MIGRAZIONI la trappola del lavoro

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di Roberta Carlini, su Rocca
Se non lavorano, sono dei parassiti. Ma se hanno un lavoro, lo stanno rubando agli italiani. Sembra una trappola senza uscita, quella del lavoro per gli stranieri, insieme alle tante altre nelle quali si imbattono, fisiche e metaforiche. Ma non dovrebbero esserci dubbi, almeno per una parte delle persone che migrano: i rifugiati, che secondo la Convenzione di Ginevra del 1951 hanno diritto al lavoro nel Paese in cui arrivano alle stesse condizioni degli autoctoni. Ma sono solo 145 gli Stati firmatari della Convenzione (tra i quali l’Italia), e anche al loro interno prevalgono distinguo e limitazioni al principio generale. Che ha una sua ispirazione chiarissima: se si vuole proteggere una persona, il cibo e un tetto sono la prima cosa da garantire, ma al rifugio fisico va affiancato il rifugio economico, ossia l’autonomia e dignità date da un reddito guadagnato con la propria attività. Se per i rifugiati, secondo i princìpi internazionali scritti in un’epoca ormai lontana ma formalmente non sconfessati, il lavoro è un diritto, per gli altri migranti – quelli che si spostano «solo» per migliorare la propria posizione economica – è lo scopo stesso del viaggio. I confini tra le due categorie, nella confusione degli sbarchi come nella condizione materiale, non sono così netti e a volte vengono agitati pretestuosamente: sta di fatto che, nell’uno come nell’altro caso, il lavoro in condizioni legali e dignitose è ostacolato, ridotto, a volte impossibile. L’articolo 17 della convenzione sui rifugiati è considerato un lusso che non possiamo più permetterci, da quando il lavoro, crocevia della nostra identità, è diventato un privilegio da spartirsi: e quando ci si deve dividere qualcosa, è meglio essere di meno. Motivo per cui si sono anche chiusi i moderati flussi regolari di ingresso prima consentiti ai migranti economici. È l’economia, con le sue dure leggi, che vince sull’etica? Le cose sono più complesse, a guardarle più da vicino. E la logica corrente può ribaltarsi nel suo contrario: gli immigrati non rubano lavoro, lo portano.

una notizia da Torino
Mentre l’Italia precipitava nell’estate drammatica della fine dei soccorsi in Mediterraneo, degli sgomberi e degli allarmi, all’inizio di luglio da Torino giungeva una notizia in controtendenza. Il prefetto ha riconosciuto a una trentina di profughi un permesso di soggiorno speciale, per poter continuare a lavorare. Queste persone si trovavano in una situazione molto critica: arrivati in Italia, avevano fatto domanda d’asilo e, secondo le leggi italiane, potevano dunque lavorare nell’attesa della risposta, per cui sono stati assunti da imprese della zona. Ma il riconoscimento del diritto d’asilo non è arrivato, anzi la loro domanda è stata respinta, poiché non avevano i requisiti. Sempre secondo la legge italiana, avrebbero dovuto essere buttati fuori. Ma il prefetto ha chiesto alle commissioni di riconsiderare la decisione, concedendo dei permessi «per motivi umanitari», della durata di due anni. Una protezione speciale, legata al fatto che queste persone lavorano, pagano i contributi, hanno imparato la lingua, insomma hanno fatto quel percorso di integrazione che tutti auspicano e chiedono. La decisione è importante non solo perché è la prima volta in Italia che la protezione umanitaria è interpretata in questo modo; ma anche e soprattutto perché a chiederla, a gran voce, sono stati gli imprenditori che avevano assunto i richiedenti asilo. «Questi ragazzi – avevano scritto in una lettera inviata a sindaco, prefetto e governatore – hanno imparato un mestiere e sono diventati risorse fondamentali per le nostre imprese. Chiediamo solo di poter proseguire il percorso intrapreso». La lettera è firmata da oltre cento aziende, il che fa capire che il fenomeno va oltre i trenta casi poi risolti in luglio.
Stiamo parlando comunque di piccoli numeri, una goccia nel grande mare di immigrati e profughi; ma è un episodio importante, perché mostra da un lato l’importanza cruciale del lavoro come strumento di integrazione e liberazione sociale; dall’altro, l’assurdità per cui, rispettando alla lettera le leggi, ci si poteva trovare a cacciare dall’Italia persone che lavorano, producono, pagano le tasse, sono volute e benvolute. I cento e passa imprenditori del Piemonte non hanno firmato quella lettera per fare un’opera di bene, ma per continuare a realizzare i propri guadagni, pagando tasse e contributi; mentre possiamo star certi del fatto che i proprietari dei campi di pomodori raccolti con il lavoro
schiavo dei migranti, nonché la fitta schiera degli intermediari di tutta la filiera, non chiederanno mai con una lettera al prefetto il permesso di soggiorno per i propri lavoranti.

miseria e ricchezza
Nello stesso senso si erano mossi, in occasione dell’eccezionale arrivo di profughi da Siria e Iraq nel 2015, gli imprenditori tedeschi, che hanno chiesto e ottenuto una rapida integrazione della nuova forza lavoro: corsi di lingua (a carico dello Stato) e di formazione professionale, riconoscimento dei titoli, assunzione regolare. Che, oltre a essere in teoria un pre-requisito in uno Stato di diritto, ha anche un corollario importante per le casse pubbliche, ossia il fatto che coloro che lavorano pagano anche tasse e contributi. Cosa che sarebbe molto importante, in Paesi demograficamente squilibrati come la Germania e l’Italia, per il futuro equilibrio del sistema pensionistico, come insistentemente dice il presidente dell’Inps Tito Boeri. Nel periodo della grande migrazione verso la Germania, mentre Angela Merkel diceva al mondo «Ce la possiamo fare» e apriva le porte, il Pil tedesco registrò un aumento superiore alle previsioni, che molti economisti attribuirono proprio alla domanda (e alla spesa pubblica) aggiuntiva portate dai rifugiati. Un episodio che ne ricorda altri che si sono visti nel passato e che sono raccontati nei testi sugli effetti economici delle migrazioni, dall’ondata dei profughi cubani in Florida, ai messicani in California, ai russi in Israele dopo la caduta del Muro: tutti casi nei quali gli esuli si sono portati dietro «il loro Pil». Competenze, capacità di lavorare, domanda di beni di consumo, case e servizi; e spesa pubblica aggiuntiva (la Germania ha pagato più insegnanti di tedesco, oltre che pasti caldi, alloggi e medicine), che è certo un costo ma anche denaro che entra nell’economia e genera nuova domanda, e dunque nuovo lavoro. Il Fondo monetario si spinse a prevedere che la crisi dei rifugiati in Europa poteva portare, se gestita correttamente con politiche attive, a un aumento di quasi un quarto di punto di Pil di qui al 2020. Niente affatto, replica la vulgata dominante, rappresentata da un titolo di Libero di qualche giorno fa: vengono dalla miseria, portano miseria. Una convinzione diffusa, che ha influenzato anche l’inversione di rotta della stessa politica tedesca, che ha chiuso subito dopo i confini a Est, e quella europea che li sta chiudendo del tutto a Sud. Ma è una convinzione che ha – come minimo – qualche smentita nei precedenti storici, oltre che banalizzare e cristallizzare in una sola dimensione la realtà delle persone che si mettono in viaggio nel mondo: che non sono solo vittime alla ricerca di protezione e di sostentamento. «Sono consumatori, produttori, compratori, venditori, fanno prestiti, avviano imprese»: così scrivono due studiosi di Oxford, Alexander Betts e Paul Collier, in un libro di recente pubblicato nel Regno Unito, intitolato «Refuge» e dedicato a «come trasformare un sistema che non funziona più».

lasciamoli lavorare
Il sistema che non funziona più, secondo Betts e Collier, è proprio quello che nacque con la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, pensato per un altro mondo, ormai lontano. Ma il principio da salvare è proprio uno di quelli fissati nella Convenzione e mai pienamente attuato: il diritto al lavoro. I due, partendo da un’esperienza avviata in Giordania, avanzano una proposta molto discussa e non priva di problemi, quella di istituire zone economiche speciali in prossimità dei campi profughi nei paesi in via di sviluppo – nei quali, va ricordato, staziona la stragrande maggioranza delle persone in fuga e in cerca di protezione. Anche in un rapporto dello scorso anno prodotto congiuntamente da Banca mondiale e Unhcr, intitolato Forcibly displaced, si sostiene la necessità di virare verso un nuovo approccio alla crisi dei profughi, basato sullo sviluppo: per cominciare, nei posti in cui stanno provvisoriamente, per poter anche solo immaginare e preparare un ritorno in patria, «a casa loro» (laddove questo sia possibile). Nelle periferie delle grandi metropoli del Sud dove prevalentemente si affollano, come nei campi profughi, come nelle nostre zone, i rifugiati, di fatto, lavorano: laddove non è consentito nascono economie informali, al nero, tollerate o sfruttate o represse. Farle emergere e mantenerle emerse, come hanno chiesto e ottenuto gli imprenditori di Torino prima citati, è il primo passo per scardinare una visione solo miserabile delle persone che migrano o fuggono, e così facendo ridurre l’ondata di paura irrazionale e sproporzionata che sta condizionando tutta la politica europea.

Roberta Carlini su Rocca n, 19 1 ottobre 2017
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