Oltre il 4 marzo. Alchimie di grandi intese.
di Roberta Carlini, su Rocca*
Può succedere di tutto, ma può anche non succedere niente. A pochi giorni dal voto del 4 marzo, i sondaggi e le previsioni degli osservatori più attenti concordano nel prevedere un risultato incerto, che potrebbe consegnare il Paese a una nuova fase di transizione, con un parlamento diviso in tre blocchi e incapace di garantire la maggioranza a nessuno degli schieramenti in campo.
È vero che i sondaggi spesso sono fallaci, e gli stessi istituti di ricerca più autorevoli invitano alla prudenza: basti pensare che, rispetto a soli dieci-quindici anni fa, sono molti meno gli interpellati che rispondono alle domande telefoniche sulle intenzioni di voto; che a volte queste ricerche sono fatte solo usando i telefoni fissi; che dunque l’attendibilità del campione così selezionato è minore che in passato; e che le regole spesso irrazionali della nuova legge elettorale rendono molto difficile prevedere cosa succederà in ogni singolo collegio.
Però è anche vero che sulle grandi tendenze e i grandi numeri c’è una certa concordia, tra tutti gli istituti demoscopici: l’unico schieramento in grado di ambire alla conquista della maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato è quello di centro-destra. Se questo non succederà – e potrebbe non succedere, tutto dipende dall’esito della parte uninominale della votazione – il prossimo parlamento sarà diviso in tre spicchi, come il precedente. Con la sola differenza che la fetta dei Cinque stelle, nonostante le deludenti prove di governo delle città date nel frattempo, la «separazione» di Grillo e gli infortuni della campagna elettorale, potrebbe essere più grande che nell’ultima legislatura. Ma, a meno di clamorose sorprese e dunque la conquista da parte dei pentastellati del premio di maggioranza, i seggi non basteranno al candidato Di Maio per formare un governo autosufficiente; e poiché il suo movimento ha fatto dell’autosufficienza e del rifiuto delle alleanze con altri il suo marchio distintivo, i Cinque Stelle potrebbero allo stesso tempo essere il primo partito eppure non esprimere il nuovo governo.
la cabala delle probabilità
E allora? Si lavora già sulle formule, entrando persino nei dettagli delle varie possibilità, che ruotano tutte attorno alle «larghe intese». Cioè un’alleanza tra la maggioranza che sostiene il governo uscente (il centrosinistra, ossia il Pd più gli alleati della lista di Emma Bonino più il piccolo cespuglio centrista) e Forza Italia (il partito del Caimano essendo considerato la parte «moderata» del centrodestra, da staccare dagli estremi, Lega e Fratelli d’Italia, in nome della responsabilità nazionale).
Va detto che questa possibilità è ventilata anche in un altro caso, ossia quello in cui un centrodestra vincente non riuscisse a mettersi d’accordo su governo e programma, data la incompatibilità di molte delle posizioni al suo interno, dall’Europa alla legge Fornero, dal federalismo fiscale ai nuovi condoni; preoccupazione molto fondata su dati di fatto, ma che trascura quel formidabile collante che è il potere, capace di far convivere, con adeguata spartizione del bottino, anche istanze tra loro lontane.
ma con quali programmi?
Quel che colpisce però è che, anche tra i tanti che approfondiscono le alchimie delle larghe intese, sia totalmente negletto il merito, ossia il contenuto dell’azione di un futuro governo di questo tipo. Si parla di composizione, di leader (Gentiloni? Minniti? Un forzista?), di durata, di equilibri interni; ma mai del programma.
Qualche settimana fa, al termine di una trattativa durata mesi, il partito socialdemocratico tedesco e la Cdu-Csu hanno presentato le loro «larghe intese»: la Grosse Koalition, contestatissima dalla base della Spd, potrebbe anche non vedere mai la luce, visto che deve essere sottoposta a referendum in quel partito – i cui risultati, coincidenza curiosa, si conosceranno nella stessa sera nella quale arriveranno quelli del voto italiano. Ma se nascerà, la Grande coalizione tedesca avrà il programma già pronto: scritto nelle settimane del negoziato, lungo ben ventotto pagine, con capitoli, dettagli e numeri. Quale programma potrebbe avere la grande coalizione italiana?
Abbiamo provato a fare un esercizio, sfogliando le paginette che i vari partiti hanno consegnato al Viminale e le slide che usano nella propaganda elettorale, e cercando possibili punti di incontro, limitandoci ai contenuti di politica economica. Impresa complicata, in primo luogo a causa della genericità dei programmi. Come ha notato l’Istituto Cattaneo in uno studio su tutti i partiti, le affermazioni generali, che non contengono proposte specifiche di singole politiche, sono prevalenti un po’ ovunque. Per il Pd sono «generali» il 76,4% degli enunciati del programma; per Forza Italia il 70,4%. È del tutto prevedibile altrettanta genericità anche in un «programma delle larghe intese» (far uscire il Paese dalla crisi, rilanciare l’occupazione, aiutare i più deboli, cose così). Ma immaginando di essere in Germania e pretendendo impegni più precisi, cosa mai potrebbero scrivere sullo stesso foglio gli sherpa del Pd e quelli del partito di Berlusconi?
l’Europa
Al primo posto potrebbe esserci l’Europa. Un governo così nascerebbe anche (forse soprattutto) per rassicurare Bruxelles, le cancellerie europee e i mercati del fatto che l’Italia resta dov’è, che i temutissimi populisti non entreranno nelle stanze del potere, che Roma resterà un interlocutore della Commissione europea e della Bce. Ma, al contrario che negli ultimi venti-trent’anni, questa adesione di per sé non fa un programma. Ricordiamo che nel recente passato l’Italia ha già avuto due governi di grande coalizione; il primo fu quello di Mario Monti e la sua agenda fu dettata dalla necessità di uscire dalla crisi del debito sovrano, quella che aveva portato lo spread dei nostri titoli pubblici alle stelle: di fatto, la sua prima manovra economica d’urgenza fu dettata dall’eurogruppo. Il secondo fu quello di Enrico Letta, la larga alleanza durò poco perché il voto del Senato sull’espulsione di Berlusconi dopo la condanna per corruzione portò alla fuoriuscita dalla maggioranza di Forza Italia, ma per un po’ ci fu e anche in questo caso l’agenda della politica economica fu in sintonia con i desiderata della Commissione Ue. Stavolta le cose sono diverse.
È vero che abbiamo avuto diverse tirate d’orecchie sui conti pubblici, e che in primavera potrebbe arrivare la richiesta di una manovra correttiva. Ma è anche vero che – per ora – non c’è una emergenza sui mercati; che le istituzioni europee si sono fatte da un po’ più flessibili, anche senza ammetterlo esplicitamente; e che uno dei contenuti della Grande Coalizione tedesca ha a che vedere proprio con il processo di riforma dell’Unione. Questo non vuol dire che avremo un’Europa benigna, progressista e in grado di tirarci generosamente fuori dalle secche. Ma che non siamo più al 2011-2012, a programmi politici di fatto determinati dall’esterno e nei quali la politica interna poteva solo immettere dettagli di bricolage: anche perché – e questo è un punto in comune – sia il Pd renziano che il sedicente moderatismo del nuovo Berlusconi chiedono una revisione dell’austerity europea. Che poi riescano a ottenerla, è tutto da dimostrare. Ma scriverlo in un programma non costa niente…
tasse e fisco
Il problema è che poi quel programma dovrebbe essere credibile anche sugli altri punti, sulle riforme interne. E qui le proposte divergono. Il cavallo di battaglia di Forza Italia è la flat tax (della quale abbiamo parlato nel numero precedente di Rocca): un’aliquota unica al 23 per cento e una «no tax area» a 12.000 euro annui (vale a dire, non si pagano tasse sotto quella cifra).
La proposta del Pd invece non tocca le aliquote, ma vede una revisione totale degli assegni familiari: sostanzialmente, è un alleggerimento fiscale e un trasferimento alle famiglie con redditi medio-bassi con figli. La proposta di Forza Italia costa moltissimo (sui 50-60 miliardi) e premia tutti, ma soprattutto i più ricchi; quello del Pd costa un po’ meno (attorno ai 10 miliardi) e premia i più poveri. Nella proposta di Forza Italia, spariscono gli 80 euro varati a suo tempo da Renzi; in quella del Pd ovviamente restano. Restando in tema fiscale, ancor più rilevante è il moloch del solito condono che i forzitalioti fanno intravedere («ristabilire la pace fiscale», è il nome in codice), al quale il Pd si dice contrario. Come tenere insieme programmi che, per quanto ancora vaghi, sono tuttavia così distanti?
lavoro e welfare
Passando al capitolo lavoro, il Pd continua a puntare tutto, come ha fatto già quando era al governo, sugli sgravi contributivi per le assunzioni a tempo indeterminato; il programma di Forza Italia non li prevede, mentre punta, per sollevare l’occupazione, sull’effetto a cascata delle riduzioni delle imposte, sull’alleggerimento dei vincoli alle imprese, anche in tema di costruzioni e certificazioni. Uno dei temi nuovi, introdotto dal partito di Renzi nel suo programma, è l’introduzione di un salario minimo legale, molto inviso ai sindacati (che vedono così perdere il ruolo e la forza della contrattazione collettiva), ma che forse potrebbe trovare ascolto dalle parti di Forza Italia.
Tema prevalente, nei programmi di tutti, è il welfare. Anche qui, con posizioni inconciliabili, come quella sulla legge Fornero che Forza Italia, sia pure con toni meno forti della Lega, dice di voler abolire. La stessa Forza Italia promette di portare a 1000 euro le pensioni minime, mentre nel piano del Pd si guarda più alle pensioni basse del futuro, introducendo un nuovo meccanismo per tutti coloro che, facendo lavori precari e poco pagati, potrebbero trovarsi a fine carriera con un assegno da fame. Tutti e due i partiti propongono di allargare la platea degli attuali beneficiari del reddito di inclusione e aumentare le risorse destinate alla lotta alla povertà. In questo campo, forse è più semplice trovare la quadra, distribuendo un po’ di soldi qua e là, a seconda di quel che si trova nel bilancio.
rischio di un governo senza identità e missione
E il punto è proprio questo: essendo gli annunci elettorali irrealizzabili – soprattutto quello di Forza Italia, che aprirebbe una voragine nel gettito fiscale – il minimo comun denominatore potrebbe essere alla fine trovato facendo i conti con quel che c’è, e addossando alla necessità della grande coalizione la colpa del mancato rispetto delle promesse (che invece non sarebbero stati rispettate comunque, essendo iperboliche). Ma resta il fatto che tutto ciò non darebbe una identità né una missione al nuovo eventuale governo di grande coalizione. A meno che la missione unica per il governo non sia, appunto, quella di esistere, e per i partiti quella di starci dentro, amministrando posizioni di potere, in attesa che succeda qualcosa di nuovo. Ma questo «qualcosa» potrebbe, ancora una volta, beneficiare chi sta all’opposizione e vive – e cresce – di questo.
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