Elezioni

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Un voto su cicatrici e ferite della crisi
di Roberta Carlini, su Rocca

La sinistra è sparita, la destra ha cambiato pelle. La prima prometteva cambiamento, ed è stata subissata dai colpi di una rivolta contro l’establishment, ossia contro i difensori dello status quo, del quale è stata considerata, a torto o a ragione, rappresentante supremo. La seconda prometteva ricchezza, adesso assicura difesa: dalla povertà, dagli stranieri, dalla concorrenza, dalle banche. Nella sinistra – o meglio tra i suoi eredi – i leader sono caduti tutti, uno dopo l’altro, restando o uscendo dal partito ma mai dalla cerchia ristretta della élite, reale o percepita. Nella destra è nettamente cambiata la leadership, da Berlusconi a Salvini, e la pelle che è caduta ha svelato quel che nel profondo ricopriva e ha permesso il più grande successo di un partito xenofobo in uno dei Paesi protagonisti dell’unificazione europea. In mezzo, c’è il primo partito, il Movimento Cinque Stelle, dall’identità politica indefinibile e indefinita per scelta, quantomeno sulla base delle categorie del Novecento, passato dalla difesa dei “beni comuni” come l’acqua (prima fase del grillismo) alla campagna contro i “taxi del mare” (ultima e vittoriosa fase, che li ha messi nel solco vincente del sentimento popolare contro l’immigrazione).

All’indomani del voto, per una volta sono stati chiari i vincitori e i perdenti. Anche se questi ultimi – Renzi e Berlusconi – non hanno intenzione di farsi da parte, la loro sconfitta è evidente, e porta con sé l’eclis- si dell’unico scenario che era possibile esi- to, e forse obiettivo implicito, della nuova legge elettorale, ossia un governo di «lar- ghe intese» tra un Pd ammaccato e una Forza Italia rediviva. Invece di ammaccar- si, il Pd si è suicidato, mentre il partito- azienda di plastica dell’incandidabile Berlusconi è stato rottamato da quello di carne, sangue e social network di Salvini. Tutto ciò consegna un puzzle parlamentare forse insolubile, sul quale è troppo presto fare previsioni e ipotesi. Qualcosa di più invece si può dire sulla realtà sociale ed economica che il voto riflette, ci svela e amplifica; e anche sulla possibilità reale che il cambiamento, chiesto a gran voce nell’urna, si possa realizzare.
Quello del 4 marzo è stato il primo voto politico generale a crisi conclusa. Nel 2013 si votava ancora nel pieno della recessione, con il colpo appena inferto dalla crisi degli spread e dalle misure di austerity imposte dall’Europa e realizzate da Monti: ne uscì il primo balzo in avanti del Movimento Cinque Stelle e un parlamento diviso in tre, governato solo con gli artifici delle intese tra diversi, prima «larghe» poi più strette. Stavolta, si è votato sulle cicatrici e sulle ferite ancora aperte della crisi. La mappa del voto vede le regioni del Nord quasi completamente al centro-destra (con la sola eccezione dell’area metropolitana di Milano), il Sud uniformemente colorato del giallo a Cinque Stelle, e il centro diviso tra i due, con le ex regioni rosse ristrette in un circolo sempre più piccolo, di fatto a una dimensione provinciale. Se proviamo a sovrapporre questa mappa elettorale a quella dei dati economici e sociali, vengono fuori alcune costanti. La destra a trazione leghista domina in quello che una volta era il motore produttivo del Paese, sia nel «vecchio» triangolo industriale (quello della prima industrializzazione, da Torino a Genova a Milano) che nel successivo miracolo del Nord-est: motori non lo sono più, ma sono le zone in cui più spesso si trovano i distretti sopravvissuti alla crisi, rinati con le esportazioni, a costo di una brutale selezione nella quale si sono perse decine di migliaia di posti di lavoro. Il giallo pentastellato invece, più uniformemente sparso ovunque, diventa più intenso man mano che si scende nella geografia e negli indicatori economici. Il tasso di occupazione, che già non è alto nella media italiana, a Mezzogiorno è del 43,4%, mentre a Nord è del 65,8 e al Centro del 62%. Il tasso di disoccupazione meridionale è triplo di quello del Nord, la quota di giovani che non lavorano né studiano (Neet) è del 34,2% contro il 16,9%. Il prodotto interno lordo pro capite sta sui 34mila euro l’anno a Nord, e poco sopra i 18mila al Mezzogiorno; e un rapporto simile lo troviamo se guardiamo alle retribuzioni lorde dei dipendenti, con i lavoratori del Sud appena sopra la metà della retribuzione di quelli del Nord.

Nord e Sud
La questione meridionale non è nuova, anzi è una costante di tutta la storia dell’Italia unitaria e repubblicana. Ma con la crisi sono successe due cose. In primo luogo, il gap si è approfondito, e non è stato affatto avvicinato da una ripresa della produzione manifatturiera che ha interessato anche zone del Sud (non tutto è sempre uguale al passato) ma che non ha avuto un impatto numerico rilevante sull’occupazione: ma si è approfondito in una corsa al ribasso, non perché il Nord sia schizzato avanti per uno dei suoi miracoli. In altre parole: il Sud sta peggio del Nord, ma il Nord sta peggio di prima.
In secondo luogo, sono venuti meno i «cuscinetti» dell’aiuto pubblico e del welfare familiare: il primo, con i tagli alla spesa sociale, ai trasferimenti trasparenti e a quelli clientelari, e soprattutto alle casse degli enti locali dovuti all’austerity; il secondo, dissanguato dagli anni in cui gli anziani e adulti hanno dovuto sovvenzionare i giovani, spesso dando loro una dote per partire, e andare a studiare, lavorare (e spendere, e costruire futuro) in altre regioni o all’estero.
In questo bacino di sofferenza sociale profonda, orfana di una prospettiva di riscatto da parte della sinistra e dei suoi eredi, il Movimento Cinque Stelle ha pescato a piene mani. E un po’ ci ha pescato anche la Lega transitata dal secessionismo al nazionalismo. In passato Bossi e i suoi avevano promesso al Nord così lontano dal Sud e vicino all’Europa di staccarsi, di buttar via il peso economico e sociale del Mezzogiorno e così salvarsi da soli. Nell’Italia del dopo-crisi la nuova Lega, nazionale e sovranista, propone a Nord e Sud di salvarsi insieme ma «da soli», cioè chiudendo quei confini dai quali, dice, arriva ogni male: la finanza, la speculazione, l’austerity, la concorrenza, la globalizzazione. E, soprattutto, le persone: gli immigrati.
Gli esclusi, gli arrabbiati, gli arroccati: tutti insieme, hanno consegnato la maggioranza virtuale del nuovo parlamento ai due campioni della politica anti-establishment, ossia il Movimento Cinque Stelle e la Lega. Che però, molto probabilmente, non vorranno e non potranno allearsi e governare insieme.

nell’attesa di una autarchia impossibile
Ma lasciamo da parte per un attimo le tattiche e le difficoltà del nuovo parlamento. Se un governo degli anti-establishment fosse possibile, cosa potrebbe fare, concretamente? Tra qualche settimana arriverà la procedura della Commissione europea contro l’Italia per deficit eccessivo: bisognerebbe rispedirla indietro, trattare, o ubbidire? È vero che l’Italia non è la Grecia né l’Ungheria di Orban, ma pure rimane difficile, una volta rinunciato all’arma finale dell’uscita dall’euro, gestire la partita. E da subito bisogna finanziare il debito pubblico: lo spread per ora è sotto controllo, ma se risalisse si tradurrebbe subito in maggiori spese per pagare gli interessi. Cambiare le regole del gioco in Europa è necessario, ma bisogna sedersi al tavolo, tessere alleanze, avere un progetto e un «piano B». Quando ci ha provato Tsipras, è venuto fuori all’improvviso che il «piano B» era un bluff e la Grecia l’ha pagato. Senza contare l’esplicita contraddizione del modello economico leghista, che vuole puntare sulle imprese italiane che esportano ma allo stesso tempo benedice dazi e frontiere: e se le ritorcessero contro di noi?
Facile prevedere che di tutta la costruzione «populista» l’unica strada percorribile, facile, resta quella di prendersela con gli immigrati e la concorrenza sui lavori poveri che fanno al posto degli italiani. Nell’attesa di un’autarchia impossibile, alle vittime della globalizzazione si ventila la possibilità di rifarsi a spese di altre vittime, di un altro sud. Una linea chiarissima nei discorsi e nelle pratiche della Lega, e che corre sottotraccia anche nel corpo enorme dei Cinque Stelle. E che purtroppo non ha trovato anticorpi, né un disegno alternativo, in nessuno dei pezzi perdenti e perduti degli eredi della sinistra del Novecento.
Roberta Carlini
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Dopo il 4 marzo
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ranierolavalle-fb«La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini» [R. La V.]

L’analisi di Raniero La Valle*

UNA FELICE DISCONTINUITÀ

Il voto del 4 marzo, raffigurato nella cartina colorata trasmessa quella sera in TV, ha mostrato due Italie: l’Italia del Nord, identificata dalla maggioranza di centrodestra a trazione leghista, e l’Italia del Sud, identificata dalla maggioranza 5 stelle, ben radicata e rappresentata anche nel Nord.
Diciamo subito che noi amiamo tutte e due le Italie, come un’Italia sola; che questo è un amore fatto di stima e ricco di speranza, e che nell’analisi di ciò che l’Italia ha fatto il 4 marzo cercheremo di dare ragione di questo illeso amore e di questa robusta speranza.
L’elettorato ha espresso un voto che ha sorpreso, da nessuno sondato e immaginato così. È stato un voto che in molti ha suscitato dolore, sgomento, in qualcuno addirittura indignazione e paura. Per rispetto di questi sentimenti occorre escludere qualsiasi trionfalismo e guardarsi da ogni giudizio saccente, manicheo, bianco o nero, tutto bene o tutto male.
Però si possono cogliere alcune positività non indifferenti di questo voto.
Prima di tutto è venuto meno il demone di un crescente astensionismo. Gli italiani non hanno licenziato con disprezzo la politica. Qui i poteri opprimenti non hanno ancora vinto. La democrazia continua, la Costituzione è salva. I giovani hanno votato. Anzi sono stati decisivi. Con entusiasmo lo hanno fatto quelli che, per l’età, votavano la prima volta. Incoscienti, certo, perché non sanno il passato, ma nuovi, ansiosi di futuro.

Una feconda, netta discontinuità

In secondo luogo le elezioni del 4 marzo hanno introdotto nella vita politica italiana una netta discontinuità. Naturalmente non sempre la discontinuità è positiva, perché il dopo può essere peggiore del prima. Tutti i conservatori la pensano così. Però senza discontinuità il nuovo non accade e la storia è finita. La discontinuità è la soglia attraverso cui può fare irruzione l’inedito, l’insperato, può scoccare il tempo propizio, può giungere l’occasione che va colta, può passare quello che gli antichi chiamavano il kairόs, con le ali ai piedi, da afferrare prima che scompaia. È la cesura che interrompe quello che Walter Benjamin nella sua filosofia della storia chiamava il tempo “omogeneo e vuoto”; e la politica italiana aveva bisogno di questa discontinuità, perché il suo tempo stancamente ripetitivo non solo era vuoto, non solo era sordo a qualsiasi parola nuova, come per esempio quella della critica di sistema di papa Francesco, ma di discesa in discesa stava arrivando a un punto di caduta, rischiosissimo, e la gente stava male. Ora dunque si tratta di prendere in mano la discontinuità, non subirla, e volgerla al meglio.
In terzo luogo l’elettorato ha sbrigato alcune pratiche che la politica professionale stentava a chiudere. Una è stata quella della interminabile uscita di scena di Berlusconi: mentre il sistema mediatico lo dava per risorto e futuro deus ex machina della nuova legislatura, l’elettorato ha chiuso la partita. La stessa cosa ha fatto con Renzi, ponendo fine alla sua azione di impossessamento e di progressiva decostruzione di un partito così importante per la democrazia italiana come il Partito Democratico. Naturalmente ci sono i sussulti della fine che rendono drammatica questa transizione, ma l’esito sembra segnato.

Non c’è più il fantasma della secessione della Padania

In quarto luogo c’è un cessato pericolo che il voto del 4 marzo certifica e sancisce. Non c’è più il fantasma della secessione della Padania. È vero che la Lega è passata dal 4 al 17 per cento, (restando pur sempre una minoranza contenuta) ma questo è il prezzo del fatto che essa da partito locale e secessionista del Nord è passato ad essere partito nazionale e unitario anche al Sud, e se proprio non può fare a meno di giuramenti, è meglio che giuri sulla Costituzione e sul Vangelo piuttosto che sul Dio Po e sulle sue ampolle. Siamo sempre al livello pagano del sacramento del potere, ma almeno siamo più tranquilli riguardo alla nazione.
C’è infine un dato molto confortante: non esiste quella ondata di riflusso al fascismo che era stata avvistata e temuta. Casa Pound ha ottenuto un risultato minimo, e la bandiera alzata su tutti gli spalti della lotta agli immigrati non si può accreditare sommariamente al razzismo e alla xenofobia. Essa è ascrivibile piuttosto alla sindrome dell’egoismo, “noi per primi”, “Prima gli italiani”, “mors tua vita mea”, che è poi la logica della politica intesa come difesa dei propri interessi e non del bene comune, della politica identificata col bipolarismo amico-nemico, ed è poi l’etica egemone del capitalismo come competizione, concorrenza, meritocrazia, scarti ed esuberi. L’egoismo non è razzismo, perché è negazione dell’altro, senza badare alla sua pelle, il razzismo semmai ne è un corollario nella situazione data; la destra stessa non si può dire xenofoba, perché non ha affatto paura degli stranieri (e anzi li sfrutta), semplicemente è contro di loro, non li vuole a tavola, non li vuole a traversare il mare, perciò è antixenita, più che xenofoba. La vera questione è che il fascismo va combattuto a monte, prima ancora che diventi tale.

Due vincitori, due sconfitti

Quanto al merito dei risultati elettorali, ci sono due vincitori e due sconfitti. Come da tutti è stato riconosciuto, I due vincitori sono il Movimento Cinque Stelle e la Lega di Salvini, con un’importante differenza però: il Movimento 5 stelle ha vinto nel Paese, la Lega ha vinto all’interno della coalizione di centro-destra, perciò non possono vantare gli stessi diritti. I due sconfitti sono il Partito Democratico e la sinistra di Liberi e Uguali.
C’è ora il problema del Parlamento che deve dare la fiducia a un governo. Non essendoci una maggioranza assoluta, i partiti presenti in Parlamento hanno non la facoltà, ma il dovere di concorrere a formare una tale maggioranza. Perciò Moro, che veniva dall’anticomunismo (inteso allora come lotta al peggiore estremismo) persuase il suo gruppo parlamentare alla Camera di unire i suoi voti con quelli del partito comunista e lo fece con una straordinaria onestà, cultura, e senso dello Stato, e con la forza di una dedizione morale che egli sapeva potesse giungere fino a costargli la vita.
Ora, per costruire una maggioranza che permetta un governo Cinque Stelle, i giochi sono aperti, e questo è del tutto legittimo. Ma non sono consentite bugie e attentati suicidi.
Quanto alle bugie, è falso che l’elettorato abbia collocato il Partito Democratico all’opposizione. Gli elettori votano sempre con l’intenzione che i loro rappresentanti abbiano parte nella direzione del Paese. Se il Partito Democratico decide a priori di stare all’opposizione, non per adempierne il mandato ma in realtà per vendicarsi del corpo elettorale, lo fa per volontà sua, rovesciando la sua stessa tradizione, e anche le tradizioni da cui proviene che si potrebbero far risalire addirittura fino al 1919.
È falso poi che l’Italia sia tutta divisa tra due estremismi, con la sola eccezione della piccola isola rimasta moderata del PD. Imputare la propria sconfitta a un elettorato fattosi d’improvviso insensato ed estremista, ha lo stesso fondamento dell’invettiva di Saragat che imputava al “destino cinico e baro” la sconfitta del PSDI.

Non come Andreas Lubitz!

È però un attentato alla Repubblica dire: “poiché ci sono due estremismi, che facciano loro il governo, se ne sono capaci”. Infatti è il tentativo, per il proprio supposto tornaconto futuro, di indurre a un’alleanza e a un governo degli opposti estremismi, che è precisamente ciò che dall’inizio della Repubblica tutti i politici e gli statisti hanno strenuamente cercato di impedire.
È infine un suicidio ritirarsi sull’Aventino, con il proprio gruppo di parlamentari fedeli. Ma è un suicidio come quello di Andreas Lubitz, il pilota tedesco dell’ Airbus che il 26 marzo 2015 si schiantò volontariamente contro una montagna delle Alpi francesi, con la deliberata volontà di distruggere l’aereo insieme con le 149 persone che erano a bordo.

La sconfitta della sinistra

Ma al di là delle conseguenze più prossime, il vero monito e il vero know how o insegnamento che viene da queste elezioni, è legato alla sconfitta della sinistra. La sconfitta di Liberi e Uguali è più significativa nel lungo periodo di quella del PD. Quella del PD infatti non ha una lettura univoca, essendo stata soprattutto una sconfitta della sua leadership. Ma quella di Liberi e Uguali è proprio una sconfitta della sinistra: veniva da una speranza delusa, ma pur sempre promettente come quella del Brancaccio; godeva del lascito di conoscenze proveniente da sinistre già sperimentate; aveva un gruppo promotore e dirigente di leaders di prestigio e di antica militanza, oltre che di giovani e di donne portatori di freschezza e novità, aveva una proposta politica dirimente come quella della creazione di nuovo lavoro, di “lavoro vero e buono”: eppure ha fallito. E se questa sconfitta si mette insieme alla costante che da un pό di tempo si è stabilita in Europa della sconfitta di tutte le sue sinistre, dalla socialdemocrazia tedesca al Labour inglese ai socialisti francesi, agli spagnoli ecc. si vede che qui c’è un problema nuovo: la sinistra non vince perché non può vincere, non può vincere più. E a quanto pare nemmeno in America o in India. Gli analisti pronti all’uso dicono che la sinistra perde perché non ha saputo adeguarsi alla nuova realtà della globalizzazione. È verissimo, ma non ha saputo farlo perché la globalizzazione non è una nuova condizione di natura, come pretende il pensiero unico, ma è il frutto di una scelta economica e politica, che ha vinto e ha chiuso il gioco, gettando la sinistra fuori dal campo. Si tratta cioè di un ordinamento artificiale, fatto da mano d’uomo, che semplicemente non prevede alternative al regime unico del neoliberismo e della finanza globale. I regimi costituzionali, come quello italiano, escludevano per legge il fascismo ma ammettevano che si potesse lottare politicamente per una scelta liberale o socialista, e pertanto le sinistre erano legittimate e potevano perfino vincere. Il regime vigente esclude per legge il socialismo e perfino il new deal; ovvero esclude politiche pubbliche o “aiuti di Stato” che intervengano nel mercato privatistico, e ne correggano gli esiti anche perversi. Queste leggi, spesso implicite, della globalizzazione, in Europa hanno trovato la loro traduzione in diritto positivo nei Trattati dell’Unione Europea, che è poi il mercato unico europeo. Qui, se la sovranità viene attribuita alla Mano invisibile del Mercato, è chiaro che si tratta di una sovranità assoluta, perché ciò che è invisibile non si può controllare o correggere, e tutte le cose che sono scritte in secoli di dottrine sociali o di dichiarazioni universali di diritti o di Costituzioni democratiche (i fini sociali dell’economia, la rimozione degli ostacoli allo sviluppo delle persone, i diritti universali, la tutela della vita e della dignità degli esseri umani) non si possono fare perché dal nuovo diritto europeo e globale sono considerate “infrazioni”. Perciò chi dice qualunquisticamente che non c’è più né destra né sinistra, dice il vero ma a metà, perché la destra c’è ed è l’unica ammessa. Sicché se la sinistra continua a pensare che il problema principale è come salvare se stessa e durare, e non quello di cambiare le cose, non può che essere anch’essa di destra.
La conclusione, che ci porta oltre il 4 marzo, è che sarebbe reazionario e regressivo postulare uscite grintose dalla globalizzazione, dall’Europa o dall’euro. Il compito dell’ora è però quello di rimettere in discussione le forme e le leggi della globalizzazione (in gran parte prodotte dalle stesse “sinistre”), e in concreto cercare di mettere in piedi una grande alleanza di opinioni e di forze democratiche europee per una revisione dei Trattati europei, per ridare legittimità al pluralismo delle politiche economiche e sociali e al ruolo della sfera pubblica nell’orientamento e nel sollevamento dell’economia reale: che vuol dire persone, famiglie, destini.
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* Raniero La Valle sulla sua pagina fb

One Response to Elezioni

  1. […] Un voto su cicatrici e ferite della crisi di Roberta Carlini, su Rocca 6/2018, ripreso da Aladinews. […]

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