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Reddito di cittadinanza: quale finanziamento?
di Gianfranco Sabattini
Il problema del finanziamento del “Reddito di Cittadinanza” (“RdC”) è una delle questioni da sempre oggetto di discussione, anche all’interno della linea del pensiero economico che ha elaborato il modello di stato sociale alternativo a quello fondato sul welfare, adottato nel 1945.
Per amore della memoria storica, vale la pena ricordare che l’espressione Reddito di Cittadinanza è “nata” nel 1986, a seguito della First International Conference on Basic Income, tenutasi per iniziativa del Basic Income European Network (BIEN), costituito l’anno precedente. La conferenza, svoltasi presso l’Università cattolica di Lovanio, ha inaugurato la prima fase di riflessione sul Reddito di Cittadinanza, ma è servita anche a legittimare l’inquadramento del problema della sua traduzione in termini di politica sociale nell’ambito dell’analisi economica.
La letteratura sull’argomento evidenzia che, nell’anno in cui si è svolta la conferenza, molti economisti inglesi erano ancora propensi ad usare, in luogo dell’espressione Reddito di Cittadinanza, quella di Dividendo Sociale, introdotta dall’economista James Edward Meade, che per primo aveva formulato un modello organizzativo dello stato di sicurezza sociale alternativo al welfare.
Alla fine della conferenza del 1986, i suggerimenti per stabilire definitivamente il nome del BIEN è stato, tra i molti avanzati, quello che, in considerazione della natura bilingue del Paese che ospitava la conferenza, proponeva di associare all’acronimo “BIEN” (che in lingua francese significa anche “bene”) la sua traduzione fiammingo-olandese in “GOED”, che oltre a significare ugualmente “bene”, corrispondente all’espressione inglese “Great Order for European Dividend”. Trovato l’accordo sul nome del BIEN, tutti hanno convenuto di denominare “RdC” lo strumento di politica economica attraverso il quale realizzare un sistema di sicurezza sociale alternativo a quello universalmente adottato.
I partecipanti alla conferenza di Lovanio, riprendendo la proposta di James Meade, formulata nel 1948 in “Planning and the Price Mechanism”, hanno messo in risalto i limiti dello stato di sicurezza sociale d’ispirazione keynesiana, imputandoli al fatto che il principio della sovranità popolare, che avrebbe dovuto rappresentare il contrappeso alla arbitrarietà degli automatismi politici nella distribuzione fiscale del costo della sicurezza sociale, fosse stato distorto dalla logica di funzionamento del welfare State, sotto molti punti di vista: mancata estensione della sicurezza sociale a tutti indistintamente, insorgenza di continue emergenze come conseguenza della dinamica del sistema economico, incapacità di contribuire alla stabilizzazione dei livelli occupazionali, ed altri ancora.
Inoltre, i lavori della conferenza sono valsi a sottolineare, come l’esperienza in molti Paesi consentisse di evidenziare che, quando la gestione del welfare State è lasciato all’azione discrezionale della politica, in assenza di un qualche automatismo autoregolatore, è resa possibile una tale manipolazione dei flussi di reddito da originare un crescente indebitamento del settore pubblico, a danno di tutti i cittadini. Infine, la conclusione della conferenza rilevava che la logica di funzionamento dei moderni sistemi produttivi capitalistici non era più in grado di “creare” posti di lavoro, come nel passato; né essa consentiva di “conservare” i livelli occupazionali acquisiti, producendo crescenti livelli di disoccupazione strutturale irreversibile. Per contrastare qust’ultima, i partecipanti alla conferenza hanno prospettato la necessità di creare, all’interno dei sistemi sociali, condizioni tali da consentire, oltre che il sostentamento del nuovo “esercito di forza-lavoro di riserva senza lavoro”, anche l’”autoproduzione”; ciò che poteva ottenersi attraverso l’erogazione di un “RdC” che, secondo la proposta di Meade, doveva essere corrisposto in moneta, sotto forma di Dividendo Sociale, ad ogni singolo cittadino (uomo, donna o bambino), da utilizzare anche come fonte alternativa di nuove opportunità di lavoro.
Nell’approfondimento delle modalità attraverso cui arrivare all’introduzione di un “RdC”, gli aderenti al BIEN si sono anche orientati ad accogliere i suggerimenti di Meade riguardo al finanziamento della nuova forma di reddito, attraverso due vie: una prevedeva il ricupero delle risorse impegnate nel funzionamento del sistema di sicurezza sociale fondato sul welfare State; l’altra via era fondata sulle rimunerazioni derivanti dalla vendita sul mercato dei servizi di tutti i fattori produttivi di proprietà collettiva (non pubblica), i cui proventi avrebbero alimentato un “Fondo Capitale Nazionale”, dal quale trarre le risorse per l’erogazione del Dividendo Sociale a tutti i cittadini.
La seconda forma di finanziamento proposta da Meade è stata oggetto di approfondimento e perfezionamento da parte di un suo allievo, Edwin Morley-Fletcher (per molti anni presente come docente in alcune Università italiane, ricoprendo, negli anni Ottanta, anche il ruolo di capo dello staff della presidenza della Lega nazionale delle cooperative e mutue). Morley-Fletcher ha proposto un modello di finanziamento del “RdC” basato sulla costituzione di un “Fondo Capitale” dal quale trarre le necessarie risorse finanziarie; ciò, al fine di evitare, per questa via, il problema della discrezionalità politica nel decidere la quota del reddito nazionale corrente da destinare a finalità ridistributive. Secondo Morley-Fletcher, il “Fondo” poteva essere alimentato dai surplus della bilancia internazionale dei pagamenti dei singoli Paesi, oppure attraverso un’imposta sui grandi patrimoni.
Sulla base di questa proposta, sarebbe stato possibile assegnare a ciascun cittadino, “dalla culla alla bara”, uno stock nominale di capitale, sufficiente a garantirgli l’erogazione di un Dividendo Sociale pari al “RdC”, proposta da realizzare in una prospettiva temporale adeguata, al fine di consentire la costituzione del “Fondo Capitale” necessario perché l’attuale welfare State potesse essere sostituito completamente. Naturalmente, al “punto omega” di ciascun soggetto, lo stock di capitale nominale assegnatogli alla nascita non sarebbe passato ai suoi eredi, ma sarebbe stato avocato dal “Gestore del Fondo Capitale”, per essere assegnato ad un nuovo soggetto o, nel caso di una dinamica demografica stabile, per essere ridistribuito a vantaggio di tutti i superstiti, od ancora per essere utilizzato con altre finalità sociali.
In Paesi come l’Italia, le condizioni economiche attuali (e quelle di un prevedibile futuro sufficientemente lontano) non consentirebbero la costituzione del “Fondo Capitale” per il finanziamento del Reddito di cittadinanza (RdC): innanzitutto, per gli “ostacoli politici” che impedirebbero l”assorbimento” dei surplus della bilancia dei pagamenti di parte corrente; ma anche per le difficoltà cui andrebbe incontro la soppressione di molte voci di spesa necessarie per il finanziamento del sistema di sicurezza sociale esistente, o per quelle che impedirebbero di poter disporre delle risorse provenienti da una possibile imposta patrimoniale. Per tutti questi motivi, più “percorribile” potrebbe essere l’inserimento del problema del finanziamento del “Fondo Capitale” nella prospettiva delle finalità del cosiddetto “movimento benecomunista”, ovvero di quel movimento che si prefigge di riordinare i diritti di proprietà all’interno dei moderni sistemi industriali, al fine di sottrarre al mercato tutti quei beni di proprietà pubblica destinabili alla soddisfazione dei bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani; ciò però non potrebbe prescindere da una profonda revisione dei diritti di proprietà, per trasformare la proprietà pubblica di beni non esitabili sul mercato in proprietà comune o collettiva.
Il riordino dei diritti di proprietà può trovare la sua logica giustificazione, considerando che da sempre a loro fondamento è stato posto il lavoro, inteso come condizione perché chi ne fosse titolare potesse godere e disporre, in modo pieno ed esclusivo, entro certi limiti, dei beni acquisiti con le proprie capacità lavorative. Tale condizione è sempre stata ricondotta all’ esistenza di un ordine naturale; poiché, però, fin dall’epoca della rivoluzione agricola (8-12 mila anni or sono) nessun individuo ha mai “lavorato” in una condizione di isolamento, così da produrre beni utili con il suo solo lavoro indipendente, ma ha potuto produrli nella misura desiderata solo all’interno della comunità, attraverso la cooperazione dei soggetti che di essa facevano parte, la “dimensione sociale” della loro produzione costituisce motivo sufficiente a “fare premio” sull’esistenza di ogni presunto ordine naturale e, quindi, a giustificare l’introduzione di limiti al loro godimento esclusivo.
Gli stravolgimenti verificatisi nell’età moderna, soprattutto quelli imputabili alla rivoluzione industriale, i cui effetti sono stati inaspriti dalle ricorrenti crisi sociali ed economiche, giustificano l’impegno di quanti sono interessati ora a migliorare la definizione dei diritti di proprietà; l’impegno, però, dovrebbe essere orientato con particolare riferimento a tutto ciò che è esprimibile in termini di risorse “regalate dal cielo”. Solo su questa base si potrebbe costruire una teoria dei diritti di proprietà che ponga rimedio a tutte le conseguenze negative originate da una loro “cattiva definizione”; è questa la condizione che dovrebbe essere soddisfatta allo scopo di migliorare la definizione delle modalità con cui le popolazioni possono relazionarsi ai beni dei quali dispongono, senza trascurare, come ricorrentemente avviene, le forme di una loro razionale gestione. Così diverrebbe plausibile pensare alla costituzione di un “patrimonio/capitale collettivo”, dal quale trarre, con la vendita dei servizi ai prezzi di mercato, i proventi da fare affluire al “Fondo Capitale” proposto da Morley-Fletcher.
Pertanto, l’introduzione del “RdC”, non potrà essere disgiunta da un riordino dei diritti di proprietà, nelle diverse forme in cui questa si manifesta (comune o collettiva, pubblica e privata) che dovranno rappresentare un “continuum di regimi proprietari”, definiti tenendo conto della realizzabilità del sistema di sicurezza sociale fondato sul “RdC”.
In Italia, a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, all’insegna del “terribile diritto” della proprietà privata e del misconoscimento di alcuni dettati costituzionali che ne salvaguardavano la funzione sociale, è stata realizzata la distruzione dell’”economia mista” e la privatizzazione di buona parte del patrimonio pubblico; processo, questo, che continua ad essere alimentato, da parte delle maggioranze politiche che si susseguono al governo del Paese, unicamente per “ragioni di cassa”.
Il movimento benecomunista considera giustamente i beni comuni oggetto di diritti universali, la cui definizione e fruizione non possono essere “appiattite” su quelle connesse alle argomentazioni della prevalente teoria giuridico-economica. Per dirla con le parole di Stefano Rodotà, il giurista che è stato tra i primi ad introdurre la questione dei beni comuni in Italia, “se la categoria dei beni comuni rimane nebulosa, e in essa si include tutto e il contrario di tutto, […] allora può ben accadere che si perda la capacità di individuare proprio le situazioni nelle quali la qualità ‘comune’ di un bene può sprigionare tutta la sua forza” (S.Rodotà, Il valore dei beni comuni, Fondazione Teatro Valle Bene Comune, 2012), in funzione della soddisfazione dei diritti universali corrispondenti ai bisogni esistenziali incomprimibili degli esseri umani. Può dirsi che il diritto a un reddito incondizionato, qual è il “RdC”, non possa rientrare nel novero di tali diritti?
Per evitare lo smarrimento della loro preminente qualità, i beni comuni devono essere sottratti al mercato e salvaguardati giuridicamente, garantendo a tutti la fruibilità dei servizi che essi, direttamente o indirettamente, possono rendere. Ma come? Rodotà manca di dirlo, mentre è ineludibile, considerata la loro natura di risorse scarse, la necessità che siano stabilite le procedure finalizzate a governarne la conservazione e la gestione; ciò, al fine di evitare che la sola definizione dal lato del consumo esponga i beni comuni al rischio di un loro possibile spreco. Tra l’altro, oltre che pervenire a una precisa definizione dello status giuridico dei beni comuni, sarà anche necessario stabilire quali dovranno essere, per quanto riguarda specificamente i beni pubblici, quelli da sottrarre alle leggi di mercato, da gestire attraverso un’”Autorità” pubblica, dotata dei poteri idonei a sottrarla ad ogni condizionamento politico, al pari di quanto avviene, ad esempio, per la massima istituzione bancaria del Paese.
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L’articolo di Gianfranco Sabattini è stato pubblicato in due parti anche da Democraziaoggi: il primo e il tre novembre 2017.
Approfondimenti
- Autore citato. EDWIN MORLEY-FLETCHER, professore di Scienza dell’amministrazione nell’Università “La Sapienza” di Roma, presidente di Lynkeus, coordinatore del Comitato “Mercato Sociale” del Cnel dal 1995 al 2000.
- Welfare e Lavoro su Astrid.
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