Lavoriamo per il Lavoro
LAVORO
Un nuovo modello di sviluppo che si adatti alle persone e non viceversa
di Fiorella Farinelli su Rocca 11/2017
Nelle riflessioni di De Masi sul lavoro (1) ci sono aspetti che convincono – sollecitando il sempre ottimo esercizio dell’approfondimento – e altri che sembrano invece precipitare nella scorciatoia del poco meditato e argomentato. «Provocazione, visione, possibilità?», è l’appropriata domanda che Roberta Carlini ci pone su Rocca n. 10. Val la pena, comunque, di continuare a discuterne, se non altro per la prossimità di De Masi ai Cinquestelle, un movimento politico che ci potrebbe capitare di avere al governo del paese. Il quale movimento, come si sa, punta parecchie delle sue carte proprio sull’ansia di idee nuove di un’opinione pubblica spaventata dal crescere delle diseguaglianze sociali e dal persistere di una disoccupazione soprattutto giovanile di cui non si viene a capo. Il sociologo, del resto, non è né un economista né un politico, e il suo successo mediatico si è costruito negli anni proprio sull’indubbia capacità di offrire «visioni di futuro». Chi non ricorda i seminari degli anni Novanta, spesso nella cornice delle nostre più affascinanti e perle turistiche, per imprenditori di successo, opinion leaders, politici sulla cresta dell’onda?
la scorciatoia
Ma cosa ci dice oggi De Masi? Il punto centrale della sua riflessione sul lavoro è nella previsione di un rovinoso impatto sulla quantità di lavoro disponibile (quello necessario nell’attuale modello di sviluppo) della cosiddetta rivoluzione robotica. E quindi di un’ormai prossima realtà – tra venti, trent’anni? – strutturalmente connotata dal lavoro di pochi (qualificato, specialistico) e dal non-lavoro di molti. Una riduzione che, secondo alcuni analisti, potrebbe arrivare al 50% del lavoro per il mercato che c’è attualmente, mentre nessuno al momento azzarda ipotesi attendibili su quanto lavoro nuovo e di che tipo (quali nuove figure professionali, quali nuove competenze, quali nuovi percorsi formativi: perché questi sono stati sempre gli effetti delle passate rivoluzioni tecnologiche) potrebbe venire generato dalle caratteristiche tecnologiche dell’organizzazione produttiva e di alcuni servizi.
Di qui, come noto, la scorciatoia. La redistribuzione del lavoro retribuito, supportata (perché 20 ore lavorative settimanali invece che 40 significa anche dimezzare il reddito da lavoro) da un reddito di cittadinanza. Universalistico e incondizionato. Il «lavorare meno lavorare tutti», va detto, non è un tema inedito. È stato dibattuto fin dagli ultimi decenni del secolo scorso con un piede già dentro la rivoluzione informatica, e ne sono state anche fatte sperimentazioni concrete, la più nota quella francese della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore che, per vari motivi, non sembra avere avuto un effetto positivo sull’occupazione ed ha anzi determinato effetti collaterali ritenuti negativi. Ma su questi aspetti, importantissimi da analizzare quando si torni a proporre qualcosa di analogo, De Masi non si sofferma. È un fatto però che oggi sono anche altre, e di diverso segno, le proposte che girano. Tra cui quella all’ordine del giorno anche della Commissione e del Parlamento europeo di una tassazione speciale da imporre ai robot, in parte per rallentarne la produzione e l’impatto, ma soprattutto perché gli Stati possano disporre di risorse economiche aggiuntive con cui retribuire il non lavoro e sviluppare la ricerca. Problematica, anch’essa – va detto – perché sembra assai indigesto oltre che improbabile frenare o vincolare lo sviluppo della ricerca scientifica.
la persona e il lavoro
Uno scenario inquietante, ma anche intessuto di un insieme complesso di cause, visto che in un paese come l’Italia e in altri paesi europei una parte molto consistente della perdita di posti di lavoro più che all’uso delle nuove tecnologie è dovuto al massiccio dislocarsi della produzione in altre aree del mondo, da quella asiatica a quella sudamericana. Alla ricerca di un minor costo del lavoro, si dice, o meglio di maggiori profitti: nel quadro, comunque, di una globalizzazione, e di una corsa all’arricchimento di pochi, che sembra essere irrefrenabile. E che pure deve essere considerato, e magari anche contrastato e corretto, salvo pensare che oggi possa essere un singolo paese a determinare da solo il suo tipo di sviluppo, e i dispositivi per preservarlo dal contesto globale (è qui, si sa, una delle radici del «sovranismo» che tenta non pochi movimenti e organizzazioni politiche in Europa, 5Stelle compreso).
Ma lo scenario è inquietante, per non dire apocalittico, anche da altri punti di vista. Prima fra tutti quello esistenziale ed etico, considerata l’importanza del lavoro come fattore decisivo per l’identità sociale e individuale delle persone. Perché lavorare in cambio di un salario o di un reddito non è solo necessità di sopravvivenza ma, nella storia dell’umanità che conosciamo, è stato ed è anche costruzione di sé, il modo con cui ciascuno guarda se stesso ed è guardato dagli altri, vocazione, talento, un posto nel mondo. Con che cosa si potrebbe sostituire tutto ciò in un mondo in cui una grande quantità del lavoro retribuito – che già oggi non basta al «lavorare tutti» – dovesse davvero diventare superfluo?
Ma le questioni sono anche altre. Su queste pagine (Rocca n. 9) Pietro Greco ne ha richiamate alcune, relative alla sostenibilità economica e a quella ambientale di una diffusa presenza dei robot nell’assetto produttivo, evocando quindi, se si vogliono evitare i rischi di un luddismo da fantascienza – gli uomini contro i robot, o viceversa – anche una nuova politica, capace di trasformare l’attuale modello di sviluppo. Un’aspirazione antica, almeno quanto il capitalismo e la sua dittatura del profitto che hanno prodotto crescita, sviluppo, riduzione della povertà, ma anche contraddizioni ed esclusioni, e che ha quindi sempre avuto sia sostenitori appassionati che appassionati detrattori. Si tratta, in sintesi, di inventare un modello di sviluppo –e di stili di vita – che si adatti alle persone e non viceversa. Si può farlo, chi può farlo?
In termini analitici, c’è comunque anche da allargare lo sguardo, in primo luogo alle tipologie di lavoro di cui si parla quando si propone la sua redistribuzione.
lavoro produttivo e lavoro riproduttivo
Perché il lavoro su cui si basa da secoli il nostro assetto economico-sociale non è solo quello, retribuito, che produce beni e servizi per il mercato, ma anche quello che non è retribuito né riconosciuto e che tuttavia è condizione essenziale perché il primo ci sia, e nelle forme e nei tempi che conosciamo. Di solito non ci si pensa, ma è invece proprio su una grandissima quantità di lavoro «ri-produttivo» – come lo chiamava una parte importante del femminismo del secolo scorso – che si basa la possibilità stessa per una parte della popolazione di dedicarsi a tempo pieno al lavoro «produttivo», quello che oggi si vorrebbe redistribuire, e retribuire con un reddito di cittadinanza.
Si tratta di lavoro in gran parte femminile, di donne occupate, non occupate, pensionate, fare e allevare i figli, gestire casa e famiglia, occuparsi dei soggetti più deboli, integrare i servizi. Ri-produrre, appunto. Un lavoro così impegnativo da impedire frequentemente alle donne di partecipare all’altro lavoro, o da stritolare le loro vite nel doppio/triplo lavoro, produttivo e riproduttivo insieme. Un lavoro che proprio perché considerato intrinseco a uno dei due generi, quindi vocazionale e non retribuito, non genera nei servizi – sanità, scuola, assistenza – i posti di lavoro che potrebbe.
A cui deve aggiungersi il lavoro «volontario», anch’esso «di cura» delle persone, dei beni comuni, del territorio, in ambiti che si stanno facendo sempre più numerosi. Non si tratta, si direbbe, di attività destinate ad essere compresse dall’avvento dei robot come quelle appartenenti al lavoro cosiddetto produttivo, ma di lavoro pur sempre si tratta. Qual è il loro posto, significato, valore nella visione di De Masi? La sua provocazione sul «lavorare gratis lavorare tutti» contempla anche il lavoro ri-produttivo o no? E comunque, si può ipotizzare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, sottratto almeno in parte alla logica del profitto e del mercato, senza farne cenno?
politiche per produrre lavoro
Non basta. In un programma che mette al centro il reddito universalistico di cittadinanza, sembrano non trovare posto tutte le politiche – e sono tante, e urgenti – che potrebbero produrre una gran quantità di lavoro. Perché la questione centrale, in un paese come l’Italia, non si può ridurre solo agli effetti della digitalizzazione e della robotizzazione. Se abbiamo tassi di disoccupazione più alti di altri paesi Ue, è perché la finanziarizzazione dell’economia distoglie grandi quantità di capitali dagli investimenti nelle opere strutturali di cui ha bisogno estremo il nostro territorio, perché uno Stato indebitato non ha risorse per impegnare quello che si dovrebbe nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica finalizzata allo sviluppo di nuove produzioni di successo, perché si lesina su servizi essenziali come la sanità, e persino sul welfare che potrebbe alleggerire il lavoro riproduttivo che si scarica in gran parte sulle donne. Perché ci sono vincoli di ogni genere allo sviluppo di un’economia sana e produttiva, capace di utilizzare nel rispetto dell’ambiente le risorse disponibili, e perché spesso mancano anche le competenze e le professionalità per supportare nuove iniziative economico-produttive. Anche De Masi accenna al fatto che la grande disoccupazione non viene prodotta solo dall’impatto delle nuove tecnologie. Ma sono solo accenni che non illuminano la strada delle svolte programmatiche. Eppure è prima di tutto qui, intanto, che bisognerebbe insistere. Non si impara a misurarsi con le rivoluzioni epocali di cui ancora non si sanno le dinamiche e gli effetti, se si soccombe o si declina senza idee e senza iniziative sulle crisi e le difficoltà di cui conosciamo già sia le cause che i rimedi. Se i robot arriveranno davvero, il loro impatto sul lavoro sarà più devastante – c’è da scommetterci – sui paesi che già oggi hanno le economie più deboli.
Fiorella Farinelli
Nota
(1) Lavorare gratis lavorare tutti, Rizzoli, Milano 2017.
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OCCUPAZIONE FEMMINILE
Tutti i rischi del «meno tasse per tutti»
di Roberta Carlini su Rocca 11/2017
Nel suo discorso di reinvestitura alla carica di segretario del Pd, Matteo Renzi ha introdotto tre parole chiave per il prossimo futuro: mamme, lavoro, casa. Al di là delle facili battute sulla politica degli slogan, è il caso di cominciare a guardare alla politica concreta che si intende attuare, visto che un governo, sostenuto dal partito del «ri-segretario», c’è ed è destinato, secondo le parole dello stesso leader, a durare ancora un po’.
Per le prime due parole della triade, in realtà, qualcosa di più approfondito nel Piano nazionale di riforma presentato dal governo Gentiloni c’è, ed è nel fissare un obiettivo, l’aumento dell’occupazione femminile, e dedicare a questo uno strumento specifico: la riduzione delle tasse sul lavoro, in particolare sulle donne e sui giovani.
Si dà per scontato, negli ultimi tempi, che la riduzione delle tasse – che certo piace a tutti – sia uno strumento passpartout, e dunque non si mette in discussione: semmai ci si concentra sulla sua sostenibilità, ossia sui problemi di copertura o di aumento del deficit pubblico che comporterebbe.
Ma il fatto che una politica sia finanziabile, e che sia popolare, non vuol dire che di per sé sia utile all’obiettivo specifico. Il quale, ovviamente, è condivisibile e anzi troppo trascurato finora: con il suo 51% di occupazione femminile, l’Italia è al penultimo posto in Europa, piazzandosi solo davanti alla Grecia. Anche Malta fa meglio dell’Italia, quanto a tasso di occupazione femminile. E la mancata partecipazione delle donne al mercato del lavoro contribuisce a tenere la media italiana dell’occupazione assai lontana dall’obiettivo generale, che è quello di raggiungere il 75% di tasso di occupazione nel 2020. Dunque, ottimo obiettivo; ma lo strumento è quello giusto?
ma la realtà è un’altra
Se lo è chiesto l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel suo Rapporto sulla programmazione di bilancio 2017. In tale Rapporto, si ricorda che «c’è un diffuso consenso in letteratura sulla possibilità che modifiche alla tassazione possano influenzare la partecipazione femminile al mercato del lavoro». E si nota che, a questo proposito, possono essere efficaci soprattutto gli strumenti che incidono sul reddito individuale e non su quello familiare: vale a dire, che se si commisura l’intervento al reddito del nucleo familiare – come succede per gli assegni familiari e per le detrazioni per i figli a carico – si ha un impatto minore che non intervenendo direttamente sulla retribuzione netta del singolo individuo, donna o uomo, in particolare con detrazioni di imposta sui redditi da lavoro, soprattutto quelli più bassi. Ma tra la letteratura economica e la realtà spesso c’è una grande distanza, e questa viene misurata dal Rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio quando si va a vedere la situazione complessiva dei Paesi europei. La distanza tra il nostro tasso di occupazione femminile e quello degli altri Paesi non sembra giustificabile solo con la differenza nel regime di tassazione. È vero che da noi il nucleo fiscale – ossia la somma di tasse e contributi che pesano sul lavoro, e fanno sì che la retribuzione che giunge in tasca a chi lavora sia molto distante da quel che costa alle imprese – è molto pesante. Ma nel confronto internazionale, se si guarda ai redditi più bassi, l’Italia non risulta particolarmente penalizzata. Prendiamo un reddito da 10.220 euro l’anno (pari a un terzo della retribuzione media) per un lavoratore dipendente single senza carichi familiari: il relativo cuneo fiscale, in Italia, è al decimo posto su 22 Paesi europei presi in esame; per redditi più alti (20.530 euro l’anno) il cuneo sale, e l’Italia si porta al quindicesimo posto. Ma anche in questo caso è superata da Paesi che hanno un’occupazione femminile molto più alta: per esempio Francia, Germania e Spagna, nei quali il tasso di occupazione femminile è, rispettivamente, del 66,3, del 74,5 e del 58,1%.
Dunque, la prima conclusione dello studio è che il cuneo fiscale di per sé non pare correlato alla maggiore o minore occupazione femminile. Andando ancora più a fondo, si analizza la struttura dell’imposizione per vedere se ci sono fattori specifici che influenzano la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Ne viene fuori che, per un nucleo familiare con due figli e due percettori di reddito, nel quale il primo percettore ha un reddito pari a quello medio e il secondo un reddito pari al 33% della media, il cuneo fiscale addirittura scende un po’, per il «secondo percettore» (di solito la donna). Facendo una classifica sull’effetto di disincentivo operato dal cuneo fiscale, l’Italia si posiziona al settimo posto nella classifica dei Paesi con minori disincentivi al secondo lavoro in famiglia.
aprendo asili nido
In altre parole: non sono le tasse a tenere le donne fuori dall’occupazione. E questo è vero soprattutto per i redditi più bassi. Questo dato va sottolineato: infatti in gran parte la bassa occupazione femminile italiana è dovuta al fatto che le donne con minori qualifiche e titolo di studio restano casalinghe, dunque sono proprio loro che «mancano» dal mercato del lavoro. Naturalmente, può essere il basso livello del reddito in sé a spiegare perché spesso le donne preferiscono stare a casa – e farsi carico della cura familiare – piuttosto che accettare lavori pagati pochissimo: ma c’è da chiedersi se questo dato strutturale possa essere cambiato, o almeno mitigato, da un bonus fiscale. Mentre, se si vanno a guardare altri indicatori, emergono correlazioni molto più forti: come quella tra la presa in carico dei bambini negli asili nido e l’occupazione femminile. Attualmente la copertura nazionale è dell’11,9% (ossia, 11,9 bambini su 100 tra quelli tra zero e due anni vanno al nido), ma molte regioni sono lontanissime dalla media: la Sicilia è al 4,9%, la Puglia al 4,3%, la Campania al 2,2%, la Calabria all’1,4%. Adesso il governo conta di portare la copertura media al 13%, ma la realtà in molte zone d’Italia è che l’adesione al nido addirittura scende, complici non solo la denatalità ma anche l’aumento dei costi delle rette.
il lavoro pubblico alleato delle donne
Studi come quello dell’Ufficio parlamentare di bilancio sono molto utili per demitizzare alcune politiche, e cercare di utilizzare al meglio le scarse risorse che ci sono nella finanza pubblica. E confermano un sospetto che poteva venire in mente anche in base al semplice buon senso: se le donne non lavorano è perché non c’è lavoro, non perché non hanno sufficienti «incentivi» a lavorare. Se le retribuzioni che vengono loro proposte sono basse è perché le imprese pagano poco, a loro volta perché hanno un problema di produttività e/o di domanda dei loro beni e servizi. Se la doppia presenza sul mercato del lavoro retribuito e su quello familiare è sempre più insostenibile è perché il primo dà poco e il secondo chiede molto, anche per la parallela riduzione dell’offerta pubblica e la mancata perequazione dei carichi in famiglia.
Affrontare questi nodi richiederebbe una dose di innovazione e anche di rottamazione non convenzionale – per esempio, incidendo sul lavoro pubblico come principale alleato del lavoro femminile, e dunque pretendendo da questo una radicale svolta in termini di efficienza –, mentre inseguire parole d’ordine vecchie orami trent’anni, come il «meno tasse per tutti», rischia di essere improduttivo oltre che molto costoso.
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