Lavoro. Giovani e welfare, ciò che manca al sindacato
LE RAPPRESENTANZE. IL FUTURO
Il sindacato conta meno. Dovrebbe essere un attore del welfare, presente nelle periferie e tra la gente, che chiede di avere una condizione generale di vita migliore.
Intervista a BRUNO MANGHI sociologo / già direttore del Centro studi della Cisl, su Coscienza rivista del Meic, a cura di Andrea Michieli.
Giovani e welfare, ciò che manca al sindacato
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A vent’anni dalla riforma Treu, il lavoro è cambiato. La fabbrica, simbolo del lavoro nel Novecento, sembra essere sostituita dal computer, dal lavoro da casa, dalla tecnologia. Come sono cambiati il lavoro e il suo mercato con la “quarta rivoluzione industriale”?
«Abbiamo due tendenze contradditorie. La prima, massiccia, è quella secondo la quale i lavori si sono frammentati: specialmente nelle aree più sviluppate c’è stata una crescita straordinaria dei lavori autonomi di seconda generazione, legati al terziario ma anche all’industria. Questo ovviamente pone dei problemi notevoli di rappresentanza, nel senso che le esperienze associative – anche se all’inizio del sindacalismo tra Ottocento e Novecento avevano affrontato problemi simili – non erano più abituate a rappresentare lavoratori che popolavano densamente dei luoghi in maniera stabile: questo spiega come mai in Occidente il sindacalismo che tiene di più sotto il profilo numerico è il sindacalismo pubblico, perché nel comparto pubblico resta molto forte la densità del lavoro per categorie, per luoghi, per ministeri, per comuni, ecc. Invece, nel privato – sia quello terziario sia quello industriale – questo accorpamento del lavoro è più scarso. Tutto ciò pone ovunque problemi enormi sia di giustizia sia di rappresentanza: recentemente il governo polacco, pur non essendo noto per essere un governo particolarmente progressista, ha insediato una commissione per studiare come associare il lavoro autonomo e precario, perché in Polonia un terzo dei lavoratori sono autonomi o precari.
D’altra parte, in ciò che resta e si rinnova, nella manifattura e in alcuni settori del terziario, la tecnologia e la riorganizzazione del lavoro hanno consentito delle tappe forzate di “umanizzazione” del lavoro. L’industria 4.0, attraverso l’uso dei robot, delle tecnologie, dell’informatica e del lavoro in team, sta coinvolgendo i lavoratori in maniera molto più attiva che in passato. Questo nuovo lavoro ha superato o sta superando il paradigma taylorista: perciò noi abbiamo centinaia di aziende in Italia – per non parlare della Germania e della Francia – dove il lavoro in team, quello che si combina con l’utilizzo dei robot o con l’utilizzo dell’informatica, dà degli spazi di crescita professionale diffusi che erano impensabili quarant’anni fa. Ricapitolando, come dicevo, abbiamo due tendenze: una riguarda la zona del lavoro tradizionalmente rappresentabile, che si è ridotta e che il sindacalismo non sa come intercettare; l’altra non si è ridotta e in essa è in corso un miglioramento della qualità lavorativa».
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Ci sono, però, multinazionali che, sfruttando le nuove tecnologie, con investimenti ridotti e retribuzioni irrisorie per i lavoratori, forniscono servizi di cui tutti usufruiamo. Alcuni parlano di svilimento e umiliazione del lavoro, altri di strada ineludibile per l’innovazione..
«Nel panorama manifatturiero italiano, questo è un settore che avrà sicuramente un futuro molto problematico, però non è l’esperienza dominante. Ovviamente, questi tipi di aziende, che non necessariamente sono multinazionali, sfruttano le reti informatiche e utilizzano lavoro semiautonomo approfittano della disponibilità di giovani e meno giovani, istruiti e svegli, per fare i loro affari. In tale settore il problema è l’assenza di sicurezza di questi lavori e anche delle retribuzioni. Però, le cose più importanti che sono avvenute sono nel cuore della manifattura o nei grandi comparti del terziario: vero è che tutto questo fenomeno, che è largamente positivo, coinvolge non più del 20% del lavoro retribuito. Una considerazione a parte, invece, meritano il comparto pubblico, il lavoro autonomo e il cosiddetto lavoro “in frantumi”».
Su questa “frantumazione” del lavoro si inserisce una riflessione della legislazione del mercato del lavoro, a vent’anni dal primo Pacchetto Treu. Come giudica la legislazione di allora e gli effetti che ha prodotto in questi anni?
«La prima fase di quella legislazione è stata positiva, poiché ha razionalizzato delle cose che già avvenivano nella dimensione del lavoro nero: fondamentalmente, il lavoro a chiamata o interinale. Questo lavoro, a differenza di altre forme più nuove di lavoro, è molto normato e non ha una dimensione così vasta: il lavoro interinale effettivo si calcola sia tra il 2% e il 3% del complessivo. L’Italia è arrivata per ultima sulla regolamentazione di questo tipo di lavori. Questa è la prima fase dei pacchetti Treu,
che ha mirato a razionalizzare il lavoro che c’era e c’è per dargli una dignità normativa minima. La seconda fase, ispirata da Biagi, ha cercato di alleggerire i vincoli aziendali sul tema della cessazione del rapporto del lavoro, pensando che soltanto una riduzione di questi vincoli poteva favorire investimenti e il consolidarsi delle aziende. Questa seconda fase è ora in discussione. Personalmente, credo che si sia perso tanto tempo in dispute ideologiche. Oggi, a differenza di trent’anni fa, sappiamo tutto sul mercato del lavoro, abbiamo una mole di informazioni impensabile fino a qualche tempo fa. Siamo in grado quindi, in modo ragionevole, di dire che cosa funziona e
cosa no. È il caso dei voucher: l’abolizione è stata una cosa ridicola, perché i voucher hanno permesso di salvare i lavori a giornata di tanta gente. C’è stata però una dimensione patologica dello strumento in settori e luoghi dove non erano previsti. In Germania e altrove si è perseguita un’altra strada, quella dei mini-jobs, che sono legati al sistema pubblico locale. Questi mini-lavori – che hanno una diffusione notevole, specialmente nell’ex Germania dell’Est e che hanno dato lavoro a tante persone
che ne sarebbero state prive – comportano, però, un livello salariale molto modesto.
Per questo il sindacalismo tedesco è preoccupato: perché, pur essendo forte e rappresentativo, sta perdendo velocemente adesioni. È, infatti, rimasto concentrato sulle tradizionali fonti di lavoro. Su questi temi siamo in aperta campagna, abbiamo i dati e dobbiamo continuamente correggere gli strumenti: non fare “la grande riforma” e
poi rimanere su scontri retorici. Dobbiamo essere consapevoli che le riforme vanno riviste dopo qualche anno per gli effetti indesiderati che producono».
Se il lavoro è cambiato, mutato è anche il ruolo del sindacato. Le organizzazioni sindacali sembrano vittime di un processo di disintermediazione e protagoniste di una cattiva rappresentanza. Che tipo di rappresentanza di interessi possono ancora portare? Come rivitalizzare queste formazioni sociali che, in un certo periodo della storia italiana, erano centrali e ora hanno perso la loro capacità di influenza?
«Non bisogna ostinarsi con il periodo tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli Ottanta, poiché essi sono unici nella storia del sindacalismo. Periodi unici che ci sono stati, in decenni precedenti, in altri Paesi come l’Inghilterra o gli Stati Uniti. Noi non possiamo pensare che il prototipo del sindacato italiano sia quello di quegli anni o fissare quello americano alla fase tra il ’39 e il ’50 o, ancora, quello inglese al ’35. Il sindacato ha un secolo e mezzo di storia, ha attraversato fasi molto diverse: facciamo dunque piazza pulita degli stereotipi e lasciamo perdere il sindacato degli anni Settanta. Quella fu una situazione di emergenza, in cui il sindacato ha tratto molto potere e molta considerazione, ma è un unicum legato ad un certo modello di sviluppo e ad una certa espansione industriale. Il sindacato è una cosa più lunga e più vaga di quella che talvolta ci si raffigura. Il sindacato, in ogni caso, non scompare in nessun Paese dell’Occidente e probabilmente ha un futuro anche in Oriente. Peraltro in India, tre anni fa, c’è stato il più grande sciopero del mondo, perché i tre sindacati maggiori hanno dichiarato un sciopero contro il neoliberismo del governo. Uno sciopero che ha coinvolto centinaia di milioni di persone: notizie che passano sotto silenzio, ma sono di grande portata. In Cina c’è un dibattito straordinario se il sindacato ufficiale debba essere retto da sindacalisti nominati dal Partito oppure eletti dai lavoratori. Il sindacato non scompare, ma è anche vero che conta meno. Se ci aspettassimo la scomparsa dei sindacati, non avremmo capito il fenomeno: le associazioni sindacali resteranno, ma esse non saranno più le protagoniste che molti di noi vorremmo. Il loro deficit di rappresentanza rispetto al popolo del lavoro è evidente ed è molto difficile da superare, perché richiede un investimento ideale e organizzativo di straordinaria portata. I sindacati, invece, come tutte le grandi organizzazioni, tendono a restare su quello che hanno».
Questo porta a ragionare anche sul rapporto tra sindacati e giovani. I sindacati sembrano sempre più attenti alle esigenze di chi, entrato nel mondo del lavoro, ha già dei diritti: i giovani in larga parte rimangono esclusi. Questi ultimi possono realmente trovare garanzia per la rappresentanza dei propri
interessi nei sindacati?
«I sindacati sono sempre stati attenti a quelli che li sostengono e li pagano: è sempre stato così, salvo nei momenti di espansione. Nella storia ci sono dei momenti di cambiamento come nel caso del sindacalismo inglese di fine Ottocento e inizio Novecento: di fronte alla sfida dei manovali inglesi dei porti ci fu la grande prima frattura sindacale, che portò al New Unionism. Il sindacato ha una rappresentatività piuttosto modesta e sbilanciata negativamente verso i giovani, perché essi trovano più facilmente lavoro in luoghi in cui il sindacato non c’è o c’è poco. Quando il giovane entra in un luogo di lavoro dove il sindacato c’è, i giovani si iscrivono, né più né meno, come gli anziani. I nostri giovani, poiché sono lavoratori autonomi di seconda generazione o precari, non incontrano il sindacato e il sindacato fa poco per incontrarli. Anche perché nell’epoca dei social l’associazionismo probabilmente dovrebbe muoversi su una chiamata personalizzata e non sulle solite assemblee. Questo lo stanno sperimentando alcune sigle negli Stati Uniti. Spesso accade, invece, che il sindacato – come tutte le organizzazioni del mondo – tenda a conservare quello che ha, pur essendoci in Italia un livello di rappresentatività superiore alla media europea. Poi c’è un problema molto serio di finalità del sindacato: noi siamo stati abituati ad un sindacato rivendicativo, che chiedeva, giustamente, il conto alle controparti e che migliorava, quando riusciva, la condizioni di milioni di persone. Oggi, invece, la sfida col padronato è molto meno significativa, poiché sia i sindacati sia il padronato hanno di fronte il capitale finanziario che decide: in questo senso si apre uno spazio di collaborazione tra sindacati e padronato che un tempo non c’era e che potrebbe essere alla base delle riorganizzazioni dell’industria 4.0. Il sindacato, inoltre, dovrebbe puntare non solo sulla tariffa salariale o sulla regolazione dell’orario, ma dovrebbe puntare sul welfare. Dovrebbe riprendere quella frattura che si provocò all’inizio del Novecento, quando il mutualismo andò per una strada e il sindacato dall’altra. Il sindacato dovrebbe essere un attore del welfare, dovrebbe essere presente nelle periferie e tra la gente: questo lo fa, parzialmente, solo il sindacalismo dei pensionati. Il sindacato, invece, rimane concentrato solo sul fronte delle relazioni industriali, mentre i bisogni della gente sono di
altra natura, non confinati all’avere l’1% in più o meno di salario, ma una condizione generale di vita migliore. In questo senso, gli ultimi grandi contratti – quello dei meccanici, degli alimentaristi e del pubblico impiego – aprono la contrattazione a queste nuove esperienze di welfare di cui verificheremo gli esiti». ✔
Andrea Michieli
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