IL LAVORO CHE VOGLIAMO: LIBERO, CREATIVO, PARTECIPATIVO E SOLIDALE
Come Aladinews siamo da sempre impegnati sulla tematica del lavoro. Nella contingenza abbiamo due scadenze a cui ci riferiamo per contribuire a dare un nostro specifico contributo: la prima riguarda il Convegno “Lavorare meno Lavorare tutti” (per ora è questo il titolo), organizzato dal Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale Statutaria, attraverso un apposito Gruppo di Lavoro, che si terrà nei giorni di venerdì 22 (sera) e sabato 23 (mattina e sera) settembre; la seconda riguarda la 48a Settimana dei Cattolici italiani, che si terrà a Cagliari nei giorni dal 27 al 29 ottobre p.v., con un titolo altrettanto suggestivo, suggerito dalla stesso papa Francesco “Il lavoro che vogliano libero, creativo, partecipativo e solidale”. Il nostro impegno si concretizza nel fornire documentazione di supporto alle tematiche del lavoro, prodotta direttamente dai nostri redattori/collaboratori o ripresa da riviste (cartacee e online) che riteniamo utile a chiarificare i termini del dibattito e diffondere buone pratiche che aiutino a farci percorrere nuove (o anche vecchie purché buone) strade per rafforzare il lavoro esistente e crearne di nuovo. Ancora, sarà nostra cura segnalare tutte le occasioni di incontro sulle tematiche del lavoro che possono essere considerate tappe di un “percorso di avvicinamento” ai due citati appuntamenti di rilievo. Periodicamente riassumeremo il dibattito in atto ripubblicando i diversi contributi, magari accompagnati da ulteriori riflessioni e commenti. Di seguito pubblichiamo i contributi di Roberta Carlini e Stefano Zamagni, apparsi nell’ultimo numero della pregevole rivista Rocca, della Pro Civitate Christiana, ringraziando il comitato redazionale della stessa per averci concesso tale opportunità.
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Lavoro
e non assistenza
di Roberta Carlini su LAVORO, ROCCA 15 GIUGNO 2017
Bisogna guardare senza paura, ma con responsabilità, alle trasformazioni tecnologiche dell’economia e della vita e non rassegnarsi all’ideologia che sta prendendo piede ovunque, che immagina un mondo dove solo metà o forse due terzi dei lavoratori lavoreranno, e gli altri saranno mantenuti da un assegno sociale. Dev’essere chiaro che l’obiettivo vero da raggiungere non è il ‘reddito per tutti’, ma il ‘lavoro per tutti’! Perché senza lavoro, senza lavoro per tutti non ci sarà dignità per tutti. Il lavoro di oggi e di domani sarà diverso, forse molto diverso – pensiamo alla rivoluzione industriale, c’è stato un cambio; anche qui ci sarà una rivoluzione – sarà diverso dal lavoro di ieri, ma dovrà essere lavoro, non pensione, non pensionati: lavoro».
reddito di cittadinanza
Nella sua visita pastorale a Genova, rispondendo all’intervento di Micaela, una rappresentante sindacale, papa Bergoglio ha avuto parole chiarissime sulla questione lavoro/reddito, che hanno portato a titoli altrettanti chiari sui giornali, il cui senso era: Francesco si schiera contro il reddito di cittadinanza, bisogna dare lavoro non assistenza.
Per una volta, i titolisti dei giornali avevano ragione, il messaggio del testo, a leggerlo tutto, è proprio quello anche se non solo quello: altrettanto peso ha la condanna degli imprenditori-speculatori – i prenditori, diceva qualcuno – e l’imposizione di lavoro a qualsiasi condizione e con qualsiasi paga (quando il lavoro, dice il papa con felice espressione, da riscatto morale diventa ricatto morale).
Ma ha avuto torto chi ha ridotto questa questione a un intervento diretto nel dibattito politico italiano – in particolare, contro il Movimento Cinque Stelle che solo pochi giorni prima aveva fatto la sua marcia per propugnare il reddito di cittadinanza. Il riferimento di certo c’è, se non altro perché la marcia è stata fatta simbolicamente da Assisi a Perugia; ma di certo non esaurisce la questione, ben più ampia e discussa in tutto il mondo, da San Francisco a New Delhi; né aiuta a capirla bene, considerando la grande confusione che lo stesso M5S fa sui termini e sui simboli che propone.
Partiamo da questi ultimi. La proposta di legge che il movimento di Grillo ha presentato in parlamento, anche se è intitolata alla «istituzione di un salario di cittadinanza», non istituirebbe, se approvata, un reddito di cittadinanza. È un assegno mensile, che sarebbe dato dal governo a famiglie in condizioni di povertà, a condizione che accetti un «percorso di accompagnamento all’inserimento lavorativo», cioè accetti il lavoro che gli propongono i Centri per l’impiego o gli obblighi di formazione, qualificazione, o altri che nello stesso percorso siano individuati.
Lo schema è lo stesso che ispira il «reddito di inserimento» nel programma anti-povertà del governo, che entrerà in vigore quest’anno, e che ispira tutte le politiche europee dalla Thatcher in poi, nonché le raccomandazioni di Bruxelles: nessun red- dito a chi non mostri e dimostri di voler lavorare, se può farlo. L’unica differenza, nel piano dei Cinque Stelle, è nell’entità: un reddito e una copertura un po’ più alte di quelle previste dal piano governativo, che – dati i fondi limitati – coprirà solo 400mila famiglie (mentre quelle in povertà assoluta sono circa 1 milione e 600mila). Lo schema di reddito di cittadinanza, invece, ha varie formule proposte ma tutte si basano su alcuni principi che non ci sono in nessuna delle proposte sul tappe- to in Italia: che il reddito sia universale – dato a tutti –, e che non sia condizionato né dal trovarsi sotto una certa soglia di povertà né dalla disponibilità ad accettare un lavoro. Se ne è parlato in altri numeri di Rocca (n. 6 e n. 10): può piacere o non piacere, ma il reddito di cittadinanza va anche al «surfista di Malibu», che passa la sua giornata ad aspettare le onde buone; e serve come un pavimento, uguale per tutti, dal quale ciascuno può decidere, in base alle proprie volontà e possibilità, di quanto alzarsi.
lavoro e fatto sociale
Questa precisazione va tenuta presente, non solo per demistificare la solita propaganda che c’è in tutte le vicende politiche italiane, ma anche per entrare nel merito della discussione, ed evidenziare gli ostacoli, le trappole e le nuove mistificazioni che vengono fuori quando si passa a elencare, praticamente, i metodi per incentivare, sostenere, «creare» lavoro anziché limitarsi a distribuire reddito. Alla base dell’alternativa tra chi mette al centro della sua politica il lavoro e chi sceglie il reddito c’è infatti una diversa filosofia, concezione del mondo, etica; ma nell’attuazione pratica delle politiche per perseguire l’obiettivo, poi, le posizioni possono essere meno lontane di quanto non appaiano in partenza.
La visione da cui parte il discorso di papa Bergoglio è chiarissima e, come lui stesso ha detto, scritta nella dottrina sociale della Chiesa, che «ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori». Il papa ha continuato così: «Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che si sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro, e per questo non è facile riconoscerlo come nemico, perché si presenta come una persona di casa, anche quando ci colpisce e ci ferisce. Gli uomini e le donne si nutrono del lavoro: con il lavoro sono «unti di dignità». Per questa ragione, attorno al lavoro si edifica l’intero patto sociale».
il lavoro creato e non redistribuito
Ma se attorno al lavoro si edifica «l’intero patto sociale» – lo stesso principio posto alla base della nostra Repubblica, con l’articolo 1 della Costituzione – che fare se la quantità di lavoro che il nostro sistema economico richiede non è sufficiente perché tutti ne abbiano? Non stiamo qui parlando della disoccupazione creata dalle oscillazioni del mercato e della produzione, dall’instabilità del capitalismo e dalle sue ricorrenti crisi; ma della disoccupazione tecnologica, delle innovazioni portate dalle macchine che innescano giganteschi processi di cambiamento, rendendo possibile la stessa produzione con quantità di lavoro molto minore. Questo è il tema, affrontato da almeno un secolo (testo base in proposito, Possibilità economiche per i nostri nipoti nel quale Keynes auspicava e ottimisticamente prevedeva la liberazione dell’umanità dalla necessità del lavoro) e non taciuto dal discorso del papa, che però dice: la rivoluzione tecnologica non può cambiare la nostra concezione del lavoro come elemento fondante del patto di cittadinanza. Non può costringerci ad accettare una società in cui due terzi, o anche solo la metà, della popolazione lavorino, gli altri siano «pensionati» già da giovani. Né – attenzione – ad accettare il fatto che dobbiamo limitarci a redistribuire il poco lavoro che c’è: il lavoro va creato, non redistribuito.
riscatto e non ricatto
La critica che la dottrina di questo papa, ribadita a Genova, fa al reddito di cittadinanza, è la stessa che viene dalla parte «laburista» della sinistra e dal sindacato: da chi vede il reddito di cittadinanza come una «toppa», o una stampella a un sistema che non funziona più. I fautori del reddito di cittadinanza – quello puro, non la versione sloganistica del nostro Grillo pseudofrancescano – ribattono dicendo che se il lavoro nobilita l’uomo, non è sottoponendolo al ricatto «o lavori o muori di fame» che questo principio si omaggia; e che dando a tutti un sostegno di base per poter vivere, si sottraggono i più marginali dal ricatto di un mercato del lavoro che li impiega a qualsiasi prezzo e a qualsiasi condizione (dunque rimettendoli in condizione di vivere il lavoro come riscatto e non come ricatto); oltre a onorare un altro principio che potrebbe essere caro anche alla dottrina sociale della Chiesa, quello della eguaglianza, tra chi ha di più e chi ha di meno: su quest’ultimo obiettivo insiste il grande economista Tony Atkinson, nel suo ultimo libro Disuguaglianza, nel quale propone un «reddito di partecipazione», laddove la partecipazione in varie forme alla vita civile sostituisce l’obbligo del «lavoro» sul mercato.
Nell’attuazione pratica, il reddito di cittadinanza ha immensi problemi, a partire dalla grande redistribuzione di risorse che bisognerebbe mettere in campo. Ma ne ha anche la politica per cui si dà reddito – e aiuto ai più poveri, che spesso sono anche persone che lavorano ma a salari molto bassi – solo a chi è disponibile a lavorare: la macchina burocratica necessaria per verificare questa disponibilità e attuare l’inserimento nel mondo del lavoro è gigantesca e spesso inutile, tanto più se, fuori, il lavoro non c’è. Di qui la necessità di non limitarsi a guardare solo alle politiche per i lavoratori (effettivi e potenziali) ma anche a quelle per il lavoro, non consegnando a un’impersonale «tecnologia» le chiavi del futuro. Il cammino di questa discussione è appena cominciato.
Roberta Carlini
Bibliografia
Il discorso del santo Padre, Genova, stabilimento Ilva. J. M. Keynes, Possibilità economiche per i nostri nipoti (1931, trad. it. Adelphi 2009).
Elena Granaglia – Magda Bolzoni, Il reddito di base (Ediesse, 2016).
Stefano Massini, Lavoro (Il Mulino, 2016). Stefano Toso, Reddito di cittadinanza (o reddito minimo?) (Il Mulino, 2016).
Philippe Van Parijs – Yannick Vanderborght,
Basic Income. A radical proposal for a free society and a sane economy (Harvard University Press, 2017).
Rutger Bregman, Utopia for realists (Bloom- sburt, 2017).
Anthony Atkinson, Disuguaglianza. Cosa si può fare (Cortina 2015)
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Lavoro è dignità e libertà

di Stefano Zamagni, su LAVORO, ROCCA 15 GIUGNO 2017
I limiti dell’attuale cultura del lavoro sono ormai divenuti evidenti ai più, anche se non c’è convergenza di vedute sulla via da percorrere per giungere al loro superamento. La via che l’economia civile – un paradigma economico che si afferma nel 18° secolo durante l’Illuminismo Napoletano (A. Genovesi e altri) e Milanese (P. Verri e altri) – suggerisce inizia dalla presa d’atto che il lavoro, prima ancora che un diritto, è un bisogno insopprimibile della persona. È il bisogno che l’uomo avverte di trasformare la realtà di cui è parte e, così agendo, di edificare se stesso. Riconoscere che quello del lavoro è un bisogno fondamentale è un’affermazione assai più forte che dire che esso è un diritto. E ciò per la semplice ragione che, come la storia insegna, i diritti possono essere sospesi o addirittura negati; i bisogni, se fondamentali, no. È noto, infatti, che non sempre i bisogni possono essere espressi direttamente in forma di diritti politici o sociali. Bisogni come fraternità, amore, dignità, senso di appartenenza, non possono essere rivendicati come diritti. Piuttosto, essi sono espressi come pre-requisiti di ogni ordine sociale.
la cifra morale del lavoro
Per cogliere il significato del lavoro come bisogno umano fondamentale ci si può riferire alla riflessione classica, da Aristotele a Tommaso d’Aquino, sull’agire umano. Due le forme di attività umana che tale pensiero distingue: l’azione transitiva e l’azione immanente. Mentre la prima connota un agire che produce qualcosa al di fuori di chi agisce, la seconda fa riferimento ad un agire che ha il suo termine ultimo nel soggetto stesso che agisce. In altro modo, il primo cambia la realtà in cui l’agente vive; il secondo cambia l’agente stesso. Ora, poiché nell’uomo non esiste un’attività talmente transitiva da non essere anche sempre immanente, ne deriva che la persona ha la priorità nei confronti del suo agire e quindi del suo lavoro. Duplice la conseguenza che discende dall’accoglimento del principio-persona.
La prima conseguenza è bene resa dall’affermazione degli Scolastici «operari sequitur esse»: è la persona a decidere circa il suo operare; quanto a dire che l’au- togenerazione è frutto dell’auto-determinazione della persona. Quando l’agire non è più sperimentato da chi lo compie come propria autodeterminazione e quindi propria autorealizzazione, esso cessa di essere umano. Quando il lavoro non è più espressivo della persona, perché non comprende più il senso di ciò che sta facendo, il lavoro diventa schiavitù. L’agire diventa sempre più transitivo e la persona può essere sostituita con una macchina quando ciò risultasse più vantaggioso. Ma in ogni opera umana non si può separare ciò che essa significa e ciò che essa produce.
La seconda conseguenza cui sopra accennavo chiama in causa la nozione di giustizia del lavoro. Il lavoro giusto non è solamente quello che assicura una remunerazione equa a chi lo ha svolto, ma anche quello che corrisponde al bisogno di autorealizzazione della persona che agisce e perciò che è in grado di dare pieno sviluppo alle sue capacità. In quanto attività basicamente trasformativa, il lavoro interviene sia sulla persona sia sulla società; cioè sia sul soggetto sia sul suo oggetto. Questi due esiti, che scaturiscono in modo congiunto dall’attività lavorativa, definiscono la cifra morale del lavoro. Proprio perché il lavoro è trasformativo della persona, il processo attraverso il quale vengono prodotti beni e servizi acquista valenza morale, non è qualcosa di assiologicamente neutrale. In altri termini, il luogo di lavoro non è semplicemente il luogo in cui certi input vengono trasformati, secondo certe regole, in output; ma è anche il luogo in cui si forma (o si trasforma) il carattere del lavoratore.
la deriva «escludente»
Da quanto precede si trae che un primo grande fronte di impegno è quello di battersi per arrestare la deriva «escludente» dell’attuale assetto economico e sociale. Si deve ricordare che il mercato da istituzione economica tendenzialmente inclusiva si è andato trasformando, nel corso dell’ultimo quarantennio, sull’onda della globalizzazione e della terza e quarta rivoluzione industriale, in istituzione che tende a escludere tutti coloro che non sono in grado di assicurare livelli elevati di produttività. È così che si è andata formando una nuova classe sociale, quella delle per- sone in eccesso che Papa Francesco op- portunamente chiama «scarti umani». Ieri, all’epoca della Rerum novarum, si reclamava «la giusta mercede all’operaio». Oggi, ci si deve piuttosto chiedere perché non si è dato ascolto a quanto si legge in Gaudium et spes 67: «Occorre dunque adattare tutto il processo produttivo alle esigenze della persona e alle sue forme di vita».
Infatti, il lavoro non è un mero fattore della produzione che deve adattarsi, anzi adeguarsi alle esigenze del processo produttivo per accrescere l’efficienza del sistema. Al contrario, è il processo produttivo che deve essere modellato in modo da consentire alle persone la loro fioritura umana e, in particolare, in modo da rendere possibile l’armonizzazione dei tempi di vita familiare e del lavoro. Dicevano i Francescani, già nel XVI secolo: «L’elemosina aiuta a sopravvivere, ma non a vivere, perché vivere è produrre e l’elemosina non aiuta a produrre». Come a dire che tutti devono poter lavorare, anche i meno dotati. Ebbene, sapere che, nelle condizioni odierne, sarebbe tecnicamente possibile attuare il comando di San Francesco («Voglio che tutti lavorino») e non farlo ci carica di una grave responsabilità. Non possiamo tenere tra loro disgiunti il codice dell’efficienza e il codice della fraternità, come tanti cattivi maestri vanno insegnando. (Si rammenti che la fraternità comprende la solidarietà; mentre il viceversa non è vero).
fraternità solidarietà diversità
Infatti, mentre quello di solidarietà è il principio di organizzazione sociale che tende a rendere eguali i diversi, il principio di fraternità consente a persone che sono già eguali sul fronte dei diritti di esprimere la propria diversità, di affermare così la propria identità. (È per questo che la vita fraterna è la vita che rende felici).
Quel che precede ci consente ora di afferrare la portata della grande sfida che è di fronte a noi: come realizzare le con- dizioni per una autentica libertà del lavoro, intesa come possibilità concreta che il lavoratore ha di realizzare non solo la dimensione acquisitiva del lavoro – la dimensione che consente di entrare in possesso del potere d’acquisto con cui soddisfare i bisogni materiali – ma anche la sua dimensione espressiva. Dove risiede la difficoltà di una tale sfida? Nella circostanza che le nostre democrazie liberali mentre sono riuscite a realizzare (tanto o poco) le condizioni per la libertà nel lavoro – grazie alle lunghe lotte del movimento operaio e sindacale – paiono impotenti quando devono muovere passi verso la libertà del lavoro. La ragione è presto detta. Si tratta della tensione fondamentale tra la libertà dell’individuo di definire la propria concezione della vita buona e l’impossibilità per le democrazie liberali di dichiararsi neutrali tra modi di vita che contribuiscono a produrre e quelli che non vi contribuiscono. In altri termini, una democrazia liberale non può accettare che qualcuno, per vedere affermata la propria visione del mondo, possa vivere sul lavoro di altri. La tensione origina dalla circostanza che non tutti i tipi di lavoro sono accessibili a tutti e pertanto non c’è modo di garantire la congruità tra un lavoro che genera valore sociale e un lavoro che interpreti la concezione di vita buona delle persone.
libertà del lavoro
La riforma protestante per prima ha sollevato la questione della libertà del lavoro. Nella teologia luterana, la cacciata dall’Eden non coincide tanto con la condanna dell’uomo alla fatica e alla pena del lavoro, quanto piuttosto con la perdita della libertà del lavoro. Prima della caduta, infatti, Adamo ed Eva lavoravano, ma le loro attività erano svolte in assoluta libertà, con l’unico scopo di piacere a Dio. Che le condizioni storiche attuali siano ancora alquanto lontane dal poter consentire di rendere fruibile il diritto alla libertà del lavoro è cosa a tutti nota. Tuttavia ciò non può dispensarci dalla ricerca di strategie credibili di avvicinamento a quell’obiettivo. Ebbene, la proposta di A. Macintyre di concettualizzare il lavoro come opera è quella che appare come la più realisticamente praticabile. Un’attività lavorativa si qualifica come opera quando riesce a far emergere la motivazione intrinseca della persona che la compie. Estrinseca è la motivazione che induce ad agire per il risultato finale che l’agente ne trae (ad esempio, per la remunerazione ottenuta). Intrinseca, invece, è la motivazione che spinge all’azione per la soddisfazione diretta che essa arreca al soggetto quando questi percepisce che essa è orientata al bene. A questo deve mirare, fra le altre cose, una etica civile condivisa, quale è quella cui il cooperativismo ha sempre mirato fin dai suoi albori.
la disoccupazione e i suoi risvolti
Il «Global Employment Trend» dell’Ilo (International Labour Office delle Nazioni Unite) ci informa che il divario occupazionale – la perdita cumulata di posti di lavoro – rispetto alla situazione prevalente prima della crisi del 2007-8 è destinato a crescere: da 62 milioni nel 2013 a 81 milioni nel 2018. Anche il tasso di disoccupazione non si ridurrà, ciò che provocherà un ulteriore aumento del numero assoluto di disoccupati. Sono quelli europei i paesi che più stanno risentendo della transizione tecnologica oggi in atto. La disoccupazione ha già superato in Europa la soglia dei 27 milioni di persone e di queste il 40 per cento circa è rappresentato da disoccupati di lungo termine (oltre i 12 mesi). La situazione è ulteriormente aggravata dalla comparsa della nuova figura dei Neet («not in education, employment or training»), dei giovani cioè di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non studiano, non lavorano e non sono in apprendistato. Come indica A. Rosina (Neet, Vita e Pensiero, Milano 2015), i giovani italiani che vivono tale condizione esistenziale sono oltre 2,4 milioni, pari a circa il 26% della popolazione giovanile in questa fascia di età. (Nel Mezzogiorno, la medesima percentuale arriva al 54%!). Il dato dei Neet è di speciale interesse perché, a differenza del tasso di disoccupazione giovanile esso prende in considerazione anche i giovani che non cercano più lavoro, in quanto scoraggiati. Il tasso dei Neet è, pertanto, l’indicatore che meglio di altri dà conto dello spreco umano, del sottoutilizzo del potenziale giovanile e, in conseguenza di ciò, della vasta diffusione tra la popolazione giovanile della diffidenza, oltre che della paura, nei riguardi del futuro.
diversi modelli di sviluppo
Sappiamo, infatti, che l’estromissione dall’attività lavorativa per lunghi periodi di tempo non solamente è causa di una perdita di produzione, ma costituisce un vero e proprio razionamento della libertà. Il disoccupato di lungo termine patisce una sofferenza che nulla ha a che vedere con il minor potere d’acquisto, ma con la perdita della stima di sé e soprattutto con l’autonomia personale. Ecco perché non è lecito porre sullo stesso piano la disponibilità di un reddito da lavoro e l’acquisizione di un reddito da trasferimenti, sia pure di eguale ammontare: è la dignità della persona a fare la differenza. Non solo, ma la fuoriuscita dal lavoro tende a generare gravi perdite di abilità cognitive nella persona, dato che, se è vero che «facendo si impara», ancor più vero è che «si disimpara non facendo». (Per una puntuale e aggiornata indagine empirica si veda J. Sachs et Al., Robots: curse or blessing? A basic framework, Nber, 21091, April, 2015). In un’epoca come l’attuale, caratterizzata dal fenomeno della terza rivoluzione industriale, la relazione tra capacità tecnologiche e attività lavorative è biunivoca: nel processo di lavoro non solo si applicano le conoscenze già acquisite, ma si materializza la possibilità di creare ulteriori capacità tecnologiche. Ecco perché tenere a lungo fuori dell’attività lavorativa una persona significa negarle – come ha scritto Amartya Sen – la sua fecondità. Poiché è attraverso il lavoro che l’essere umano impara a conoscere se stesso e a realizzare il proprio piano di vita, la buona società in cui vivere è allora quella che non umilia i suoi componenti, distribuendo loro assegni o provvidenze varie e, negando al tempo stesso l’accesso all’attività lavorativa. (Cfr. E. Olivieri, «Il cambiamento delle opportunità lavorative», Banca d’Italia, 117, 2012).
Bastano questi brevi cenni a farci comprendere perché, quando si parla di lavoro, si tende oggi a porre l’accento, su quello che occorre fare per porre rimedio alla situazione. La letteratura sulle politiche occupazionali è ormai schierata: si va dalle proposte volte a migliorare la qualità dei posti di lavoro, con interventi sul lato della domanda di lavoro, a proposte che incidono sul lato dell’offerta di lavoro allo scopo di ridurre lo «skills gap» con misure che chiamano in causa il comparto scuola-università-addestramento professionale. E ancora, vi sono coloro che propongono di favorire l’occupazione rispetto all’assistenza (make work pay) e coloro che invece suggeriscono di facilitare la transizione dalla disoccupazione assistita all’occupabilità (welfare to work) mediante l’aumento della flessibilità della prestazione, da non confondersi con la flessibilità dell’occupazione. (Per una rassegna, rinvio a I. Fellini, «Una via bassa alla decrescita dell’occupazione», Stato e Mercato, 105, 2015).
per non rassegnarsi
Questi e tanti altri contributi contengono tutti grumi di verità e suggerimenti preziosi per l’azione. Tuttavia, non pare emergere da questa vasta letteratura la consapevolezza che quella del lavoro è questione che, in quanto ha a che vedere con la libertà sostanziale dell’uomo, non può essere affrontata restando entro l’orizzonte del solo mercato del lavoro. Quel che occorre mettere in discussione è l’intero modello di ordine sociale, vale a dire l’assetto istituzionale della società, per verificare se non è per caso a tale livello che è urgente intervenire. Invero, pur non costituendo un fenomeno nuovo nella storia delle economie di mercato, l’insufficienza di lavoro ha assunto oggi forme e caratteri affatto nuovi. La dimensione quantitativa del problema occupazionale, oltre che la sua persistenza nel tempo, fanno piuttosto pensare a cause di natura strutturale, cioè non congiunturale, connesse all’attuale passaggio d’epoca, quello dalla società fordista alla società post-fordista. Sessant’anni fa, J.M. Keynes giudicava la disoccupazione di massa in una società ricca una vergognosa assurdità, che era possibile eliminare. Oggi, le nostre economie sono oltre tre volte più ricche rispetto ad allora. Keynes avrebbe dunque ragione di giudicare la disoccupazione attuale tre volte più assurda e pericolosa, perché in società tre volte più ricche, l’ineguaglianza e l’esclusione sociale che la disoccupazio- ne provoca è almeno tre volte più devastante. C’è allora da chiedersi se invece di affrontare la questione a spizzichi, accumulando suggerimenti e misure di vario tipo, tutte in sé valide ma ben al di sotto della necessità, non sia giunto il momento di riflettere su taluni tratti salienti dell’attuale modello di sviluppo per ricavarne linee di intervento meno rassegnate e incerte.
Un punto deve, in ogni caso, essere tenuto fermo: il lavoro si crea, non si redistribuisce. Occorre andare oltre la obsoleta concezione «petrolifera» del lavoro, secondo cui il lavoro è pensato alla maniera di un giacimento da cui estrarre posti di lavoro. La creazione di nuovo lavoro ha bisogno di persone, di relazioni tra le stesse, di significati. Ciò è oggi concretamente possibile a condizione che lo si voglia e che ci si liberi dalle tante forme di pigrizia intellettuale e di irresponsabilità politica.
Stefano Zamagni
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Ulteriori approfondimenti.
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