Dietrich Bonhoeffer e la verità

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VITO MANCUSO parla di DIETRICH BONHOEFFER

Il 30 gennaio 1933 Hitler sale al potere. Nello stesso anno il pastore protestante Dietrich Bonhoeffer, allora ventisettenne e alle prime armi come docente di teologia all’Università di Berlino, prende apertamente posizione contro la Politica razzista del nuovo governo tedesco, dapprima con una conferenza pubblica sulla questione ebraica nel mese di aprile, poi, in agosto, distribuendo un volantino con una dura critica a chi voleva espellere dalla Chiesa protestante tedesca i cristiani di origine ebraica. E’ l’inizio di un impegno a favore della giustizia per il quale avrebbe pagato con la vita. Nel 1936 gli ritirano l’autorizzazione all’insegnamento universitario, nel 1940 gli vietano di parlare in pubblico obbligandolo a notificare i propri movimenti alla polizia, nel 1941 gli proibiscono ogni forma di pubblicazione, infine il 5 aprile 1943 la Gestapo lo arresta con l’accusa (fondata) di cospirazione. Passerà due anni nel carcere militare di Tegel a Berlino, per essere infine trasportato nel lager di Flossenbùrg dove verrà impiccato la mattina del 9 aprile 1945.
Prima di essere arrestato Bonhoeffer stava lavorando a un libro sull’etica. E in questa prospettiva di ricerca che si inserisce un saggio intitolato Che cosa significa dire la verità?, di cui riporto il seguente brano: “Un maestro chiede a un bambino dinanzi a tutta la classe se è vero che suo padre spesso torni a casa ubriaco. E vero, ma il bambino nega [...]. Nel rispondere negativamente alla domanda del maestro, egli dice effettivamente il falso, ma in pari tempo esprime una verità, cioè che la famiglia è un’istituzione sui generis nella quale il maestro non ha diritto di immischiarsi. Si può dire che la risposta del bambino è una bugia, ma è una bugia che contiene più verità, ossia che è più conforme alla verità che non una risposta in cui egli avesse ammesso davanti a tutta la classe la debolezza paterna”. Bonhoeffer dice che una bugia, un’esplicita negazione della verità e come tale un’affermazione falsa (mio padre non è un ubriacone), può contenere più verità di un’affermazione in sé vera (mio padre è un ubriacone). Con ciò egli profila una concezione della verità a più dimensioni, per illustrare la quale mi permetto di proseguire l’esempio. In quella classe ci sono due ragazzi che abitano vicino all’interrogato e sanno perfettamente come stanno le cose. Uno di loro, per dovere di precisione, si alza in piedi e dice di conoscere benissimo qual è la realtà dei fatti ossia che il padre torna spesso ubriaco. L’altro, però, interviene dicendo che non è per nulla così, che il ragazzo che ha appena parlato si sbaglia perché confonde il padre del ragazzo interrogato con un altro uomo, e che lui, che abita proprio li accanto, può garantire che le cose stanno effettivamente così. Chi tra questi due ragazzi dice la verità? Il primo ricorda la figura di “colui che pretende di dire la verità dappertutto, in ogni momento e a chiunque”, ma chi agisce così “è un cinico che esibisce soltanto un morto simulacro della verità”. Il secondo personifica una concezione secondo la quale il rapporto umano è più importante della descrizione oggettiva di come stanno effettivamente le cose, una concezione della vita al vertice della quale c’è la relazionalità dell’essere e che individua il criterio decisivo nell’incremento della qualità delle relazioni. Nel primo caso la verità è qualcosa di statico, è un dato di fatto: il padre è ubriaco punto e basta, poche chiacchiere. Nel secondo caso la verità è qualcosa di dinamico, più esattamente di relazionale, che sa collocare il dato di fatto dell’ubriachezza del padre nel contesto più ampio di un figlio costretto a riconoscerla pubblicamente di fronte al maestro e ai compagni di classe e che per questo, negandola a un primo livello (quello dell’esattezza), la serve a un livello più alto (quello della relazione). Nel primo caso la verità si dice, si riconosce, si dichiara, si professa. Nel secondo caso la verità si fa, si attua, si realizza, si costruisce. Nel primo caso la verità è un dato, una tesi, una dottrina, un dogma. Nel secondo caso la verità è un processo, un evento, una relazione, un sistema. Nel primo caso chi nega la verità dice un’eresia. Nel secondo caso chi nega la verità agisce ingiustamente.
La seconda prospettiva è quella di Bonhoeffer, e anche la mia. Scrive il grande teologo che “la parola veridica non è una grandezza costante in sé: è vivente come la vita stessa. Quando essa si distacca dalla vita e dal rapporto concreto con il prossimo, quando qualcuno dice la verità senza tenere conto della persona a cui parla, c’è l’apparenza ma non la sostanza della verità”. (da “La vita autentica”)

Così Dietrich Bonhoeffer scriveva dal carcere nazista: «La Chiesa deve uscire dalla sua stagnazione. Dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale col mondo. Dobbiamo anche rischiare di dire cose contestabili, se ciò permette di sollevare questioni di importanza vitale. Come teologo “moderno”, che tuttavia porta ancora in sé l’eredità della teologia liberale, io mi sento tenuto a mettere sul tappeto tali questioni». (da “Io e Dio”)
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One Response to Dietrich Bonhoeffer e la verità

  1. […] Gli Editoriali di Aladinews. I piromani, di Raniero La Valle. – Dietrich Bonhoeffer e la verità. VITO MANCUSO parla di DIETRICH BONHOEFFER. […]

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