneficiario non supera la cosiddetta soglia minima di povertà.
Inoltre, il reddito minimo garantito, sempre in quanto “misura welfarista”, può essere eventualmente subordinato anche a particolari vincoli, ai quali il beneficiario è obbligato ad attenersi, quali, ad esempio, quello di accettare obbligatoriamente un eventuale opportunità di lavoro proposta dall’ufficio di collocamento, pena la perdita del beneficio in caso di rifiuto (La visione del bel film “Io Daniel Blake”, diretto dal regista Ken Loach, è molto istruttivo al riguardo).
Infine, un’ultima riflessione. Il reddito di cittadinanza condizionato proposto dal “Movimento 5 Stelle” (quali che siano i vincoli gravanti sul beneficiario: quelli indicati da Di Maio o direttamente da Grillo) ha i connotati del reddito minimo garantito e non quelli propri del reddito di esistenza descritto di Gorz, finalizzato a superare l’attuale logica del welfare State, al fine di adeguare le modalità distributive del prodotto sociale alle mutate condizioni di funzionamento dei sistemi economici capitalistici. Giuste, quindi, le preoccupazioni di quanti si chiedono come e in che modo il reddito di esistenza, così come proposto dal “Movimento 5 Stelle”, sarà finanziato.
Così scrivevo il 12 marzo scorso su Aladinews (Franco Meloni) https://www.facebook.com/franco.meloni.71/posts/10214493814486430?pnref=story.
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Rispetto agli indirizzi del Parlamento Europeo le misure adottate in Italia e in Sardegna sono del tutto riduttive. Utilizzando la famosa metafora di Lussu: federalismo=leone e autonomismo sardo=gatto, si potrebbe dire che il Parlamento Europeo chiede ai Governi di contrastare la povertà con misure “leonine”, mentre il Governo italiano (e quello sardo) adottano misure da “gattini”. Nelle articolate premesse della citata risoluzione del PE, tra l’altro si segnala come su 28 paesi dell’UE 26 prevedano misure di reddito minimo garantito. Sapete chi sono i 2 paesi deficitari? L’Italia e la Grecia. Ma si può? Ora, d’accordo che con la recente istituzione del Reis sardo e del Rei italiano, non partiamo da zero. Si tratta di fare evolvere tali istituti… in quale direzione? Semplice: quella indicata dal Parlamento europeo, la cui risoluzione dovrebbe essere prelevata in blocco e trasformata in “programma politico”. Quanto al “reddito di cittadinanza”, inteso come reddito incondizionato e slegato da prestazioni lavorative, incrementiamo gli studi nei nostri ricercatori (onore al prof. Gianfranco Sabattini) che da accademico-pensionato studia la materia) e teniamoci aggiornati sulle esperienze in atto in Europa e nel mondo. Al riguardo che fa l’Università sarda? Chiediamolo in primis ai Rettori.
http://www.bin-italia.org/wp-content/uploads/2017/10/EP-RedditoMinimo-P8_TA-PROV20170403_IT-1.pdf