La nuova questione settentrionale

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di Roberta Carlini, Rocca*

A Priolo, provincia di Siracusa, sede del polo petrolchimico che fu il più grande d’Europa, già simbolo di una stagione del meridionalismo e adesso di proprietà della russa Lukoil, il Movimento Cinque Stelle nelle ultime elezioni ha preso il 71,73%. Una percentuale eclatante, un giallo intenso nel mare giallo che ha invaso tutto il Mezzogiorno nelle elezioni del 4 marzo. Che, non avendoci ancora fornito una soluzione e una maggioranza in grado di governare, un merito l’hanno avuto: la riscoperta della questione meridionale. Ossia del fatto che il gap tra Nord e Sud del Paese, risalente all’unificazione, mai ricoperto davvero negli anni dei miracoli e dell’industrializzazione, poi cambiato nelle dimensioni e nelle caratteristiche fino a fine Novecento, e di nuovo riapertosi nel periodo della crisi degli anni Dieci del Duemila, è ancora un problema. Questa riscoperta è stata spesso banalizzata, con critiche e lazzi contro i meridionali «fannulloni» che si mettono in coda per il reddito di cittadinanza promesso dai Cinque Stelle – una «notizia» che tale non era, ma pure ha campeggiato sui giornali di carta e sui siti per diversi giorni fino a diventare un luogo comune –, oppure è stata più seriamente trattata. Una discussione che però ha eclissato l’altra questione che emerge dal voto: quella settentrionale. Se è giusto e necessario chiedersi come mai tutto il Mezzogiorno ha votato così compattamente contro i governi passati e contro l’establishment, ricalcando – lo ha mostrato l’Istituto Cattaneo – le percentuali che le stesse regioni davano nel 1992 alla Democrazia Cristiana, sarebbe interessante anche chiedersi come mai il Nord ha scelto oggi la Lega di Salvini. Una Lega che ha cambiato pelle, non chiede più il secessionismo, difende l’italianità e la sovranità nazionale, chiede e ottiene voti anche al Sud. E che ha conquistato, rispetto alle elezioni del 2013, ben 4 milioni e 223mila voti in più, laddove Forza Italia ne ha persi quasi 2 milioni e 800mila. Perché il Nord ha preferito Salvini a Berlusconi?

crollo di Forza Italia
I dati del travaso di voti da Forza Italia a Lega parlano chiaro. Il crollo di Forza Italia, del partito azienda che recava nel suo simbolo l’impossibile («Berlusconi presidente», condizione giuridicamente irrealizzabile per le condanne dell’ex Cavaliere), è stato generalizzato e maggiore, sia in percentuale che in numeri assoluti, di quello dell’altro grande sconfitto, il partito democratico. Nel voto italiano, il Pd ha perso il 30,2%, quasi un voto su tre; Forza Italia il 38,1%, quasi quattro su dieci. È successo un po’ ovunque, così come la Lega è avanzata un po’ ovunque, con incrementi percentuali mirabolanti in alcune zone del Sud: però in quei casi partiva da numeri piccolissimi, dunque il grosso dei suoi voti viene ancora dallo zoccolo duro del Nord e dall’altra fascia-cuscinetto che si va consolidando, nella cintura delle regioni ex-rosse.
Ma vediamo cos’è successo nelle due regioni-chiave, quelle dove tutto è cominciato nella storia del Carroccio e in quella dell’azienda-partito di Mediaset-Forza Italia. Secondo le elaborazioni dell’istituto Ixe, in Lombardia il 22% di coloro che avevano votato Forza Italia nel 2013 stavolta ha votato Lega. In Veneto, la percentuale sale ancora: il 43,1% di transfughi nell’urna dal partito di Berlusconi a quello di Salvini. Quest’ultimo ha preso un partito malridotto dopo gli scandali, l’eclissi di Bossi e la crisi di un gruppo dirigente; ne ha cambiato l’identità rivoltandolo e togliendo persino la parola «Nord» nel simbolo; ha perso l’appoggio della vecchia guardia di Maroni, ex governatore lombardo; e ciò nonostante è riuscito a mantenere fedeli i suoi, e a conquistare il voto degli altri. Pescando un po’ ovunque, ma soprattutto tra i suoi alleati. Tra l’offerta di destra «moderata» dell’ottantunenne Berlusconi e quella estremista del quarantacinquenne Salvini, il Nord ha scelto la seconda.

l’offerta-Lega
Va detto che non è la prima volta che ci si trova davanti a una sorpresa del genere, e forse dovremmo smetterla di sorprenderci: la stessa avanzata e vittoria di Berlusconi nel 1994, e gli anni successivi, dimostrarono che una destra moderata e conservatrice italiana non c’è, neanche dove è più forte, socialmente, la media e piccola borghesia produttrice. Berlusconi vinse proprio perché era estremo, la destra moderata e rispettabile ha avuto di recente un nome e cognome nobili – Mario Monti, anno 2013 – che al voto ha incassato un risultato molto magro. Così come è discutibile accettare la qualifica di «moderato» per Berlusconi solo perché ha abbassato i toni con le cancellerie estere e si è posto come loro garante, pur presentando un programma, basato tutto su flat tax e condoni, estremamente radicale dal punto di vista economico e sociale (radicale, a favore dei ceti possidenti). Però questa era l’immagine, questa l’offerta politica, questo il posizionamento. Rifiutato dagli elettori, che hanno preferito l’offerta-Lega, caratterizzata da due prodotti tra loro combinati: il «prima gli italiani» e la lotta all’immigrazione. La difesa dalla globalizzazione e dall’invasione, nelle loro parole. Sovranismo e xenofobia, per usare le stesse parole con le quali chiamiamo i movimenti simili, e spesso alleati, degli altri Paesi.
Stiamo parlando delle due regioni che trainano l’economia italiana. Quelle a maggior prodotto interno lordo, e in testa anche nel reddito pro capite. Rovesciando nel suo contrario la banalizzazione che è stata fatta dei disoccupati del Sud in cerca di assistenza, si potrebbe dire che il ricco Nord cerca di pagare meno tasse. Ma le cose non sono così semplici: il messaggio «meno tasse» era importante nella campagna della Lega, ma anche – e forse più – in quella di Berlusconi. Mentre il marchio distintivo della campagna leghista è stato quello dell’immigrazione. Al centro di tutti i discorsi, in tv, su internet, sui social, nelle piazze, nelle radio, sulle magliette, sui distintivi. In modo ossessivo e pervasivo, a partire da quella rete tv – Rete 4 – di fatto appaltata da Mediaset agli alleati leghisti, le cui trasmissioni hanno cavalcato e alimentato il panico. Fino all’episodio-clou della campagna elettorale, che se non ne ha deciso il senso certo lo ha disvelato, ossia la sparatoria di Macerata su neri colpiti per strada a caso da un ex militante della Lega: che il 4 marzo a Macerata è passata dallo 0,6 al 21%.

il Nord e la globalizzazione
Il discorso anti-immigrati si nutre di insofferenze e sofferenze reali e di esagerazioni e mistificazioni (che viaggiano più veloci delle loro precisazioni e smentite); e fa presa laddove ci sono più immigrati: nelle regioni del Nord appunto, che attraggono proprio perché c’è più lavoro. Ma il suo successo è probabilmente rafforzato dalla saldatura con l’altra parte del discorso, la difesa da altre «minacce» che vengono d’oltreconfine: i prodotti cinesi, le regole europee, la competizione nei servizi. Tutto il mondo che ci cade addosso e viene visto come una minaccia terribile allo status esistente e al futuro. In questo, il Nord chiede protezione dalla globalizzazione almeno quanto il Sud. Ma il paradosso è che esso stesso ne ha beneficiato e ne beneficia. Tornando ai dati economici: la Lombardia è la prima regione italiana per export, con 88 miliardi di euro di valore. Segue il Veneto, con 45 miliardi. Insieme, fanno più del 40% delle esportazioni italiane. Viene da chiedersi come abbiano potuto votare in massa un partito che vuole frontiere e dazi. Cosa sarebbero Veneto e Lombardia senza il libero commercio internazionale? E quanti dei piccoli e medi imprenditori elettori di Salvini hanno immigrati a salari convenienti nei loro capannoni? Quanti vanno a produrre, o a comprare semilavorati, oltreconfine? C’è qualcosa di antico, in queste contraddizioni: il richiamo a un capitalismo all’italiana che del libero commercio vuole prendersi solo quel che serve e conviene, e le regole piegarle a suo uso e piacimento. Ma c’è anche una irrazionalità nella richiesta di difesa che non aiuta a capire bene da dove l’attacco viene, o è venuto.
Pure, sarebbe sbagliato pensare che quella del Nord è la rivolta di un ceto benestante che vuole solo tutelare quel che ha. L’economia che produce e tira e fa profitti è quel che resta di una selezione operata dalla crisi, che ha lasciato molti fuori e molti in difficoltà. Non solo. La crisi ha anche reso evidente a tutti che ogni conquista è a termine e rischia di essere cancellata in pochi giorni, o settimane. La ripresa che c’è stata ha portato produzione e profitti, ma non lavoro buono e ben pagato. E il rischio di povertà, che come rivela l’Indagine sui bilanci delle famiglie della Banca d’Italia interessa il 23% tra le famiglie italiane, negli anni della crisi è rimasto stabile al Sud mentre è cresciuto al Nord. I numeri sono ancora molto distanti: a Mezzogiorno è sotto la soglia di povertà relativa il 39,5% delle famiglie, mentre al Nord «solo» il 15%. Però nel Nord, prima della crisi, ossia nel 2006, questa condizione interessava l’8,3% delle famiglie. A livello nazionale, il rischio di povertà è aumentato soprattutto per la componente straniera della popolazione. Il Nord resta relativamente più ricco, anzi guida la nuova ripresa di ricchezza e produzione, ma ha dentro anche più sofferenza, insofferenza e povertà: in altre parole, più Sud. E questo mix aiuta a capire la nuova questione settentrionale, più della vecchia ambizione della rivolta fiscale.

* Roberta Carlini su Rocca 07 del 1° aprile 2018
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. Rocca 7/2018

One Response to La nuova questione settentrionale

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