Contributi e riflessioni dalla Settimana cattolica per il Lavoro
Intervento di Flavio Felice, membro del Comitato Scientifico
Cagliari, 26 ottobre 2017
Introduzione
Circa l’importanza del nostro convenire qui a Cagliari da laici cattolici, consentitemi di leggere un passo del paragrafo 13 dell’Apostolicam actuositatem, il decreto del Concilio Vaticano II sull’apostolato dei laici: «L’apostolato dell’ambiente sociale, cioè l’impegno nel permeare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità in cui uno vive, è un compito e un obbligo talmente proprio dei laici, che nessun altro può mai debitamente compierlo al loro posto. In questo campo i laici possono esercitare l’apostolato del simile verso il simile. Qui completano la testi- monianza della vita con la testimonianza della parola. Qui nel campo del lavoro, della professione, del- lo studio, dell’abitazione, del tempo libero o delle associazioni sono i più adatti ad aiutare i propri fra- telli». È con l’orgoglio e con la responsabilità del laico che mi appresto, dunque, a introdurre il tema della “denuncia” che fa da sfondo alla Mostra: “Il lavoro che non vogliamo”, i cui contenuti, da qui a pochi minuti, il prof. Mario Mezzanzanica andrà ad illustrarci.
“Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo, solidale”, è questo, dunque, il titolo della 48° edizione delle Settimane Sociali dei Cattolici Italiani, parafrasando un passo del paragrafo 192 dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium di Papa Francesco.
In questa luce, dunque, nell’orizzonte pastorale della Dottrina sociale della Chiesa, abbiamo ri- tenuto utile articolare i quattro giorni di lavoro che ci attendono secondo i registri della denuncia, della narrazione, delle buone pratiche e delle proposte. In breve, tenterò di esprimere una rappresentazione della “denuncia” che non appaia una stanca “lamentazione” ovvero una retorica “rivendicazione corpo- rativa”. Non che la “lamentazione” e la “rivendicazione” non abbiano una ragion d’essere nell’attuale situazione civile del Paese; dove per civile intendo culturale, politica ed economica. Vorremmo tutta- via sottrarci dal registro della lamentazione e della mera rivendicazione – e speriamo di riuscirci – per- ché riteniamo, per il bene del Paese, di poterci giocare meglio le opportunità che questa occasione ci offre: incontri, dibattiti, tavoli di lavoro che ci auguriamo vedano voi protagonisti: il mondo delle as- sociazioni, del volontariato, della chiesa diffusa capillarmente sul territorio, per discutere le problema- tiche del lavoro con chi il lavoro lo crea: gli imprenditori, e avanzare proposte alle figure istituzionali alle quali spetta il compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono all’impresa di svolgere il proprio compito e così contribuire, per quanto le compete, al bene comune.
Dal nostro punto di vista, la “denuncia”, quando non scade nel lamento, assume i caratteri della “situazione problematica” che attende di essere risolta. Tutti sappiamo che la conoscenza procede per
“tentativi ed errori”: si inciampa in un problema, si inferiscono ipotesi per la sua soluzione e si confu- tano quelle non adatte, in un processo che non avrà mai fine; è questo il metodo del “bene comune” in un mondo popolato da esseri imperfetti, ma perfettibili e dove nessuna istituzione può avanzare la pre- tesa di detenere il monopolio sul bene comune. Nel nostro caso, la situazione problematica che delinea i contorni della “denuncia” è data dalla “criticità del mondo lavoro”, declinabile, a nostro parere, nei sei punti che rappresentano i sei capitoli della mostra: snodi critici, frutto di un’analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro. In particolare, tali snodi sono: 1. I giovani e il lavoro; 2. Il precariato; 3. Lavoro e caporalato; 4. Il lavoro femminile; 5. Lavoro e formazione; 6. Lavoro e ambiente. Dal momento che il prof. Mezzanzanica interverrà sui contenuti specifici della mostra, vorrei soffermarmi brevemente sulla “situazione problematica” come atto di “denuncia” dal quale sperare che nel prosieguo delle giornate possa discendere una cascata di ipotesi che, con metodo critico: “problema, congettura, confutazione”, ci aiuti a formulare le proposte.
Le trasformazioni strutturali del mondo del lavoro
In primo luogo, credo convenga registrare che la “denuncia” delle criticità del mondo del lavoro scaturisce dalle preoccupazioni per le trasformazioni del mercato del lavoro che, nelle ultime due set- timane, si sono affacciate anche nel panorama degli organismi finanziari internazionali. È forse solo una coincidenza, ma a pochi giorni di distanza, sia il Fondo Monetario Internazionale sia la britannica Social Mobility Commission si sono focalizzati in larga misura sulla fine di quella che sembrava una connessione indiscussa: la relazione diretta tra aumento della produttività e aumento dei salari. In al- tre parole, il lavoro beneficerebbe oggi sempre meno della complessiva crescita della produttività e del reddito nei paesi industrializzati, mostrando invece una costante precarizzazione. Tali cambiamenti possono diventare a tal punto strutturali che prevediamo giovani sempre più sprovvisti di un contenuto semantico certo da attribuire alla parola “lavoro”.
A questo punto, il momento della “denuncia critica” può focalizzarsi su questioni solo apparen- temente extra-economici, ma che in realtà fanno da sfondo al problema economico, come evidenziato anche dal neo premio Nobel per l’economia Richard H. Thaler. È possibile affermare che le ragioni con cui le persone agiscono fanno la differenza rispetto al funzionamento dell’istituzione chiamata mercato. Dai comportamenti economici non si possono espellere i fattori extra economici, tralasciando i quali, come ricorda Benedetto XVI nella Caritas in veritate, non solo le analisi, ma anche le soluzio- ni, perdono di consistenza. La tesi che sosteniamo e che presentiamo come “denuncia” è che per modi- ficare il sistema, bisognerebbe in primis educare gli agenti che sono “persone-agenti” e non automi- agenti, elementi di un gregge che attende un “pastore” che lo governi e lo conduca come un corpo omogeneo e una massa indistinta di individui ridotti alla stregua di pecore. Il soggetto dell’agire civile è la persona creata a immagine e somiglianza del Creatore, dunque chiamato a vivere in modo libero e
responsabile, di qui la sua dignità che si esplica nel partecipare all’opera creatrice del Padre; una parte- cipazione che vede nel lavoro un aspetto fondamentale.
Il fattore motivazionale: le buone ragioni dell’agire personale, spiega ad esempio alcuni mismat- ches – disequilibri – sul mercato lavorativo italiano: la domanda di lavoro delle imprese in certi settori è largamente insoddisfatta a causa della carenza di figure professionali non solo sufficientemente spe- cializzate, ma anche adeguatamente motivate a compiere quel tipo di lavoro. D’altro canto, persone estremamente formate che emigrano, a volte, si mescolano ad un’ampia quota di giovani che hanno in- corporato un profilo di preferenze lavorative squilibrato rispetto alla domanda (ad esempio gli aspiranti al test di ingresso 2017 per la facoltà di medicina erano sette volte tanto i posti disponibili). In entram- bi i casi il modello educativo complessivo, non solo quello economico, fallisce, perché i giovani non trovano riscontro per le loro aspirazioni e le risorse migliori di ciascuno non vengono rimesse in circo- lazione sul territorio nazionale. Si tratta di una perdita netta in termini civili, ossia culturali, politici ed economici.
I giovani classificati come NEET (Not in Education, Employment or Training), sono due volte vittime: una prima volta, vittime dell’incapacità individuale a collocarsi in relazioni (umane ed econo- miche) troppo fluide e perciò challenging (onerose emotivamente prima che materialmente); e una se- conda volta, vittime dell’incapacità delle istituzioni a coordinare le scelte degli attori economici, in modo che il mercato non diventi il luogo di sfruttamento delle debolezze, bensì occasione per mettere in gioco i talenti e creare “il lavoro che davvero vogliamo”.
In tal senso, nell’ordine della sussidiarietà, associazioni e corpi intermedi sono chiamati ad un lavoro educativo per ogni soggetto economico (lavoratori, imprenditori, professionisti) che vada oltre le skills professionali e che nessuna politica economica o regola giuridica possono dare: educare le persone a vivere il commercium come un processo in virtù del quale offrire il meglio di sé al partner economico. Fuori da questo prerequisito culturale il mercato in generale, e il mercato del lavoro in par- ticolare, non potrà offrire che quello che ha, arrestando i processi d’inclusione sociale e impedendo l’esercizio della sovranità, essendo evaporata quella dimensione fondamentale dell’identità umana che si chiama lavoro.
Lavoro come via dello sviluppo integrale
In secondo luogo, come indirizzare la nostra “denuncia” rispetto ad una qualità del lavoro che ri- teniamo non degna della trascendente dignità della persona umana, senza perdere di vista il monito di qualche giorno fa del Card Bagnasco: “non è il lavoro a dar valore all’uomo, ma l’uomo a dar valore al lavoro”? A tal proposito, constatiamo che siamo davanti ad una grande questione sociale che interessa questo Paese e le giovani generazioni in particolare. Per alcuni questa si risolve nelle grandi trasforma- zioni tecnologiche e sul modo in cui esse cambieranno inesorabilmente le nostre vite. Da qui il dibatti-

to che ferve intorno a quel fascio di politiche dall’alto e innovazioni dal basso che convenzionalmente chiamiamo Industria 4.0.
Altri ritengono invece che basti parlare di etica e di bene comune perché i processi economici possano come per magia essere giustificati e giustificabili da un qualcosa che loro chiamano fede, ma che non è diversa dall’ennesima ideologia, se non più sbiadita. Non è e non può essere questa la strada delle Settimane Sociali. Iniziative come questa Mostra indicano proprio la peculiarità del nostro ap- proccio: istantanee su snodi critici, frutto di un’analisi delle trasformazioni del mondo del lavoro e una sua visione integrale del destino dell’uomo e della donna lavoratori, non una visione integralista dell’economia o della politica.
A questo proposito, val la pena di sottolineare come il lavoro non sia una mera opportunità da of- frire o da cogliere o una meta da raggiungere, magari con gli strumenti dell’assistenzialismo statale. Il lavoro è la vocazione altissima della donna e dell’uomo, e dunque la sua dignità non è men che la di- gnità dell’essere umano nel suo intero, ecco perché non vorremmo ridurre la Settimana Sociale a ca- hiers de doléances, un elenco di lamentazioni e di rivendicazioni, per quanto legittime ed urgenti, che tuttavia potremmo avanzare sempre ed ovunque. Speriamo invece di fare di questi quattro giorni un la- boratorio critico per il bene comune del Paese, avendo come cifra ideale la trascendente dignità della persona umana. Prendersi cura del lavoro è dunque servire lo sviluppo umano integrale, qualcosa che è dovuto da noi ai nostri simili, e viceversa (“sussidiarietà orizzontale”); qualcosa che è un diritto per me e per gli altri, nella misura in cui tutti diventiamo coscienti della nostra e altrui dignità dei figli di Dio, nella sequela di Cristo.
È un compito molto articolato quello che attende noi tutti che partecipiamo alla Settimana Socia- le: “denunciare” significa dare voce ad una cultura della vita umana in cui il lavoro non sia appendice di una esistenza ai margini, ma fattore di inclusione progressiva di ogni singolo attore nella propria comunità di riferimento, locale o globale che sia. Per questa ragione, è vero che il momento della “de- nuncia”, della riflessione sulla giustizia sociale e sulle sue rivendicazioni, può certo servire a mettere a fuoco il problema, ma non è sufficiente a risolverlo. Il passo in più che è necessario ai nostri giorni è la riscoperta dell’impegno personale, del quotidiano esercizio della sovranità che ci spetta in quanto cit- tadini, al di fuori di qualunque lobby o corporazione, perché il prossimo, concittadino o straniero che sia, possa condividere l’appassionante avventura di trasformare la sua porzione di mondo con l’impegno, anche con la fatica, del lavoro delle sue mani.
Per questo motivo, la riflessione sui principi della Dottrina sociale della Chiesa, allorché appro- fondisce il momento della “denuncia” dei gravi squilibri che attanagliano il mondo del lavoro, non si attarda in una lamentazione ideologica sulle strutture o sull’ambiente sociale, ma – direi sturzianamen- te e wojtylianamente – guarda alle persone e alle loro relazioni nella società complessa, e a volte di- sperata, del nostro tempo.

Conclusioni
In conclusione, direi che le criticità del lavoro impresse nelle immagine e nei dati della Mostra: “Il lavoro che non vogliamo”, rappresentano una delle cause dell’esclusione delle persone dalle reti di produttività e di scambio. Esse, da un lato, ledono la dignità umana e, dall’altro, creano occasioni di sfruttamento delle persone ed impediscono un autentico sviluppo umano, con grave danno per la ric- chezza della nazione.
A questo punto, ribalterei il titolo generale della Settimana Sociale e direi che “Il lavoro che non vogliamo è il lavoro servile, sterile, alienante e conflittuale. Sul piano della “denuncia critica” ciò si- gnifica innanzitutto denunciare per erodere le fondamenta della “società servile”, uno spettro che non si dissolverà mai definitivamente e, per l’appunto, nei confronti del quale non dovremmo mai abbassa- re la guardia; una specie di “neofeudalesimo” che garantisce sempre nuove rendite di posizione, attra- verso lo sfruttamento della maggioranza da parte di oligarchie sempre più agguerrite e rapaci.
A questo punto, tornano alle mente le parole del giurista cattolico francese Etienne de La Boétie che nel 1549 scriveva, appena diciannovenne, il Discorso sulla servitù volontaria, con le quali conclu- do, individuando proprio nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale una leva di emancipazione civile dalla condizione di “servi”, per il corretto esercizio del gioco democratico: “il discorso critico su un problema comune”, come appunto recita l’artico 1 della nostra carta costituzionale: «Vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte, sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato. Da dove ha puto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? Siate dunque decisi a non servire più e sarete liberi!»1.
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1 Etienne de La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria; in G. Sharp, Politica dell’azione nonviolenta – Potere e Lotta, Edizioni Gruppo Abele, Torino, 1985, pp. 28-29.
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Intervento di Mario Mezzanzanica, Fondazione Sussidiarietà
Cagliari, 26 ottobre 2017
Le criticità del mondo del lavoro
(…) La situazione del nostro paese è di grande difficoltà e i dati mostrano con evidenza indiscutibile queste difficoltà: Il tasso di occupazione, che definisce il numero di persone in età lavorativa che partecipano al mercato del lavoro attivamente (di seguito il dato tra 15 e 64 anni – fonte Eurostat) pur con qualche breve picco in su o in giù, è rimasto sostanzialmente costante negli ultimi 13 anni. Era pari al 57,8% nel 2004, e si è assestato al 57,3% nel 2016.
La situazione, è ancor più grave per quanto concerne la disoccupazione. Infatti, il nostro paese è tra i primi in Europa per l’alto tasso di disoccupazione: siamo il 5° paese con il tasso di disoccupazione più elevato dopo Grecia Spagna, Croazia e Cipro. Il nostro tasso di disoccupazione nel 2016 era pari all’11,9% rispetto alla media EU-28 dell’8,7%.
Sia per quanto riguarda la bassa partecipazione al mercato del lavoro sia per l’alta disoccupazione le persone che hanno maggiori difficoltà sono i giovani e le donne e a livello territoriale il sud.
Abbiamo voluto con la mostra IL LAVORO CHE NON VOGLIAMO evidenziare in particolare 6 specifiche criticità, sei istantanee, affrontate da due punti di vista: attraverso i dati e le storie delle perso- ne.
E come ha detto il prof Flavio Felice [vedasi contributo precedente], la “denuncia delle criticità evidenziate”, quando non scade nel lamento, assume i caratteri della “situazione problematica” che attende di essere risolta.
Il lavoro femminile
Il lavoro e la famiglia rappresentano dimensioni fondamentali della società contemporanea e stanno entrambi vivendo profonde trasformazioni. Nell’ambito di questi complessi mutamenti, alle questioni dell’occupazione femminile e della conciliazione tra lavoro e famiglia viene riconosciuta una partico- lare importanza. Uno degli obiettivi fissati dal Consiglio europeo nella cosiddetta “Strategia di Lisbo- na”, da raggiungere entro il 2010, stabiliva di portare l’occupazione femminile al 60%: mentre l’Europa a 28 stati è riuscita a raggiungere questo obiettivo solo nel 2015, l’Italia nel 2016 è ancora lontana da questo traguardo (48%).
In Italia, le difficoltà nella conciliazione famiglia-lavoro hanno un peso determinante nella decisione di molte donne di rinunciare all’impegno nella sfera lavorativa.
Il 22% delle madri di nati nel 2009/2010 che lavoravano prima della gravidanza in seguito alla nascita dei loro figli hanno lasciato o perso il lavoro. Questo accade principalmente per le madri residenti nel Mezzogiorno (30%), le più giovani (47% per le madri di meno di 24 anni, 32% per le 25-29enni) e quelle con basso livello di istruzione (31%).
Lavoro e caporalato
Con il termine “caporalato” ci si riferisce ad una forma di intermediazione illecita, presente soprattutto in agricoltura, che utilizza forme illegali di reclutamento e sfruttamento economico dei lavoratori. I fenomeni di caporalato introducono una forte distorsione del mercato del lavoro, creando gravi ingiustizie perlopiù a persone che si trovano in condizione di grave difficoltà: ad esempio chi vive in condizione di povertà estrema o immigrati irregolari senza permesso di soggiorno.
Trovandosi in una posizione molto debole, le vittime dei “caporali”, ossia dalle persone che gestiscono il traffico dei lavoratori, subiscono spesso maltrattamenti, violenze e intimidazioni.
I numeri legati al fenomeno del caporalato sono rilevanti:
a) oltre 400.000 potenziali lavoratori impiegati nel settore agricolo che rischiano di confrontarsi ogni giorno con il caporalato. L’80% di loro sono stranieri;
b) circa 100.000 vittime del caporalato sono in condizione di grave sfruttamento lavorativo e/o di disa- gio abitativo e ambientale;
c) più di 80 epicentri (distretti agricoli a rischio) in cui si pratica il caporalato, distribuiti su tutto il ter- ritorio nazionale;
e) tra i 25 euro e i 30 euro: salario medio giornaliero percepito dai lavoratori per circa di 10–12 ore di lavoro; f) almeno 10 lavoratori morti nelle campagne a causa del caporalato nell’estate 2015. Nell’ottobre del 2016 è stato approvato il disegno di legge per il contrasto al caporalato che contiene specifiche misure per i lavoratori stagionali in agricoltura ed estende responsabilità e sanzioni per i “caporali” e gli imprenditori che fanno ricorso alla loro intermediazione.
Giovani e lavoro
Il rapporto tra giovani e lavoro è “la” priorità da affrontare per rilanciare le prospettive socio- economiche del Paese. Se, in Europa, il tasso di occupazione dei giovani è rimasto sostanzialmente stabile negli ultimi 15 anni (56% nel 2016), in Italia i dati esprimono una realtà differente: il forte calo dell’occupazione giovanile registrato fin dal 2006 si è infatti arrestato solo negli ultimi due anni asse- standosi nel 2016 al 40% (51% nel 2006). Sfavoriti soprattutto i giovani che vivono al sud, con un tas- so di disoccupazione superiore al 50%.
Un tema di forte attualità riguarda i giovani “Not in Education, Employment or Training” (NEET). Nel 2016, in Italia, sono 2,2 milioni gli individui che non risultano iscritti a scuola o all’università, e che non lavorano e neppure seguono corsi di formazione o aggiornamento professionale. Nel complesso dei paesi EU28, i NEET sono 12,3milioni: il nostro paese esprime la situazione di maggiore criticità in ambito europeo.
La situazione è particolarmente complessa anche perché, pur se l’entrata nel mondo del lavoro per i giovani italiani non è agevole nemmeno con il completamento di un percorso di studi, che acquisisce un diploma o una laurea, ha maggiori chance nella partecipazione al mercato del lavoro.
Lavoro e ambiente
Nel periodo gennaio-novembre 2016 il totale degli infortuni denunciati è stato di 587.599, di cui 935 mortali (82% nell’industria, 13% in agricoltura); nello stesso periodo, le malattie professionali denun- ciate sono state 55.922 (contro 58.917 nel corso di tutto il 2015) e si è trattato, in ordine decrescente di frequenza, di malattie muscolo-scheletriche, dell’apparato uditivo, di malattie respiratorie, di tumori e di malattie della pelle.
Ma si tratta di un quadro parziale. Infatti, se tradizionalmente i lavoratori sono stati affetti da malattie specifiche, oggi bisogna pensare al lavoro, con i cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, come a un potenziale fattore di rischio per una gamma amplissima di patologie somatiche, psicosomatiche e psichiche.
Non sono, però, soltanto i lavoratori ad essere colpiti dai molti potenziali fattori nocivi legati al lavoro, ma lo sono anche il territorio e la comunità che vive in prossimità di impianti produttivi.
Serve per i nuovi o rinnovati insediamenti una responsabile, indipendente e, nel contempo, partecipata valutazione dell’impatto sull’ambiente e sulla salute della popolazione.
Non solo lavoro e salute non sono incompatibili, ma l’uno può favorire l’altra: tra i possibili vantaggi di un lavoro che abbia al centro la persona, la comunità e l’ambiente in cui essa vive, figurerebbe – ac- canto al guadagno di salute – anche il contenimento dei costi sanitari. Sfortunatamente, però, la pre- venzione è molto predicata ma poco praticata.
Lavoro e formazione
Le traiettorie evolutive del mondo del lavoro impongono, sempre più spesso, ai lavoratori, di cambiare mansione o professione diverse volte nel corso della vita. Alla richiesta, da parte delle imprese, di competenze tecniche e specialistiche, tende dunque ad affiancarsi la richiesta di “competenze trasver- sali”, ossia competenze di carattere più generale che possano essere sfruttate in una molteplicità di si- tuazioni professionali.
Aggiornare le competenze individuali durante tutto l’arco della vita viene considerato dalle imprese, e non solo, come un valore aggiunto fondamentale per i lavoratori e le loro competenze.
Il cosi detto “Lifelong Learning” viene tuttavia scarsamente incentivato e favorito dalle imprese italia- ne. La percentuale di dipendenti che hanno effettuato corsi di formazione in azienda è fortemente cor- relata alla dimensione delle imprese dove essi lavorano. La probabilità di ricevere formazione in un’impresa con più di 500 dipendenti (53%) è quasi 4 volte superiore all’analoga probabilità in una con meno di 10 dipendenti (14%). A livello territoriale, nel Nord le percentuali di dipendenti formati in impresa sono superiori alla media nazionale (32% al Nord-Ovest e 29% al Nord-Est), mentre il Centro si ferma al 27% e il Sud al 24%. Lo scopo principale delle aziende formatrici è, comunque, nella mag- gior parte dei casi, quello di aggiornare il personale con riferimento alle mansioni già svolte (84%). Solo in piccola parte le attività formative sono indirizzate all’acquisizione di competenze per nuovi compiti e funzioni (11%) o per formare persone da poco assunte in azienda (5%).
Il precariato
L’aumento dell’incidenza del lavoro a termine registrato negli ultimi anni è una tendenza comune ai principali paesi europei, in Italia il tema del “rischio di precarietà” lavorativa cresce tuttavia con ritmo maggiore: se nel 2002 i lavoratori temporanei costituivano il 9,9% dei dipendenti contro il 12,4% del complesso dei paesi EU28, nel 2016 sia per l’Italia che per i paesi EU28 questa quota è di circa il 14%. Ma se questo “fa parte” dei cambiamenti strutturali del mercato del lavoro, è importante osservare che molti lavoratori sono costretti ad accettare un impego temporaneo non per scelta volontaria: si tratta dei cosiddetti “lavoratori temporanei involontari”.
I due problemi procedono in parallelo nel nostro Paese: similmente all’aumento del numero di lavora- tori temporanei (+59% dal 2000), sta crescendo anche la quota di lavoratori temporanei involontari (+39%).
Anche la durata dei contratti a termine influenza il rischio di precarizzazione dei lavoratori. Nel 2016, per 1.837mila lavoratori a termine il contratto ha avuto una durata di meno di un anno. Inoltre, per cir- ca 543mila persone la durata del contratto è stata inferiore ai 3 mesi.
Conclusione
Queste criticità, queste istantanee su snodi critici (come diceva pocanzi il prof Fabio Felice) non vo- gliono farci scadere nel lamento ma bensì aiutarci ad aumentare la consapevolezza che un tentativo di risposta, nella prospettiva del bene comune, può arrivare da una visione che si prende cura integral- mente della dignità e del destino della persona.
C’è una frase di Antoine Marie Roger de Saint Exupéry che penso possa aiutare a cogliere le caratteri- stiche primarie di una concezione che sta alla base della costruzione di un mercato del lavoro che valo- rizzi la dignità della persona:
“Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini solo per raccogliere il legno e distribuire i compiti, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”.
E mi permetto di chiudere il mio intervento con una frase di Papa Francesco tratta dal discorso dello scorso 27 maggio all’ILVA di Genova, che riassume in se la drammaticità e la contemporanea amicizia del lavoro per la persona.
Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che si sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. (Discorso di Papa Francesco Stabilimento Ilva – Genova, Sabato, 27 maggio 2017)
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