Il dibattito sulla legge elettorale in Sardegna.
Il dibattito sulla legge elettorale in Sardegna. Note a margine.
di Tonino Dessì, su fb.
Il tema di una nuova legge elettorale per le prossime elezioni regionali non figura al momento tra le priorità dell’agenda istituzionale nella sede che ne custodisce la più gelosa prerogativa.
Ad onta delle sollecitazioni della Presidenza del Consiglio regionale e con l’eccezione della pressione esercitata da una parte del mondo politico femminile per ottenere da subito la sanzione del principio della doppia preferenza di genere, è prevedibile che un confronto concludente sulla questione non si aprirà se non dopo le elezioni politiche italiane.
A quel punto la problematica non sarà più determinata dai dati elettorali della precedente tornata regionale, fondamentalmente caratterizzati dall’esclusione di due raggruppamenti elettorali della consistenza di oltre 100.000 voti, dall’alterazione abnorme dei rapporti di proporzionalità tra consensi e assegnazione dei seggi, conseguente all’appartenenza dei singoli partiti, rispettivamente, alla coalizione raccolta intorno al presidente vincente e a quella perdente in un contesto forzosamente bipolare, dalla risibile rappresentanza femminile.
La questione sarà, piuttosto, condizionata dall’evoluzione dei rapporti tra le forze politiche nel nuovo scenario italiano e regionale.
Le rappresentanze che costituirono l’attuale maggioranza di centro-sinistra-sovranista alla Regione faranno in questo nuovo contesto i conti con se stesse e tra loro.
Già oggi, per esempio, non sono più corrispondenti a quelle originarie.
Il PD ha subito una scissione, come peraltro SEL in contrasto con la confluenza nazionale in SI; i Rossomori sono usciti, con perdite, dalla maggioranza e così pure, con perdite ancora maggiori, la piccola coalizione PRC-PCd’I.
A sinistra del PD vi sarà una competizione oppure il coagularsi di una strategia unitaria fra il Campo Progressista di Pisapia, la formazione dei d’alemiani-bersaniani, quella, al momento più residuale, di SI.
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Discriminante per loro e fra loro sarà il rapporto col PD, che determinerà le possibilità di aggregazione o di competizione tra piccoli soggetti che tuttavia i sondaggi elettorali danno oggi, se considerati singolarmente, sotto la soglia del 3 per cento. Nemmeno è scontato che saranno sopravvissuti tutti alle elezioni politiche.
All’opposizione di centrodestra la situazione sembra meno complessa, ma FI e i suoi alleati regionali dovranno fare i conti con gli effetti della propria ristrutturazione e ricollocazione nell’attuale transizione, cui non saranno estranei a livello regionale gli influssi dei rapporti a livello italiano tra il Partito di Renzi e il Partito di Berlusconi.
Entrerà pienamente in campo elettoralmente il M5S, autoesclusosi alle precedenti regionali.
Qualche aggregazione di non infima consistenza presumibilmente raccoglierà inoltre le tendenze indipendentiste.
Peraltro non è dato prevedere come quest’area politico-culturale si ripartirà elettoralmente tra i vari soggetti esterni all’attuale rappresentanza consiliare, il Ps’d'Az collocato attualmente all’opposizione, i Rossomori fuoriusciti, ma gravati da una non breve partecipazione satellitare alla maggioranza e il Partito dei Sardi, attualmente satellite principale della coalizione regionale imperniata pur sempre sul PD.
A oggi, immaginare come evolverà lo scenario è molto difficile.
Una pulsione latamente conservativa dell’impianto elettorale vigente sembra tuttora presente nell’Assemblea legislativa, sia pure accompagnata da tendenze emendative, volte da un lato a eliminare la modulazione di soglie di sbarramento i cui effetti non previsti hanno portato persino a modificazioni successive della composizione del Consiglio (e financo della rappresentanza dei territori) determinate da pronunzie giurisdizionali, dall’altro (forse) a introdurre correttivi di genere e da ultimo, ancora, potendo, a garantire il rispecchiamento dei rapporti di forza tra componenti interne ad almeno uno dei maggiori partiti, il PD.
Tuttavia credo che neanche l’attuale Consiglio regionale potrà -sarebbe davvero scandaloso e, dopo l’impronta che l’esito del referendum costituzionale ha determinato anche ai fini dell’esame di costituzionalità delle leggi elettorali, estremamente rischioso- mantenere l’impianto “sistemico” dell’attuale legge elettorale sarda, interamente centrato su un bipolarismo coattivo, spinto all’estrema conseguenza di negare l’accesso all’Assemblea ad una quota rilevante
della rappresentanza del voto espresso e a soggetti politici dotati di consensi oggettivamente consistenti.
Concordo perciò sul fatto che occorrerebbe sviluppare un’iniziativa esterna estremamente decisa per spezzare anzitutto questo modello abnorme di meccanismo elettorale.
Da questo punto di vista, il ripristino di un’impostazione proporzionalista sembrerebbe porsi come ineludibile.
Naturalmente anche un sistema ispirato al criterio del maggiore rispecchiamento possibile dell’articolazione del voto popolare nell’Assemblea rappresentativa regionale non potrebbe non fare i conti con ulteriori esigenze, che non sono affatto in contraddizione con questo criterio, ma ne sono un’estensione.
La rappresentanza politica in un sistema democratico rappresentativo, intanto, dev’essere il più possibile rappresentanza di interessi generali. Un sistema che riproducesse e addirittura incentivasse la frammentazione molecolare degli interessi indirizzerebbe più verso una democrazia corporativa che verso una democrazia rappresentativa. In conseguenza di ciò non esistono al mondo leggi elettorali basate su un metodo di ripartizione della rappresentanza puramente proporzionale.
In secondo luogo, le Assemblee rappresentative sono anche organi di legislazione. Le leggi dovrebbero essere il più generali e astratte possibili, non rispecchiare singoli interessi settoriali, nè pretendere di sommarli tutti indistintamente.
In terzo luogo la funzione delle Assemblee dev’essere raccordata con la funzione di governo. Un sistema nel quale funzione assembleare e funzione di governo entrino in dissonanza tende al malfunzionamento, talchè anche nei sistemi presidenziali o semipresidenziali, in cui parlamenti ed esecutivi hanno fonti di legittimazione elettorale distinte, esistono meccanismi che tendono (o che comunque consentono di pervenire) alla realizzazione o al ripristino di tale consonanza.
Questi problemi sono stati affrontati in Sardegna già negli anni ’90, quando il vincolo proporzionale della rappresentanza consiliare era contenuto in Statuto, con leggi elettorali che nel 1994 e nel 1999 introdussero l’indicazione da parte delle coalizioni dei propri candidati alla Presidenza e produssero ben due esperimenti di secondo turno di ballottaggio nel caso che nessun Presidente avesse conseguito la maggioranza dei consensi al primo turno: un ballottaggio fra i primi tre con la legge elettorale che regolò le elezioni del 1994 e un ballottaggio fra i primi due nella legge elettorale che regoló le elezioni del 1999.
La competenza all’elezione del Presidente restava al Consiglio, ma sulla base di un’indicazione che preventivamente le coalizioni avevano sottoposto al vaglio degli elettori.
Il premio che era stato introdotto per incentivare le coalizioni (la maggioranza dei seggi assegnati alla lista regionale in cui il Presidente figurava come capolista) correggeva il risultato proporzionale dei seggi assegnati nei collegi territoriali ai singoli partiti (per quanto anch’essi collegati regionalmente in coalizione), ma in misura tale da non far ritenere incostituzionalmente (in contrasto con lo Statuto) alterato il principio di proporzionalità.
Le turbolenze delle due legislature in cui si dispiegarono gli effetti delle due leggi elettorali -dovute, più che al sistema in sè, da un lato alle gravi tensioni interne ai partiti (legislatura Palomba), dall’altro al peso marginale decisivo che consentì ad alcune rappresentanze non coalizzate di determinare l’elezione presidenziale (lista Grauso, Presidenze Pili, Selis, Floris) sono sempre state assunte come giustificazioni sufficienti per un’accettazione abbastanza unanime della modifica introdotta unilateralmente dal Parlamento nel 2001, con legge costituzionale, anche nello Statuto speciale sardo, che ha abolito il vincolo di proporzionalità e imposto la scelta fra un sistema a elezione diretta del Presidente della Regione (forma ordinaria di governo) e quello (derogatorio) di una forma di governo ad investitura assembleare.
In tutta Italia, Sardegna compresa (fatte salve le Regioni speciali della Valle D’Aosta e del Trentino Alto Adige, nelle quali sono stati conservati i differenti sistemi statutari previgenti), la formula dell’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni è stata preferita dalle rispettive Assemblee legislative e la discussione, nonostante le problematicità emerse quasi da subito -alla cui soluzione non ha contribuito la giurisprudenza costituzionale, rigida nell’escludere temperamenti del meccanismo presidenzialistico connotato soprattutto dagli effetti del “simul simul” dissolvente- si è definitivamente conclusa nella primissima metà del primo decennio del corrente secolo, per non essere più ripresa in alcuna sede significativa.
Sembra ora, quella discussione, riaccendersi in Sardegna, all’interno di alcuni dei Comitati sorti durante la recente tornata referendaria costituzionale, nell’ambito del tentativo di lanciare un’iniziativa per il superamento del sistema elettorale regionale vigente, le cui plateali negatività antidemocratiche sono sotto gli occhi di tutti.
C’è infatti un problema rilevante che interferisce e pare esser diventato discriminante nella discussione: quello appunto dell’elezione diretta del Presidente della Regione.
L’avvio della discussione, tuttavia, rischia a mio avviso di avvitarsi su se stesso.
Allo stato attuale l’elezione diretta del Presidente non sembra tanto preclusiva di una anche corposa attenuazione in senso proporzionalistico dell’inevitabile meccanismo maggioritario (del quale esisterebbero varietà ben più temperate di quella introdotta in Sardegna), quanto piuttosto indissolubilmente legata (salvo sfidare la Corte Costituzionale a un ripensamento) alla clausola dissolvente, che non consente sostituzioni in corso di legislatura del Presidente eletto.
Per converso un ritorno alla forma di governo di investitura assembleare non pare possa trovare come elemento decisivo di novità rispetto al passato il mero ricorso all’istituto della “sfiducia costruttiva”. Questo è un meccanismo di stabilizzazione ex post: prima deve tuttavia intervenire la nomina, rectius l’elezione, del Presidente da parte del Consiglio.
Il sistema basato sull’elezione popolare diretta ha, insieme a non pochi difetti, un innegabile pregio. Partiti e coalizioni sottopongono all’elettorato la scelta che si son determinati a proporre.
Chi oggi propone un sistema diverso dovrebbe farsi carico di offrire all’elettorato un’opportunità di pari valenza, tale da non consegnare la scelta a dinamiche partitiche post elettorali, sottratte agli elettori.
La questione, dal punto di vista funzionale, riporta tuttavia agli scenari che possono determinarsi a seconda del sistema elettorale.
Ogni articolazione della rappresentanza necessita, ove non ne derivi immediatamente un equilibrio suscettibile di dar vita abbastanza agevolmente a una formula di maggioranza, della presenza di procedure di facilitazione.
Nel sistema parlamentare delineato dalla Costituzione, queste procedure sono rimesse alla competenza del Presidente della Repubblica, che registra il polso dell’elettorato derivante dai risultati del voto, quello dei partiti, intesi come insieme di leader e di rappresentanze parlamentari, quello del Parlamento nel suo complesso e valuta altri fattori che rientrano nel suo proprio potere di indirizzo politico-costituzionale. È il Capo dello Stato che dà l’incarico a una determinata personalità di formare un Governo da sottoporre alla fiducia parlamentare.
Nel sistema regionale quest’organo non esiste e nessuno esercita le relative funzioni.
In senso lato l’elezione diretta queste funzioni le attribuisce all’elettorato.
Se si propone un sistema diverso, occorre risolvere questo problema: si ritiene che ri-consegnare interamente la designazione del Presidente alle dinamiche assembleari sia tout court una buona soluzione?
Se piuttosto -come l’esperienza ci ha insegnato- lasciare indeterminata ed estranea all’indirizzo dell’elettorato questa funzione non sembra nè funzionale nè in fondo particolarmente democratico, occorre indicare una soluzione più precisa.
Altrimenti il dibattito odierno è destinato ad arenarsi: è del tutto lecito dubitare, infatti, che un ritorno del sistema politico-istituzionale sardo a meccanismi di funzionamento addirittura precedenti al 1994 possa apparire una risposta convincente e -detto con franchezza- davvero preferibile a quello previsto come “ordinario” dallo Statuto vigente.
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