Lavoro. A colloquio con Domenico De Masi su Rocca

de-masi-jpgLavoro: il coraggio di pensare un nuovo modello
a colloquio con Domenico De Masi
a cura di Mariano Borgognoni, su Rocca
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Domenico De Masi non è un intellettuale di quelli che si nascondono dietro il politacally correct. Scrive e parla con grande chiarezza, esponendo e sostenendo analisi e tesi esplicite, magari con una punta di provocazione. Il suo ultimo libro Lavorare gratis, lavorare tutti (Rizzoli 2017) tiene insieme lucidità di analisi e indignazione civile. Non c’è nei suoi scritti quel pessimismo plumbeo di cui spesso vengono accusati coloro che si sottraggono alla retorica delle «magnifiche sorti e progressive», e anche le inquietanti prospettive del lavoro, della sua carenza, delle sue rapide e vorticose trasformazioni, siamo invitati a leggerle come una grande opportunità di liberare tempi di vita ricchi e fecondi. Certo a condizione che la cultura, la politica e la forza potenziale degli esclusi riescano a costruire e battersi per un nuovo modello sociale. Per questo abbiamo voluto iniziare con lui un confronto sul tema del lavoro, cruciale per l’avvenire, soprattutto delle generazioni nuove.
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Professor De Masi, mi pare che oggi siamo a un nuovo tornante epocale della storia del lavoro e quindi anche dei processi attraverso cui gli uomini hanno preso coscienza di sé e hanno cercato di dare risposta ai loro bisogni materiali e spirituali.
Bene, partiamo dai grandi cambiamenti che ci consentono di capire come l’umanità si sia data ripetutamente nuovi modelli. Noi siamo venuti da una storia lunghissima del lavoro, una prima fase iniziata 7.000 anni fa in Mesopotamia e finita a fine ’700, si è basata soprattutto sul lavoro agricolo e artigianale. Oltre questi lavori c’era quello della guerra e quello della pubblica amministrazione. Ma l’elemento centrale è l’agricoltura che aveva come caratteristica di essere condizionata dalle stagioni: quindi il ritmo del lavoro agricolo era quello stagionale e non poteva essere accelerato.

Ma alla fine del ’700 ci sono state alcune mutazioni profonde che hanno cambiato il mondo.
Sì, sono arrivate grandi masse di materie prime dalle colonie, l’Illuminismo ha dato una sterzata, diciamo alla razionalizzazione di tutti i processi, la Rivoluzione francese, quella americana, quella inglese hanno portato in auge una nuova classe sociale che è la borghesia, ci sono le prime grandi scoperte meccaniche e poi di lì a poco, le grandi scoperte elettro-meccaniche con l’introduzione prima della energia a vapore e poi dell’energia elettrica. L’insieme di queste cose comporta la nascita di una società completamente nuova, che continua ovviamente a valorizzare l’agricoltura, ma accanto all’agricoltura rende particolarmente centrale l’industria e in essa il lavoro di fabbrica, che diventa il nuovo luogo centrale del lavoro, sostituendo in larga parte i campi agricoli e la bottega artigiana.

Che differenza c’è tra la fabbrica e la campagna?
Tra la fabbrica e la bottega? Tra il lavoro industriale e il lavoro rurale?
C’è che l’elemento base diventa la macchina meccanica e poi l’elettro-meccanica, la quale è suscettibile di accelerazione dei ritmi. Mentre i ritmi della campagna erano quelli stagionali e non potevano essere mutati, i ritmi della macchina sono invece mutevoli, con lo sforzo di accelerare sempre di più sia le macchine sia l’organizzazione del lavoro in modo da essere coerente con i ritmi crescenti delle macchine. Nasce così il lavoro industriale caratterizzato da una tensione fortissima verso la razionalizzazione di tutti i processi produttivi. E i processi produttivi sono basati sulla catena di montaggio, che ne diventerà la catena di montaggio, che ne diventerà poi il simbolo, a partire dai primi del ’900.

Siamo al taylorismo e al fordismo.
Sì, il fordismo, la parcellizzazione del lavoro, la ripetitività, l’efficienza, la velocità, l’organizzazione piramidale dell’azienda, l’economia di scala. Mentre la bottega artigiana aveva il suo limite, in assoluto aveva 40-50 persone, agli inizi del ’900 la Unites States Steel aveva già centomila dipendenti. Quindi il gigantismo non solo della fabbrica, ma delle scuole, degli ospedali: diciamo che tutto giganteggia. E insieme a ciò due fenomeni connessi: lo spostamento in massa dei contadini dalla campagna alla città, e quindi l’urbanesimo, per cui agli inizi dell’800 New York ha 60.000 abitanti e agli inizi del ’900, un secolo dopo, ha 5.000.000 di abitanti. Accanto all’urbanesimo, il consumismo: inizia quella catena di montaggio mentale, per cui accanto al produrre sempre più in fretta, c’è il consumare sempre più in fretta e cose sempre più futili.

Gran parte della sociologia contemporanea ha analizzato questo grande fenomeno insieme economico e culturale che ha permeato di sé gli stili di vita di milioni di persone. La società di massa, la necessità del superfluo e così via.
Naturalmente per indurre al consumo, occorre la pubblicità che si servirà sempre di più dei media che intanto si sviluppano. Tutto questo dura praticamente duecento anni, sino alla 2a guerra mondiale. Quindi mentre la società rurale ha dominato per circa 7.000 anni, la società industriale in soli 200 anni ha creato dal suo stesso seno una società completamente nuova. I fattori propulsivi sono stati l’impetuoso sviluppo tecnologico, la innovazione organizzativa, la globalizzazione, la diffusione dei mass-media e la scolarizzazione di massa. Questi fattori hanno determinato un passaggio abbastanza rapido dalla società industriale all’attuale nostra società.
Come si caratterizzava la vecchia società industriale? Per il fatto di avere al suo centro la produzione in grande serie di beni materiali, automobili, frigoriferi, ecc., la società post-industriale si caratterizza invece per avere al suo centro la produzione di beni immateriali, cioè servizi, informazioni, simboli, valori, estetica. Come la società industriale non fece a meno dei prodotti rurali, ma fece a meno dei contadini, sostituendoli con i trattori automatici o con i concimi chimici, così la società post-industriale non sta facendo a meno dei prodotti industriali, cioè di automobili, frigoriferi, ecc. ma sta sostituendo gli operai e poi anche gli impiegati e poi anche i creativi man mano con delle macchine, che non sono più né meccaniche né elettromeccaniche, ma sono digitali.

Quindi il lavoro morto si mangia il lavoro vivo, per dirla con Marx oppure c’è qualcosa di più?
Il lavoro morto si mangia il lavoro vivo. Però in una primissima fase il lavoro vivo non è tanto quello degli uomini: l’automobile non è che sostituisce tanti operai ma i cavalli che trainavano i carretti e le carrozze, per cui non ce ne siamo quasi accorti perché abbiamo ammazzato i cavalli e buona notte. Invece, le macchine successive sostituiscono già l’operaio vivo, e poi con le macchine digitali sostituiranno anche l’impiegato: il bancomat sostituisce il cassiere.

E questo è il punto di caduta della nostra situazione attuale.
Esattamente. Inoltre, mentre per fare le ferrovie ci volevano i binari, per fare i binari ci volevano le ditte di costruzione, per cui i treni erano macchine che creavano molto lavoro, accanto a quello che distruggevano, invece le macchine digitali sono molto più, sono dimensionate in modo quasi umile, un calcolatore portatile o un cellulare è portatore di infiniti processi, dipende da quante app metto nel mio telefonino e ognuna di esse è stata creata da una, due, cinque persone ma sostituisce migliaia di persone.

Quindi oggi, chi promette crescita e chi lega a questa giaculatoria conti- nua sulla crescita la possibilità di ri- solvere in qualche modo il problema del lavoro, promette una cosa che non può mantenere, secondo lei?
È una persona che non ha capito questo, che più c’è crescita, più ci sono soldi di-sponibili, e più un imprenditore tenderà a comprare dei robot.

Certo. A questo punto con quei soldi non si costruiscono aziende e non si producono posti di lavoro ma si produce semplicemente ricchezza tramite ricchezza. I due fenomeni combinati, il fatto che occorre meno lavoro per produrre beni e servizi e il fatto che gran parte dei soldi guadagnati non vengono reinvestiti in imprese, ma vengono reinvestiti in Borsa, i due fattori messi insieme comportano che c’è, oggettivamente, sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare. E quelli che vorrebbero lavorare aumentano per
vari motivi. Il primo, perché l’umanità cresce: noi fra dieci anni saremo un miliardo in più, quindi ci sarebbe da preparare un miliardo di posti di lavoro in più. In secondo luogo perché ormai lavorano anche segmenti sociali che prima non lavoravano, per esempio la donna, con nuove tecnologie possono lavorare anche molti handicappati che prima non potevano lavorare, si è ridotto il periodo della leva militare per cui si va prima sul mercato del lavoro, ci sono più possibilità di lavorare da casa, quindi possono lavorare anche persone che non si potrebbero spostare fisicamente, insomma per una serie di motivi aumentano le persone che tengono per sé. Inoltre è intervenuto anche un altro fattore, che l’imprenditore il quale ha guadagnato dei soldi, mentre prima con quei soldi ingrandiva la sua azienda, oggi compra delle obbligazioni, gioca in Borsa.

Quindi oggi, chi promette crescita e chi lega a questa giaculatori acontinua sulla crescita la possibilità di r solvere in qualche modo il problema del lavoro, promette una cosa che non può mantenere, secondo lei?
È una persona che non ha capito questo, che più c’è crescita, più ci sono soldi disponibili, e più un imprenditore tenderà a comprare dei robot.

Però chi consuma? Perché comunque il sistema economico avrà bisogno di consumatori.
Noi abbiamo il sistema economico che produce sempre più beni con meno lavoro umano e poi abbiamo 7 miliardi di umani che sono disposti a consumare i beni che si producono, solo che i beni che si producono sono di alcuni e i consumatori sono altri. I beni che si producono sono di un numero sempre più piccolo di produttori e invece i consumatori sono sempre di più. Questo è il grande problema. Quelli che producono, producono beni che potrebbero soddisfare l’intera umanità, però se li tengono per sé. Inoltre è intervenuto anche un altro fattore, che l’imprenditore il quale ha guadagnato dei soldi, mentre prima con quei soldi ingrandiva la sua azienda, oggi compra delle obbligazioni, gioca in Borsa…

I soldi che fanno i soldi…
Certo. A questo punto con quei soldi non si costruiscono aziende e non si producono posti di lavoro ma si produce semplicemente ricchezza tramite ricchezza. I due fenomeni combinati, il fatto che occorre meno lavoro per produrre beni e servizi e il fatto che gran parte dei soldi guadagnati non vengono reinvestiti in imprese, ma vengono reinvestiti in Borsa, i due fattori messi insieme comportano che c’è, oggettivamen- te, sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare. E quelli che vorrebbero lavorare aumentano per vari motivi. Il primo, perché l’umanità cresce: noi fra dieci anni saremo un miliardo in più, quindi ci sarebbe da preparare un miliardo di posti di lavoro in più. In secondo luogo perché ormai lavorano anche segmenti sociali che prima non lavoravano, per esempio la donna, con nuove tecnologie possono lavorare anche molti handicappati che prima non potevano lavorare, si è ridotto il periodo della leva militare per cui si va prima sul mercato del lavoro, ci sono più possibilità di lavorare da casa, quindi possono lavorare anche persone che non si potrebbero spostare fisicamente, insomma per una serie di motivi aumentano le persone che vorrebbero lavorare e diminuiscono i posti disponibili, per farli lavorare.

Scusi, a questo punto, allora come affrontare questa contraddizione, come affrontarla consapevolmente, cioè, in una società democratica, politicamente…
Sì, ma non si avvedono che il passato era fatto di macchine meccaniche che effettivamente consentivano lo sviluppo di maggiori lavori e invece il lavoro attuale è condizionato dalle macchine elettroniche, le quali sono completamente diverse da quelle meccaniche. Cioè applicare all’epoca delle macchine digitali le stesse regole che si applicavano con le macchine meccaniche, a mio avviso, è un errore gravissimo. È un gap culturale gravissimo che ha portato gli economisti sempre a dire: ma no, il problema è la crescita. Questo dice ogni giorno il telegiornale.

E quasi tutte le forze politiche sono praticamente omologate.
Ho fatto un dibattito alla televisione dove i due economisti e lo stesso Sottosegretario che dibattevano con me dicevano questo: «no, ma il problema non si pone perché il problema è la crescita, quando saremo cresciuti, ricominceremo a occupare». Questo modo di ragionare ha due cose sbagliate: primo che non ricominceremo a crescere,perché tutti gli studi dicono che i paesi ricchi non potranno arricchirsi ancora di più, perché noi abbiamo 36.000 dollari pro capite, la Cina ne ha 7.000, si figuri se noi possiamo continuare a crescere, è impossibile, e poi anche se crescessimo, ripeto, gli imprenditori non comprerebbero uomini ma robot.

Professore in questi giorni ho letto il suo ultimo libro, ho trovato una analisi lucida e anche una bella indignazione.
… tre milioni di persone che non trovano lavoro, che non sanno come mangiare tutti i giorni…

Ma se non vogliamo però rimanere a quell’atto di fede di cui parlava quale può essere l’alternativa?
Io sono assolutamente contrario a quell’atto di fede, penso che sia una illusione che gli economisti colpevolmente hanno creato per non pensare a soluzioni diverse.

E quali possono essere?
Io lo propongo, dico che almeno per ora il lavoro non è che manca, è che se lo pigliano tutto alcuni, in Italia 23 milioni di persone fanno 40 ore alla settimana, ma molti fanno 80 ore alla settimana. I manager per esempio restano in ufficio 2-3 ore al giorno di più, non retribuiti. In Italia gli straordinari costano meno delle ore ordinarie, caso unico in tutta l’Ocse. Le ore straordinarie si pagano meno delle ore ordinarie. Allora io credo che il vero problema sia costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha.

A parità di salario?
A parità di salario si potrebbe fare, ma non lo dico mai, se no chissà che si pensa. Invece facciamolo pure riducendo, i calcoli che io metto in quel libro sono questi: se tutti quelli che fanno 40 ore ne facessero 36 e quindi guadagnassero il 10% in meno, non avremmo disoccupati. Però siccome questi disoccupati vivono a spese degli occupati, figli, nipoti ecc. tanto vale cedere 4 ore e far lavorare anche loro.

Quindi intervenire sull’orario di lavoro…
Il problema però è come costringere i lavoratori che fanno 40 ore a cederne 4 perché questi non vogliono cederle e sono nel loro egoismo appoggiati dai loro sindacati, dalle loro lobby, dai loro giornali, hanno una potenza, mentre i disoccupati non hanno potenza, non hanno sindacati che li difendono, non hanno lobby…

Io conosco la sua provocatoria proposta a questo riguardo, su come mobilitare i disoccupati, però prima volevo chiederle una cosa: è possibile risolvere questo problema Paese per Paese, cioè si può fare una operazione solo in Italia oppure anche solo in Europa?
Si può essere felici più in un Paese che in un altro? Sì.

Risposta interessante! E problematica.
Ma certo. Io non propongo di ridurre la produzione complessiva di un Paese, anzi, secondo me se uno lavora 36 ore invece di 40 produce molto di più.

Cioè produrre di più o lo stesso, redistribuendo il reddito in modo diverso.
Né più né meno. Vede, il comunismo distribuiva la ricchezza ma non la sapeva produrre, adesso sono stato a Cuba e l’ho visto ancora anche lì, sono stato varie volte in Russia anche all’epoca di Breznev, ecc. Il comunismo sapeva distribuire benissimo la ricchezza, ma non la sapeva produrre. Noi sappiamo produrre benissimo la ricchezza, ma non la sappiamo distribuire.

E questo può aprire un problema democratico, nelle nostre società. Intendo questo aumento della sofferenza sociale, della disoccupazione?
Io vedo che si risponde all’aumento della sofferenza con riforme le quali vengono fatte e poi disfatte, come il jobs act, come i voucher e sono ormai convinto che le riforme non bastano più.

E che ci mettiamo al posto delle riforme?
Due tipi di soluzione: o una rivoluzione non cruenta, come quella che propongo io oppure si va a finire alle rivoluzioni cruente, c’è poco da fare. Quando gli Illuministi dicevano agli aristocratici guardate state esagerando, state accentrando troppa ricchezza nelle vostre mani, bisogna essere più generosi, ecc. loro non lo fecero poi venne la Rivoluzione francese e 23.000 aristocratici furono ghigliottinati. Allora io faccio come gli Illuministi, dico: ma intanto proviamo almeno a dividere il lavoro, perché il problema è poi di dividere il lavoro e la ricchezza che è aggregata in poche mani; 8 persone nel mondo hanno la ricchezza di mezza umanità, cioè di 3 miliardi e 600.000 persone, 10 famiglie in Italia hanno la ricchezza di 6 milioni di italiani. Accanto alla divisione della ricchezza c’è da dividere il lavoro, accanto alla divisione della ricchezza e del lavoro c’è da dividere il potere, il sapere, le opportunità, le tutele. Questa è una società che si è tutta incrostata di iniquità.

Senta, le vecchie categorie della politica destra, sinistra, ecc. hanno ancora un senso dentro questo scenario oppure no, secondo lei? Mi permetta una domanda proprio politica.
Le vecchie categorie della politica hanno questo problema, che quando negli anni ’20 e poi negli anni ’30 Keynes dimostrò che alcune basi del liberismo erano sbagliate, era sbagliato il laissez faire, quindi occorreva l’impegno dello Stato, ci fu una reazione da parte dei liberali, i quali crearono delle scuole contrapposte a Keynes e queste scuole neo-liberali hanno trionfato praticamente in tutto il mondo. Secondo queste scuole liberali, bisogna accentuare la privatizzazione dei beni, lo Stato deve regredire, diceva Reagan, bisogna affamare la bestia, cioè la bestia Stato è una belva che deve essere tenuta sotto totale controllo, la finanza deve sopraffare l’economia, l’economia deve sovrastare la politica e così di seguito. Però il liberismo, bisogna dire la verità, nella sua perfidia si è rinnovato e quindi abbiamo al posto del liberismo che si rifaceva a Smith alla fine del ’700, che si rifaceva a Montesquieu, a Tocqueville, abbiamo il neo-liberismo. Purtroppo non si è fatta una operazione analoga anche con il marxismo: al posto del liberismo abbiamo un neo-liberismo, al posto del comunismo non abbiamo un neo-comunismo cioè non abbiamo avuto una rifondazione del pensiero comunista in modo da adattarlo alla società post-industriale. Quindi noi sul piano politico abbiamo uno sbilanciamento…

Nel senso che la Sinistra si è allineata a una posizione neo-liberista e ha lasciato il vuoto dietro di sé.
Sì, né più né meno, praticamente se lei vede le leggi messe in atto, che so, dal governo di centro-sinistra, sono tutte neo-liberali tanto che sono state affossate da un referendum in cui hanno vinto i disperati, hanno votato no in tutte le periferie, hanno votato sì in tutti i quartieri ricchi.

E quindi, che si può «inventare», in termini politici, adesso?
C’è da creare un neo-marxismo, un neo-solidarismo: partire da un’idea di economia che non sia basata sulla competitività ma sulla solidarietà.

E questo mi dà la possibilità di farle un’altra domanda, perché questa è una rivista che è letta da molti laici ma anche da cattolici, diciamo così, progressisti.
Non so se progressisti, di sicuro cattolici. Io cito a lungo nel mio libro la Evangelii Gaudium, in essa Papa Francesco dice tutte le cose che dico io contro il liberismo, anzi molto di più.

Però lei ne vede un limite alla fine, tra l’analisi e le proposte…
L’analisi è meravigliosa e poi che propone? Troppo poco.

Però tutto sommato la sensibilità cristiana verso gli ultimi può essere della partita, per così dire.
Mi mette sempre paura negli ultimi passaggi. Si arriva fino a un certo punto poi si ferma. Tranne Paolo VI che non si è fermato.

È interessante questo suo ricordare Paolo VI, come un Papa di grande statura e apertura.
In un mio libro intitolato Mappamundi in cui comparo tredici modelli di economia e di vita: cinese, indiano, giapponese, islamico, ho tutto il capitolo sul modello cristiano, per il quale commento sei Encicliche Sociali.

Quindi una parte della Dottrina Sociale della Chiesa può essere interessante, in ogni caso.
Dunque, io in quel mio libro sostengo che ogni modello prodotto dagli esseri umani (ce ne sono una quarantina e io analizzo i 13 modelli più importanti) ha delle cose belle che andrebbero recuperate e delle cose obsolete che andrebbero abbandonate, quindi occorrerebbe la fatica di mettere su un modello nuovo adatto alla nuova società, perché la mia tesi è che il disorientamento, che è la malattia del nostro tempo, è dovuto al fatto che questa società, la nostra società post-industriale è l’unica che è stata creata senza avere un modello di riferimento. Tutte le società precedenti sono nate su modelli teorici, la democrazia di Pericle è nata sul modello di Protagora, il Sacro Romano Impero è nato sulle idee del Cristianesimo, gli Stati del ’600 sono nati sulle idee di Lutero, lo Stato liberale dell’800 è nato sulle idee degli Illuministi, la Russia sovietica è nata sulle idee di Marx e di Engels, l’Italia di Cavour è nata sulle idee di Gioberti, di Cattaneo, di Mazzini, questa società in cui viviamo noi non è nata su idee.

Quindi manca la cultura, non solo la politica. C’è «il tradimento dei chierici»?
Manca il modello, non c’è il modello, che non lo dovevano fare i politici ma gli intellettuali: sono loro che non hanno mantenuto la promessa professionale. Non essendoci un modello noi non siamo in grado di capire, di dire cosa è bene e cosa è male, cosa è bello e cosa è brutto, cosa è buono e cosa è cattivo, cosa è destra e cosa è sinistra, cosa è maschio e cosa è femmina, cosa è vivo e cosa è morto, abbiamo discusso per 14 anni per stabilire se l’Englaro era viva o era morta. Ora senza modelli condivisi non si riesce a condividere neppure questi giudizi.

E non c’è nemmeno vero dialogo.
Si entra nel disorientamento attuale. Dice Seneca: nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa dove vuole andare.

Un’ultima cosa, caro professore, l’ho lasciata per ultima perché è la sua provocazione sulla organizzazione dei disoccupati. Cosa potrebbero fare i disoccupati per diventare effettivamente una forza, perché il problema della forza, per muovere le cose, è sempre decisivo.
Certo, io credo che l’unica possibilità che hanno gliela dà la tecnologia, siccome sono isolati, alla mattina il padre esce di casa e va a lavorare, la madre esce di casa e va a lavorare, il disoccupato resta a casa senza fare niente. Il primo anno dopo la laurea manda curricula, va a visitare aziende, ecc., il secondo anno perde quasi la speranza, il terzo anno non ne ha più ed è proprio disperato a casa sua, depresso e inoltre si deve pure vergognare di non avere lavoro.

Questo è molto grave davvero, questa colpevolizzazione dei disoccupati è terribile secondo me. E anche il cinismo di chi li invita ad aspettare la ripresa prossima ventura.
È vergognoso! Allora io che cosa propongo? L’unico modo per unire le persone divise, oggi, è la tecnologia, che viene usata per trovare i taxi, viene usata per trovare gli alberghi dove andare, non si vede perché non debba essere usata per mettere in contatto il disoccupato con chi ha bisogno di lavoro. Ora siccome il disoccupato non verrebbe chiamato, perché non ha altri modi per farsi conoscere, con questa tecnologia invece potrebbe farlo. E se io ho bisogno di un idraulico posso chiamare un idraulico disoccupato anziché un idraulico occupato, ho bisogno di una piattaforma, di una app che mi consente di fare questo. Se i disoccupati, per alcuni mesi o anche qualche anno, lavorano tutti gratuitamente, il mercato si spacca e gli occupati saranno costretti a cedere quelle famose 4 ore che ho detto prima. O magari lo Stato proverà a disinnescare la mina lavorando a un reddito di cittadinanza.

Io mi augurerei che i lavoratori capiscano prima e quindi si riesca a fare qualche forma di alleanza, perché anche molti occupati sono costretti adesso a fare una sorta di lavoro servile, con molte meno garanzie, con un alto tasso di precarietà.
Alcuni provvedimenti sono stati di una criminalità totale, se lei pensa che 10 anni fa le 10 famiglie più ricche avevano la ricchezza di 3 milioni di poveri e adesso hanno la ricchezza di 6 milioni di poveri. I poveri in Italia sono raddoppiati. E poi governi di sinistra che si vantano di aver ridotto le tasse! Un governo di sinistra deve aumentare le tasse, le tasse sono il modo per togliere soldi ai ricchi e darli ai poveri. Se lei riduce le tasse, riduce la possibilità di aiutare i poveri.
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Domenico De Masi mette ad esergo del primo capitolo del suo libro un versetto del Deuteronomio: «Cercherete di vendervi come schiavi ai vostri nemici, ma nessuno vorrà comprarvi». Per alcuni aspetti e per molte persone siamo già a questo. Per altri potrebbe esserlo a breve. Si possono condividere o meno, in tutto o in parte, l’analisi e le proposte del professore emerito della Sapienza. Quel che non si deve fare è nascondere il pericolo e non alzare gli argini del fiume prima che arrivi la piena più copiosa. Non è in questo che già Machiavelli individuava la virtù politica per eccellenza?

a cura di Mariano Borgognoni su Rocca

L’INTERVISTA
ROCCA 15 APRILE 2017
rocca-08-2017
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4 Responses to Lavoro. A colloquio con Domenico De Masi su Rocca

  1. […] Pietro Greco su Rocca i robot e un nuovo modello di sviluppo Ha ragione Domenico De Masi. Con ogni probabilità, quello che ci attende è un futuro di piena disoccupazione. Con pochi, […]

  2. […] non lontano. provocazione visione possibilità L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le […]

  3. […] non lontano. provocazione visione possibilità L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le […]

  4. […] riflessioni di De Masi sul lavoro (1) ci sono aspetti che convincono – sollecitando il sempre ottimo esercizio […]

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