Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?

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di Giacomo COSTA, Aggiornamenti Sociali,
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Il tema del lavoro attraverserà l’annata 2017 della Rivista “Aggiornamenti Sociali”, per arricchire la riflessione in vista della Settimana sociale dei Cattolici italiani che si terrà a Cagliari dal 26 al 29 ottobre p.v. A partire da un’analisi del contesto attuale, la Rivista con il presente Editoriale e con altri articoli correlati inizia a presentare alcuni spunti per rimettere a fuoco il senso del lavoro stesso. Come Aladinews ci permettiamo riprendere queste importanti riflessioni che costituiscono preziosa documentazione anche per il Convegno sul Lavoro promosso dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria di Cagliari, che si terrà nei giorni 4 e 5 ottobre 2017 (tra i relatori: Domenico De Masi e Silvano Tagliagambe).
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Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?
Il lavoro, e ancora di più la sua mancanza, sono al centro dell’attenzione collettiva del nostro Paese, dalle preoccupazioni e sofferenze di tante persone e famiglie, al dibattito sulle politiche nazionali ed europee, passando per la rappresentazione mediatica di questi fenomeni. L’interesse si concentra in larga parte sull’andamento del tasso di disoccupazione (generale e giovanile), con l’onnipresente interrogativo se sia o meno effetto del Jobs Act, sulle modifiche delle tutele normative, sulle crisi aziendali e i relativi esuberi, sugli ammortizzatori sociali per chi perde il lavoro (ad esempio gli “esodati”), sul ruolo del sindacato, la dialettica al suo interno e con le controparti datoriali e governative.

In tutto ciò, il lavoro viene più o meno consapevolmente assunto come sinonimo di occupazione e, conseguentemente, di remunerazione, condizione peraltro essenziale per condurre un’esistenza dignitosa e progettare il proprio futuro. In questo modo però finisce col prevalere un approccio soprattutto economico al lavoro, e si lasciano nell’ombra altri aspetti non meno importanti.

Ad esempio, meno frequentato è il tema dei mutamenti radicali che il mondo del lavoro sta attraversando e che lo allontanano dall’impianto logico e ideologico novecentesco, ancora ben presente nell’immaginario collettivo: il posto fisso, la focalizzazione sul lavoro dipendente, le relazioni industriali e la concertazione. Serve dunque uno sforzo per mettere nuovamente a fuoco le coordinate del mondo del lavoro e capire come declinare al loro interno preoccupazioni antiche, ma non per questo obsolete: tutela dei diritti e della sicurezza di chi lavora, inclusione e protezione di chi un lavoro l’ha perso o non riesce a trovarlo, con un atteggiamento di rispetto per il dramma della disoccupazione che attraversa la vita di molte persone e la società nel suo insieme, in particolare al Sud, ma non solo.

8goals-buona-occupazione-crescita-economicaLa traiettoria evolutiva del lavoro è al centro dell’attenzione internazionale. L’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL) si sta preparando a festeggiare il centenario della propria fondazione nel 2019 con una articolata iniziativa sul futuro del lavoro, che mette a tema i fattori che lo stanno cambiando, a partire da nuove tecnologie e cambiamenti climatici. Inoltre esso è uno dei temi centrali dell’intera Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, approvata dalle Nazioni Unite nel 2015, e non soltanto dell’Obiettivo n. 8, dedicato esplicitamente a lavoro dignitoso e crescita economica.

In ambito nazionale si sta preparando la 48ª Settimana sociale dei cattolici italiani, prevista a Cagliari dal 26 al 29 ottobre 2017, intitolata «Il lavoro che vogliamo: “libero, creativo, partecipativo e solidale” (EG 192)» (cfr ). Nell’invito rivolto a tutte le diocesi italiane, il presidente del Comitato organizzatore, l’arcivescovo di Taranto mons. Filippo Santoro, oltre a dettagliare le tappe di preparazione, indica come obiettivo un confronto sul lavoro inteso come vocazione, opportunità, valore, fondamento di comunità e strumento di promozione della legalità, capace di articolare una pluralità di registri comunicativi (denuncia, racconto e condivisione dell’esperienza diretta, raccolta e rilettura delle buone pratiche, elaborazione di proposte innovative).

Aggiornamenti Sociali ha deciso di partecipare a questo processo di riflessione con le modalità proprie di una rivista di approfondimento, accompagnando con un dossier il percorso verso la Settimana sociale di Cagliari. Gli articoli che appariranno via via sulle nostre pagine saranno raccolti in una sezione dedicata del sito [Dossier di Aggiornamenti Sociali], a partire da questo editoriale e dai contributi di questo numero sull’alternanza scuola-lavoro (Daniela Robasto, pp. 14-23), sull’enciclica Laborem exercens che nel 1981 Giovanni Paolo II dedicò al tema del lavoro (Philippe Laurent SJ, pp. 73-77) e sui green jobs (l’infografica alle pp. 64-65). All’interno di questa prospettiva, l’obiettivo di questo editoriale è provare a evidenziare quattro tra gli snodi più significativi per una riflessione sul lavoro: l’impatto dell’innovazione tecnologica, la dimensione sociale del lavoro, le contraddizioni del settore informale, la questione del senso del lavoro. In forma più analitica, questa riflessione si arricchirà dei contributi che andranno man mano a comporre il dossier.

Governare la quarta rivoluzione industriale
Senza dubbio il primo fattore di cambiamento del mondo del lavoro resta il progresso tecnologico. Si parla ormai abbastanza comunemente di quarta rivoluzione industriale o di industria 4.0: dopo quella del carbone e della macchina a vapore (XIX secolo), quella del petrolio, dell’energia elettrica e della produzione di massa (secondo dopoguerra), quella di Internet, delle tecnologie dell’informazione e dell’automazione, questa nuova tappa, di cui non siamo ancora in grado di precisare l’inizio, appare legata agli sviluppi nel campo dell’intelligenza artificiale (macchine in grado di apprendere), della stampa 3D, delle nanotecnologie e delle biotecnologie, con la possibilità di creare interfacce di interazione uomo-macchina fino a pochi anni fa considerate fantascienza. Quali cambiamenti provocherà nel lavoro, nella società e nella vita quotidiana?
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Macchine sempre più sofisticate, capaci di apprendere dalla propria esperienza e da quella delle persone, e in grado di analizzare in un batter d’occhio masse di dati che una persona impiegherebbe anni a raccogliere, rivoluzioneranno il rapporto con coloro che le utilizzano, che potrebbero ritrovarsi a diventare semplici “terminali umani” di sistemi interconnessi sempre più sofisticati. Se anche non fosse così, si amplierà lo spazio dell’impiego di macchine al posto dei lavoratori, investendo non solo le mansioni di routine o di fatica, ma anche quelle più sofisticate: i progressi nel campo della traduzione automatica, della guida senza conducente e addirittura delle diagnosi mediche automatizzate e a distanza ne sono un esempio. Anche settori normalmente considerati tradizionali, come quello del commercio e della distribuzione, stanno sperimentando cambiamenti rapidissimi, con effetti occupazionali già piuttosto evidenti [in argomento si segnala il saggio-breve di Fernando Codonesu su Aladinews].

Un altro effetto delle nuove tecnologie è ridurre la necessità della standardizzazione a favore della personalizzazione dei prodotti in base alle esigenze del cliente e della possibilità di produrre on demand. Crescono dunque le pressioni perché anche i lavoratori accettino questa logica, uscendo da un modello basato su prestazioni lavorative continuative, per offrire invece la propria opera quando un’applicazione tecnologica ne trasmette la richiesta. A qualche possibilità di conciliazione tra vita personale e lavorativa, questi scenari accoppiano inquietudini radicali dal punto di vista delle tutele dei lavoratori. Bloccare innovazioni che portano benefici al consumatore è praticamente impossibile nel medio-lungo periodo: quali politiche e quali strutture potrebbero aiutare a gestire il cambiamento e a rendere la transizione sostenibile per tutte le persone coinvolte?

Certamente il massiccio ingresso delle tecnologie digitali nei processi produttivi rende imprescindibile affrontare la questione dell’alfabetizzazione digitale, dato che non padroneggiarle è un fattore potenziale di esclusione. Immaginare però le trasformazioni del rapporto uomo-macchina come un flusso che, senza attriti, conduce all’automazione totale è una rappresentazione con pochi appigli nella realtà. Si tratta piuttosto di chiedersi come orientare e governare questo processo che resta ancora aperto a esiti diversi (papa Francesco ci ricorda che in definitiva «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani» [enciclica Laudato si’, 2015, n. 105] e che «rinunciare a investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società» (LS, n. 128]).

Pur con significative differenze, nasce dall’innovazione tecnologica anche la sharing economy (economia della condivisione). Anch’essa tende a rendere flessibile la frontiera netta tra tempo di lavoro e di non lavoro (ad esempio quando si trasforma un viaggio in auto in una opportunità di guadagno, offrendo un passaggio a pagamento), ma promuove anche modelli di interazione che possono favorire nuove forme di legame sociale. In questo senso, ancora maggiori sono le potenzialità dell’applicazione delle nuove tecnologie a contesti quali il consumo critico: le piattaforme digitali aumentano la possibilità di interazione a distanza tra produttori e consumatori, offrendo una tutela della stabilità lavorativa per i primi e della qualità per i secondi.

Riscoprire la dimensione sociale del lavoro
La fabbrica come luogo simbolo del XX secolo metteva in risalto la dimensione collettiva, immediatamente sociale del lavoro, recepita con chiarezza anche dalla nostra Carta costituzionale. In quell’epoca, il lavoro costituiva la base dell’identità sociale, veicolata dal mestiere esercitato, ma per certi versi ancora di più dalla posizione occupata nelle gerarchie del mondo del lavoro; al suo interno si formava quel tessuto di legami in cui potevano affondare le proprie radici le esperienze di solidarietà da cui traggono origine i sindacati o le mutue cooperative.

La progressiva parcellizzazione della produzione, unita al prevalere di una cultura individualista, spiegano l’indebolimento della percezione del carattere sociale del lavoro. Certo esso non è più la base principale dell’identità sociale, affiancato e talvolta rimpiazzato dal consumo, mentre la crisi delle solidarietà di tipo sindacale risulta evidente nella maggior parte dei Paesi del mondo. Anche il lavoro sembra spinto sempre più nella sfera del privato e alcune tendenze della quarta rivoluzione industriale possono accentuare questo processo.

È in questo scenario che va collocato il ripensamento di alcuni istituti e pratiche della nostra società. Un primo fronte è quello del welfare, il cui modello universalista novecentesco sembra entrato in una crisi irreversibile per ragioni economiche, di fronte alla quale emergono risposte innovative anche interessanti, come il welfare di comunità, proposto da alcuni soggetti del terzo settore, o il welfare aziendale, oggetto di crescente attenzione da parte delle imprese, anche a causa di forme di incentivazione pubblica. Il rischio è di perdere in uguaglianza e inclusione, frammentando la platea dei beneficiari tra ipergarantiti (ad esempio quanti lavorano in grandi imprese o in settori ad alta produttività), poco garantiti (gli occupati di settori più marginali) e per nulla garantiti (gli esclusi dal mercato del lavoro), sulla base di una condizione individuale che non è rappresentativa del contributo che ciascuno reca al bene comune e al benessere collettivo. Perplessità suscitano anche quegli strumenti che sembrano ridurre il welfare a erogazione di sussidi monetari: possono dare risposta a bisogni immediati, ma difficilmente da soli riescono a innescare dinamiche di partecipazione e di attivazione delle capacità personali, in vista di una definitiva uscita dalla condizione di marginalità. Anche nel caso del welfare risulta cruciale trovare forme adeguate di governo delle sperimentazioni e dei processi di innovazione, puntando a identificare attraverso l’ascolto e il dialogo le soluzioni più promettenti nel lungo periodo, e a valorizzarle in quanto generatrici di capitale sociale.

Un secondo cantiere riguarda la costruzione creativa di forme di solidarietà fondate sulla partecipazione alla produzione di ricchezza come sforzo collettivo, a prescindere dalla forma contrattuale con cui ciascuno è ingaggiato: è lo spazio in cui possono rinnovare la propria vitalità il mondo cooperativo e quello associativo, e mettere radici le nuove reti di cittadinanza attiva. Questo interpella anche il sindacato: soltanto vincendo la sfida a diventare plurale esso potrà ritrovare la propria funzione all’interno di un mutato scenario, che peraltro ne mostra un impellente bisogno. Occorre abbandonare una concezione del sindacato come strumento di tutela del lavoro salariato (per di più magari ormai a riposo), per assumere una responsabilità nei confronti della partecipazione ai processi decisionali di tutti coloro che sono coinvolti, nell’ottica di una contrattazione sociale territoriale.

Un terzo ambito, in cui con piacere registriamo un certo fermento innovativo, è quello della promozione di luoghi di lavoro accoglienti e inclusivi, che permettano di dare spazio e valorizzare la ricchezza delle peculiarità e differenze delle persone che vi operano. Ci riferiamo al percorso che, partendo dalla lotta ai divari di genere e passando per la conciliazione tra vita lavorativa e personale, approda via via al diversity management e alla Human Cooperation, su cui già abbiamo avuto occasione di riflettere (cfr Costa G., «Oltre le pari opportunità: valorizzare generi e generazioni», in Aggiornamenti Sociali, 3 [2016] 181-188). Almeno alcune aziende, che svolgono un ruolo di pioniere o di minoranza profetica, hanno ormai scoperto che, quando si investe in questo campo, andando oltre quanto richiesto dalla normativa vigente, diventa possibile stabilire nuove alleanze con i propri lavoratori, a vantaggio del loro benessere e della loro produttività, in una logica di mutuo guadagno. Anche questo è uno dei modi in cui si sperimenta oggi la dimensione originariamente sociale del lavoro.

Ai margini del mercato del lavoro
I mutamenti sociali, economici e tecnologici stanno riconfigurando la tradizionale bipartizione tra lavoro formale e informale, che torna in evidenza anche nei Paesi normalmente considerati sviluppati. Secondo la definizione dell’OIL, appartengono all’economia informale le attività realizzate da lavoratori e unità produttive totalmente o in larga parte prive di coperture formali, perché si situano al di fuori di quanto previsto dalle disposizioni legislative, o perché queste non sono di fatto applicate o ancora perché il rispetto della normativa è disincentivato dalla sua complessità o dagli eccessivi costi che impone. Come è noto, l’informalità lavorativa rappresenta una sfida per la tutela della dignità e dei diritti dei lavoratori, oltre che una minaccia per la solidità delle istituzioni e la sostenibilità economica, sociale e ambientale del sistema produttivo, e un danno per le finanze pubbliche.

La frequente coincidenza tra informalità, precarietà e un certo grado di esclusione non significa però che si tratti di un fenomeno marginale: si stima che operino nel settore informale circa 3 dei 7 miliardi di abitanti del pianeta, non solo nei Paesi in via di sviluppo (dove il lavoro informale rappresenta oltre la metà dell’occupazione non agricola). Proprio quest’ampia diffusione richiede attenzione alla complessità del fenomeno, accompagnando una transizione graduale verso l’economia formale che preservi e sviluppi il potenziale imprenditoriale, la creatività, il dinamismo e la capacità innovativa che sono spesso una cifra del settore informale.

Probabilmente si può andare oltre, valorizzando il settore informale non come strumento di compensazione delle crisi, una sorta di ammortizzatore sociale a basso costo, ma come punto di osservazione per una rilettura critica del sistema in vista di una sua riprogettazione [in argomento le riflessioni di Gianfranco Sabattini, su Democraziaoggi, riprese da Aladinews]. Il settore informale ha la potenzialità per diventare il laboratorio di una economia morale, solidale e radicata nei diversi contesti territoriali, al cui interno emerge con più facilità l’innovazione sociale, purché non sia circondato da barriere invalicabili verso il settore formale, che lo trasformano invece in una sorta di ghetto per cittadini di seconda categoria (lavoratori poveri e poco qualificati, specie se di sesso femminile, migranti, giovani che non riescono a ottenere un impiego formale, ecc.). Sia gli studi sociologici sul settore informale, sia l’esperienza diretta di chi lo pratica – a cui spesso si richiama anche papa Francesco, ad esempio in occasione degli Incontri con i movimenti popolari – evidenziano come esso costituisca una riserva di valori, capacità e opportunità che risultano invece più scarsi in altri segmenti della compagine sociale. Ne citiamo alcuni a titolo di esempio: la resilienza, come capacità di abitare il limite in modo creativo, aperto al cambiamento attraverso la costruzione di legami; la cura, come atteggiamento di responsabilità verso il mondo che può prendere diverse forme, dal lavoro in ambito domestico al rispetto della natura tipico di molti popoli indigeni, che sempre di più la globalizzazione spinge ai margini e dunque nell’informalità; la solidarietà e la cooperazione, come capacità di generare relazioni che superano l’anonimato dell’individualismo consumista attraverso pratiche di riconoscimento che si traducono in empowerment di tutte le persone coinvolte.

Senza attingere a queste risorse è difficile che il settore formale e gli ordinari strumenti politici e normativi possano dare risposte efficaci alla situazione di coloro che oggi non riescono a trovare un impiego formale e talvolta neppure informale: disoccupati di lunga durata, inattivi per scoraggiamento (persone che hanno perso la speranza di trovare lavoro e quindi nemmeno più lo cercano), NEET (giovani che non hanno un lavoro né frequentano la scuola o corsi di formazione).

Per un lavoro «libero, creativo, partecipativo e solidale»
L’indispensabile attenzione alle forme concrete del lavoro, alle contraddizioni che vi si possono nascondere e alle forme di tutela che richiedono, non deve però occultare la domanda più profonda sul senso del lavoro: a che scopo lavoriamo? A quali criteri e valori si ispira il nostro lavoro e il modo in cui lo svolgiamo? Sono domande rivolte a ciascuno individualmente, alle diverse istanze sociali (impresa, reparto, équipe) al cui interno si opera e alla società nel suo insieme (su scala locale, nazionale, ecc.), che devono trovare risposta su tutti i livelli.

Diamo spesso per scontato che la remunerazione economica rappresenti un elemento costitutivo del lavoro, accettando così di definirlo e misurarlo con un metro monetario e perdendo di vista che merita di essere definita lavoro «qualsiasi attività che implichi qualche trasformazione dell’esistente» (LS, n. 125). Fin dalle prime pagine, la Bibbia non teme di presentare la creazione come un lavoro e Dio come un lavoratore, in evidente assenza di qualunque remunerazione. Senza trascurare il dramma di coloro per i quali mancanza di lavoro equivale ad assenza di reddito e povertà, rimettere a tema il senso del lavoro richiede di tornare a interrogare anche il rapporto tra lavoro, remunerazione e gratuità, per riscoprire sia la dignità di tutti quegli impegni che trasformano la realtà (spesso in meglio) escludendo deliberatamente una retribuzione economica, sia la necessità che la logica della gratuità trovi spazio anche all’interno dei rapporti economici (lavoro compreso), che altrimenti diventano rapidamente inabitabili, secondo la lezione della Caritas in veritate di Benedetto XVI.

Nel corso della storia, in particolare all’interno della cultura occidentale, il lavoro come trasformazione dell’esistente è diventato strumento di un paradigma di dominio e sfruttamento della natura che oggi mostra tutta la sua inadeguatezza nella complessa e profonda crisi socioambientale che stiamo attraversando. Ne vediamo tutta la necessità, ma la costruzione di un paradigma in cui il lavoro sia invece inserito nella logica della cura della casa comune ha ancora bisogno di avanzare per affermarsi definitivamente. È questo un secondo ambito estremamente fecondo per una ripresa degli interrogativi sul senso del lavoro.

Infine, nell’esperienza storica così come nell’immaginario collettivo, il lavoro è posto sotto il segno del dovere e della necessità, oltre a essere spesso il luogo di forme odiose di sfruttamento e oppressione (schiavitù, tratta, lavoro forzato, ecc.). Tuttavia di tanto in tanto questo telo scuro si squarcia e l’impegno per la trasformazione dell’esistente diventa l’occasione per sperimentare libertà, creatività, realizzazione e pienezza di sé: è quanto accade non solo agli artisti, ma a tutti coloro che portano a termine qualcosa di cui sentono di poter andare fieri. Riflettere sul senso del lavoro è dunque un modo di riattraversare anche il delicato rapporto tra dovere e scelta, tra necessità e libertà.

Prendere sul serio il lavoro, nella concretezza delle sue forme e nel senso umano che lo abita, è dunque un investimento che ci permette di guadagnare, come singoli e come società, in dignità e inclusione, in gratuità, cura e libertà. È questo − come ricorda il titolo della Settimana sociale di Cagliari − il lavoro che vogliamo e che dobbiamo imparare a promuovere in maniera concreta. Ne vale certamente la pena e per questo lungo il 2017 Aggiornamenti Sociali cercherà di accompagnare i suoi lettori in questo cammino.
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Il quadro di G. De Chirico

One Response to Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?

  1. […] G. (2017), «Trasformare l’esistente: che lavoro vogliamo?», in Aggiornamenti Sociali, 1, 5-12 [ripreso da Aladinews]. FérrerAs I. (2012), Gouverner le capitalisme?, Presses Universitaires de France, Parigi. GrAZZini […]

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