Internazionale

usa-cinaIl tallone di Achille della politica della Cina
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Gianfranco Sabattini*

E’ diffusa l’idea che, dopo essere stata un fattore di stabilità del quadro economico mondiale, l’integrazione della Cina nell’economia globale sia destinata ad un futuro incerto; ciò, perché i ritmi del suo impetuoso sviluppo hanno generato squilibri territoriali, settoriali e sociali interni, ai quali, in questi ultimi anni, si sono aggiunti quelli finanziari, causati dal crescente indebitamento complessivo delle imprese e dello Stato. Questi ultimi squilibri hanno dato luogo ad una situazione economica e sociale potenzialmente tanto instabile, da mettere in dubbio la possibilità che possano essere perseguiti gli obiettivi stabiliti in occasione dell’ultimo congresso del Partito Comunista Cinese, svoltosi sul finire dell’anno scorso.
Com’è noto, il processo di integrazione della Cina nell’economia mondiale, teorizzato ed avviato alla fine degli anni Settanta da Deng Xiaoping, dopo aver sconfitto la politica conservatrice e isolazionista praticata da Mao Zedong, dall’atto della fondazione della Repubblica Popolare nel 1949, ha consentito al grande Paese asiatico, non solo di crescere a ritmi sostenuti, ma anche di adottare un sistema di gestione dell’economia più vicino al libero mercato, sia pure con “caratteristiche cinesi”, che non al metodo della pianificazione rigidamente centralistico.
Paola Subacchi, senior fellow del Royal Institute of International Affairs londinese, in “Cina: tra tracollo e mercato” (Aspenia, n. 79/2017), sostiene che una schiera crescente di analisti mette ora in dubbio la possibilità che la Cina possa continuare, negli anni a venire, a svolgere come nel passato la funzione stabilizzatrice del mercato mondiale; gli analisti mettono soprattutto in dubbio che la nuova leadership cinese, espressa dalla fazione vincente di Xi Jinping, uscita vittoriosa dall’ultimo congresso del partito comunista, possa riuscire a mantenere il tasso di crescita in linea con l’obiettivo economico stabilito in una crescita del PIL pari al 6,5% annuo, senza incorrere in una situazione di instabilità finanziaria. In particolare, essi non credono che la Cina possa riuscire a conservare il controllo sulle banche e, nello stesso tempo, “persuadere gli investitori internazionali a detenere attività finanziarie denominate in una moneta parzialmente internazionalizzata come il renminbi”, il cui governo dipende più dalle decisioni politiche della Banca centrale, che dagli andamenti del mercato.
A sollevare i maggiori dubbi è il tentativo del governo cinese di limitare il rischio dell’instabilità finanziaria attraverso l’introduzione di un rigido controllo dei capitali in entrata ed in uscita dal Paese. Secondo la Subacchi, le difficoltà finanziarie delle quali soffre oggi l’economia cinese sono da ricondursi alla particolare accelerazione che ne avrebbe caratterizzato l’economia negli anni immediatamente precedenti e successivi alla crisi della Grande Recessione che ha colpito l’economia mondiale a partire dal 2007/2008. “Tra il 1990 e il 2016 – afferma la Subacchi – il PIL è aumentato in termini reali al tasso medio annuo di circa il 10%, facendo del Paese la seconda più grande economia dopo gli Stati Uniti e il principale esportatore [...]. Il PIL pro-capite è passato da 350 dollari in termini nominali nel 1990 ai circa 8.300 dollari attuali”, favorendo l’uscita dalla condizione di povertà estrema a 500 milioni di persone.
In sostanza, negli ultimi trent’anni, con una politica di apertura cresce verso il resto del mondo, a fronte di un’economia mondiale in forte espansione, la Cina ha potuto sostenere la crescita della propria economia secondo ritmi che non hanno uguali nella storia, disponendo di forza lavoro a basso costo e di un elevato tasso i risparmio interno, che ha consentito alle imprese di poter disporre di finanziamenti a basso tasso di interesse. A ciò va aggiunto anche il sostegno del quale le attività produttive hanno fruito, grazie al controllo del tasso di cambio, permettendo alle imprese di conservare costante la loro competitività sul mercato internazionale. Alle particolari condizioni operative che hanno consentito alle imprese cinesi di affermarsi sui mercati mondiali, devono essere aggiunti anche gli effetti positivi degli investimenti diretti esteri, in termini non solo di capitale finanziario, ma anche di tecnologie avanzate e di competenze professionali.
L’enorme balzo in avanti del sistema economico cinese inizia ora a presentare un costo, espresso, in particolare, come già si è detto, dal crescente indebitamento dello Stato e dei governi provinciali; ciò è da imputarsi al fatto che, nonostante il risparmio delle famiglie ammonti al 38% del loro reddito netto, il debito complessivo ammonta a circa il 300% del PIL; un livello decisamente anomalo, se si considera che l’indebitamento totale prima dell’inizio della Grande Recessione era di circa il 130% del PIL. L’alto indebitamento, interno e internazionale, induce gli analisti a pensare che la prossima crisi finanziaria globale possa partire proprio dalla Cina.
Il governo cinese cerca di ricorrere ai ripari, aumentando i controlli, al fine di limitare i flussi finanziari in uscita ed intensificando, tra l’altro, l’attività di intermediazione fuori dai normali canali del credito, con la pratica del sistema bancario ombra (shadow banking), del quale in tutti gli anni di crescita sostenuta la Cina si è avvalsa. Notoriamente, il sistema bancario ombra è costituito dal complesso degli intermediari che erogano servizi bancari senza essere soggetti alla relativa regolamentazione. In particolare, tale attività è svolta mediante la raccolta di fondi in forme diverse da quella delle operazioni di deposito, e quindi, non sottoposte ai limiti imposti dalla regolamentazione e dalla vigilanza bancaria, tra i quali i requisiti patrimoniali di garanzia richiesti dagli accordi di Basilea. L’espansione di questo sistema è da ricondursi per lo più alla decisione, assunta dalle banche di diversi Paesi negli anni precedenti la crisi (anche grazie all’utilizzo di nuove tecnologie informatiche), di “esternalizzare” alcune attività, caratterizzate, oltre che da elevati margini di guadagno, anche da un forte livello di rischio, da una rilevante trasformazione della scadenza della liquidità e da un’ampia leva finanziaria (indebitamento delle imprese), tramite l’utilizzo di strumenti derivati.
A questo sistema di intermediazione del credito la Cina ha fatto ricorso, per consentire alla proprie imprese di godere della disponibilità di “prodotti di risparmio gestito” fuori da ogni controllo. Ciò ha avuto la conseguenza che il perseverare della pratica dell’intermediazione fuori dai canali istituzionali abbia “inibito lo sviluppo di un settore bancario efficiente e trasparente, con mercati finanziari liquidi e diversificati. Il risultato finale del malfunzionamento del sistema del credito è stata la necessità di ricorrerete a rigidi controlli dei movimenti di capitali da e verso i mercati esteri, che hanno “ingessato” l’”integrazione finanziaria della Cina nei mercati internazionali di capitali”, impedendo che la valuta nazionale divenisse la base per la costruzione di una sia pur limitata base valutaria indipendente dal dollaro. A differenza della valuta americana, ma anche di altre importanti valute, il renminbi è quotato solo in alcune grandi piazze finanziarie”.
Per superare la situazione di crisi, la Cina deve perciò procedere in tempi brevi a profonde riforme delle sue istituzioni finanziarie; riforme però che, a parere di Paola Subacchi, dovranno “affrontare il problema del legame tra leadership, banche e imprese di Stato che inficia la trasparenza, la governance e l’indipendenza dell’intero sistema del credito”. La soluzione di questo problema non sarà facile in tempi brevi, in considerazione del fatto che la leadership attuale, pur consapevole dell’urgenza delle riforme, ritiene che i tempi di riforma, a differenza di quanto accaduto per l’economia reale, debbano essere graduali e tali da assicurare al sistema del credito le irrinunciabili “caratteristiche cinesi”; in altri termini, le riforme non dovranno minimamente attenuare la possibilità del controllo politico sul funzionamento complessivo del sistema economico.
Realizzare “un equilibrio tra apertura e controllo che non ingessi il mercato e allo stesso tempo non indebolisca il potere del governo è un dilemma – afferma la Subacchi – che attanaglia la leadership cinese dai tempi di Deng Xiaoping”; il rischio che l’instabilità finanziaria possa ulteriormente peggiorare sta inducendo il governo cinese a propendere verso un maggior controllo del sistema del credito, destinato ad ostacolare gli ambiziosi piani di crescita e sviluppo promessi dal segretario del partito Xi Jinping.
La scelta di optare per un maggior controllo sul funzionamento del sistema economico è destinata ad avere un impatto frenante, se non negativo, sul “processo di integrazione della Cina nel sistema monetario e finanziario internazionale”, limitando la possibilità che il renminbi possa diventare strumento di regolazione delle transazioni internazionali; fatto, questo, molto limitante, se si pensa che la valuta nazionale cinese è stata recentemente inclusa nel paniere delle monete che finanziano i “diritti speciali di prelievo emessi dal Fondo monetario internazionale”: lo stretto controllo cui è sottoposto il sistema cinese del credito farà del renminbi una moneta a limitata circolazione internazionale, che ostacolerà non poco l’obiettivo della Cina di aumentare la presenza della propria economia nei mercati mondiali.
Le difficoltà finanziarie della Cina sono oggi oggetto di riflessione da parte degli osservatori internazionali. Essi sono preoccupati delle possibili difficoltà cui può andare incontro l’economia cinese, come dimostra, ad esempio, il fatto che l’Asia Society Policy Institute e il Rhodium Group (società di studio e consulenza internazionali in tema di gestione degli investimenti, di pianificazione strategica nei settori finanziario e aziendale) abbiano creato un gruppo di lavoro ad hoc, il China Dashboard (alla lettera: pannello di comando cinese); compito di quest’ultimo sarebbe quello di studiare non tanto ciò che le organizzazioni internazionali ritengono che la Cina debba fare, quanto gli obiettivi che essa si è data sul piano delle riforme e dei risultati sinora raggiunti.
A preoccupare gli osservatori internazionali riguardo al futuro della Cina, infatti, non è solo la sua capacità di tenuta in fatto di crescita del PIL, ma anche la possibilità che essa cada nella “middle income trap”, la trappola nella quale incorrono, dopo un periodo di crescita sostenuta, le economie emergenti; ciò perché un modello di crescita centrato sugli investimenti non sempre consente a un Paese, dopo un periodo di crescita sostenuta, l’opportunità di conseguire ulteriori incrementi dei livelli di reddito pro-capite, propri di un’economia avanzata. L’esperienza consente di rilevare che, in molti casi, i Paesi emergenti sono andati incontro a serie difficoltà nella prosecuzione del loro processo di crescita.
Per uscire dalla probabile trappola, alcuni osservano che la Cina potrebbe avvalersi della teoria neo-schumpeteriana, elaborata dagli economisti Philippe Aghion e Peter Howitt, secondo i quali la crescita può essere rilanciata da innovazioni in grado di riformare la struttura dell’offerta, le regole sottostanti la mobilità sociale, l’organizzazione tradizionale dello Stato, le modalità di acceso al credito e le strutture formative.
Queste innovazioni sono strumentali alla fuoriuscita dalla “trappola del reddito medio”; ciò, però, nel caso della Cina si scontra con la lentezza delle necessarie riforme, e soprattutto con la pretesa di realizzarle sotto il rigido controllo del partito: un dilemma assai arduo da risolvere, per un Paese che si propone di diventare la prima economia globale.
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*Anche su Avanti online.
In testa immagine tratta da testata-avanti-maubianco

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