Europa?

bandiera-SardegnaEuropa3SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015 – ALTRA EUROPA
Europa, l’inganno delle celebrazioni
di Barbara Spinelli
eddyburg
«Una oligarchia sovranazionale sempre più lontana dalla vita reale della gente cerca una nuova legittimità presentandosi come protettrice necessaria e benefica, a prescindere dai contenuti e dagli effetti delle sue politiche». il Fatto quotidiano, 23 marzo 2017
L’Unione europea si appresta a celebrare il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma manifestandosi sotto forma di un immenso accumulo di spettacoli. Come nelle analisi di Guy Debord, tutto ciò che è direttamente vissuto dai cittadini è allontanato in una rappresentazione.
[segue]
Le celebrazioni sono il luogo dell’inganno visivo e della falsa coscienza. Non mancheranno gli accenni ai padri fondatori, e perfino ai tempi duri che videro nascere l’idea di un’unità europea da opporre alle disuguaglianze sociali, ai nazionalismi, alle guerre che avevano distrutto il continente. Anche questi accenni sono inganni visivi. Lo spettacolo delle glorie passate si sostituisce al deserto del reale per dire: “Ciò che appare è buono, e ciò che è buono appare”.

La realtà dell’Unione va salvata da quest’operazione di camuffamento. Come ricorda il filosofo Slavoj Žižek, la domanda da porsi è simile a quella di Freud a proposito della sessualità femminile: “Cosa vuole l’Europa?”. Cosa vuole l’élite che oggi pretende di governare l’Unione presentandosi come erede dei fondatori, e quali sono i suoi strumenti privilegiati?

La prima cosa che vuole è risolvere a proprio favore la questione costituzionale della sovranità, legittimando l’oligarchia sovranazionale e prospettandola come una necessità tutelare e benefica, quali che siano i contenuti e gli effetti delle sue politiche. Il primo marzo, illustrando il Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Ue, il Presidente Juncker è stato chiaro: “Non dobbiamo essere ostaggi dei periodi elettorali negli Stati”. In altre parole, il potere Ue deve sconnettersi da alcuni ingombranti punti fermi delle democrazie costituzionali: il suffragio universale in primis, lo scontento dei cittadini o dei Parlamenti, l’uguaglianza di tutti sia davanti alla legge, sia davanti agli infortuni sociali dei mercati globali. Scopo dell’Unione non è creare uno scudo che protegga i cittadini dalla mondializzazione, ma facilitare quest’ultima evitandole disturbi. Nel 1998 l’allora presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer invitò ad affiancare il “suffragio permanente dei mercati globali” a quello delle urne. Il binomio, già a suo tempo osceno, salta. Determinante resta soltanto, perché non periodico bensì permanente, il plebiscito dei mercati.

In quanto potere relativamente nuovo, l’oligarchia dell’Unione ha bisogno di un nemico esterno, del barbaro. Oggi ne ha uno interno e uno esterno. Quello interno è il “populismo degli euroscettici”: un’invenzione semantica che permette di eludere i malcontenti popolari relegandoli tutti nella “non-Europa”, o di compiacersi di successi apparenti come il voto in Olanda (“È stato sconfitto il tipo sbagliato di populismo” ha decretato il conservatore Mark Rutte, vincitore anche perché si è appropriato in extremis dell’offensiva anti-turca di Wilders). Il nemico esterno è oggi la Russia, contro cui gran parte dell’Europa, su questo egemonizzata dai suoi avamposti a Est, intende coalizzarsi e riarmarsi.

La difesa europea e anche l’Europa a due velocità sono proposte a questi fini. Sono l’ennesimo tentativo di comunitarizzare tecnicamente le scelte politiche europee tramite un inganno visivo, senza analizzare i pericoli di tali scelte e ignorando le inasprite divisioni dentro l’Unione fra Nord e Sud, Est e Ovest, Stati forti e Stati succubi. Si fa la difesa europea tra pochi come a suo tempo si fece l’euro: siccome il dolce commercio globale è supposto generare provvidenzialmente pace e democrazia, si finge che anche la Difesa produrrà naturaliter unità politica, solidarietà, e pace alle frontiere e nel mondo. Da questo punto di vista è insufficiente reclamare più trasparenza dell’Ue. Il meccanismo non è meno sbagliato se trasparente.

All’indomani della crisi del 2007-2008, la Grecia è stata il terreno di collaudo economico e costituzionale di queste strategie. L’austerità e le riforme strutturali l’hanno impoverita come solo una guerra può fare, e l’esperimento è additato come lezione. La Grecia soffre ormai la sindrome del prigioniero, ed essendosi sottomessa al memorandum di austerità deve allinearsi in tutto: migrazione, politica estera, difesa. Deve perfino sottostare alla domanda di cambiare le proprie leggi in modo da permettere la detenzione dei rifugiati e le loro espulsioni verso Paesi terzi. Nel vertice di Malta del 3 febbraio si è evitato per pudore di menzionare l’obiettivo indicato nell’ordine del giorno: ridefinire il principio di non-respingimento iscritto nella Convenzione di Ginevra.

La politica su migrazione e rifugiati è strettamente connessa ai nuovi rapporti di forza che si vogliono consolidare. Il fallimento dell’Unione in questo campo è palese, e l’élite che la governa ne è cosciente. L’afflusso di migranti e rifugiati non è alto (appena lo 0,2 per cento della popolazione Ue), ma resta il fatto che la paura è diffusa e che a essa occorre dare risposte al tempo stesso pedagogiche e convincenti. Se non vengono date è perché sulle paure si fa leva per sconnettere scaltramente le due crisi: quella economica e sociale dovuta a riforme strutturali tuttora ritenute indispensabili, e quella migratoria. Basta ascoltare i municipi che temono i flussi migratori: come fare accoglienza, se i comuni sono costretti a liquidare i servizi pubblici e ad affrontare emergenze abitative? Questo nesso è ignorato sia dai fautori dell’austerità, sia dalle destre estreme che la avversano. Lo è anche dalle sinistre che si limitano a difendere i diritti umani dei migranti e non – in un unico pacchetto, con gli occhi aperti sui rischi di dumping sociale – i diritti sociali di tutti, connazionali e non.

Se decidesse di combattere la crisi con un New Deal, mettendosi in ascolto dei cittadini (della realtà), l’Unione potrebbe trasformarsi in una terra di immigrazione, così come la Germania si è con il tempo trasformata da terra di immigrati temporaneamente “ospiti” (Gastarbeiter) in terra di immigrati con diritti all’integrazione e alla cittadinanza. Il New Deal non c’è, e il legame tra le varie crisi è negato per meglio produrre un’Europa rimpicciolita, basata non già sulla condivisione di sovranità ma sul trasferimento delle sovranità deboli a quelle più forti (nazionali o sovranazionali).

Ultima realtà occultata dalla società dello spettacolo che si auto-incenserà a Roma: il Brexit. Per le élite dell’Unione è la grande occasione: adesso infine si può “fare l’Europa” osteggiata per decenni da Londra. Sia il compiacimento dell’Unione sia quello di Theresa May sono improvvidi: se non danno assoluta priorità al sociale i Ventisette perdono la scommessa del Brexit; se il Brexit serve per demolire ulteriormente il già sconquassato welfare britannico, Theresa May si troverà alle prese con chi ha votato l’exit per disperazione sociale. Anche in questo caso viene misconosciuta o negata la sequenza cruciale: quella che dal dramma ricattatorio del Grexit ha condotto al Brexit. È l’ultimo inganno visivo delle cerimonie romane.
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SOCIETÀ E POLITICA » EVENTI» 2015-ALTRA EUROPA
Disobbediente e costruttivo: il terzo spazio di Varoufakis
di Roberto Ciccarelli su il manifesto.
«L’ex ministro greco, presenta un New Deal europeo. Un piano in due tempi: subito proposte dirompenti per l’economia e il lavoro, poi una Costituzione che sostituisca i trattati». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)

Diem 25 (Democracy in Europe Movement), il movimento paneuropeo fondato dall’ex ministro greco dell’economia Yanis Varoufakis un anno fa a Berlino, oggi torna a Roma per presentare il suo programma economico. È il primo passo per approntare un’agenda «progressista» nella prospettiva delle elezioni europee del 2019. Entro il 2025, Diem intende «democratizzare l’Unione Europea», sempre che ne esisterà una tra otto anni. Nel frattempo propone un «dialogo» con le forze politiche esistenti per individuare una forma politica capace di dare vita a un «terzo spazio» oltre i liberismi, i sovranismi e i populismi «che vogliono recuperare un passato che non è mai esistito e vivono del rigetto dell’establishment» sostiene il co-fondatore italiano Lorenzo Marsili. Sul piatto Diem mette 60 mila iscritti in Europa, 8 mila in Italia. Oggi Varoufakis sarà alla manifestazione «La nostra Europa» che parte alle 11 da piazza Vittorio.

Dalla dichiarazione di Roma oggi non arriverà alcuna svolta per un’Europa agonizzante. Il futuro sarà l’Europa a due velocità sostenuta da Italia, Spagna, Francia e Germania, ma rifiutata dal blocco dell’Est?
Questa soluzione mi intristisce. Esiste già da molto tempo. È un revival della proposta Juncker sulle geometrie variabili dell’Unione Europea. Se questo è il futuro significa che questi politici si dichiarano già sconfitti e non sanno dove portare questo continente. Quella che stanno celebrando è la distruzione dell’Unione Europea e il suo approccio business as usual che alimenta populismo, xenofobia e reazione.

Cosa propone Diem 25 per uscire da questa impasse?
Una strategia in due tempi: ora un New Deal europeo, proposte economiche dirompenti, attuabili già da domani mattina, a trattati vigenti di cui non sono affatto orgoglioso. Dopo avere affrontato seriamente il problema della povertà di massa e della cronica mancanza di investimenti, promuovere un’assemblea costituente paneuropea che elabori una costituzione democratica e sostituisca tutti i trattati.

Un tentativo di costituzione europea è stato respinto nel 2005 dai referendum in Francia e in Olanda, soprattutto da sinistra che ha contestato la natura neoliberista di quel testo. Questo nuovo, eventuale, tentativo sarà diverso e in che modo?
Non può che essere diverso. La prospettiva è costruire una repubblica europea su base federalista e che coinvolga tanto i parlamenti quanto le autonomie locali, sempre a partire dai cittadini e dalle loro città. Questo non sarà possibile farlo finché l’Europa continuerà a disgregarsi. Non sarà possibile parlare di una simile prospettiva finché dalla Grecia alla stessa Germania ci sarà la paura di perdere il lavoro o di non trovarlo.

Cosa prevede il «New Deal europeo» che presenterà stasera alle 20 al teatro Italia di Roma?
Un piano di investimenti per la riconversione ecologica da finanziare con un nuovo uso del Quantitative Easing con il quale, oggi, la Bce di Draghi acquista titoli di stato e delle imprese. È basato su un rilancio della Banca Europea degli investimenti. La Bce dovrebbe acquistare i suoi bond per finanziare gli investimenti. Inoltre vanno assicurati i beni di prima necessità e il diritto a un alloggio degno da finanziare con i profitti delle banche centrali europee. I rendimenti del capitale e della finanza vanno socializzati.

Diem 25 si sta configurando come un movimento politico trans-europeo. Quali saranno i suoi prossimi passi?
Abbiamo rivolto un invito aperto, e non una lista di cose da fare, ai partiti, sindacati, movimenti, ai cittadini. Confrontiamoci nei prossimi due mesi. Il 25 maggio ci incontreremo alla Volksbühne di Berlino, a un anno dalla nostra fondazione, per avviare un processo politico elettorale in vista delle prossime europee. Il processo prenderà forme diverse in ogni paese per dare una declinazione nazionale dell’agenda che avremo discusso e condiviso.

Da De Magistris a numerosi esponenti delle associazioni e delle sinistre fino a D’Alema, sono numerosi i soggetti interessati a un discorso critico e rifondativo dell’Europa politica. Ma seguono opzioni non proprio convergenti. Quale spazio avrà Diem?
De Magistris ha aderito al nostro movimento, molti esponenti della sinistra italiana sono interessati. D’Alema ha iniziato a fare un discorso molto critico su quello che è diventata l’Europa. Sta a lui capire se vuole parlare con noi. Il nostro documento sul New Deal non è la bibbia, stabilisce i parametri per un confronto.

Quali sono i vostri obiettivi?
Creare un’infrastruttura che possa permettere alle sinistre, e a un’area politico-culturale più ampia, di avviare un dialogo diverso da quello che esiste oggi. È il nostro lavoro: aprire lo spazio affinché questo possa avvenire a livello continentale.

Cosa risponde a chi, da sinistra, vuole uscire dall’Euro e dall’Unione Europea?
L’Unione Europea, per com’è stata costruita, è una cattiva idea. Lo sostengo dal 1998. La Grecia non doveva entrarci. E questo non lo dico perché sono anti-europeo, ma perché era insostenibile la sua permanenza. Di questa realtà bisogna tuttavia fare un’analisi dinamica e non statica. Gli eventi sono determinati da una molteplicità di cause. Ora non basta dire che l’uscita ci porterà al punto dove l’Unione Europea non ci porterà mai. La nostra proposta è seria, modesta e internazionalista, basata su una disobbedienza costruttiva. A differenza dei left-exiters il nostro piano A non prevede l’uscita dall’Unione Europea, ma un meccanismo per gestire gli effetti negativi di una possibile disgregazione dell’Eurozona. Quando l’establishment metterà una pistola alla tempia, come ha fatto con me quando facevo il ministro dell’Economia della Grecia, allora sarà possibile dire: fallo. E ne pagherai le conseguenze. Dobbiamo condividere le responsabilità politiche e smetterla di accusarci a vicenda.
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60 ANNI DAL TRATTATO DI ROMA
Philippe Daverio: «L’Europa è in crisi? Colpa di élite del cavolo»
Il celebre intellettuale, in occasione del 60° anniversario dei trattati di Roma: «L’Unione è nata attorno al carbone e all’acciaio, non abbiamo mai pensato alla cultura come fattore di sviluppo. Intellettuali? Sono il problema e la soluzione. Le Pen? Una caricatura. Merkel? Bismarck in gonnella»
di Francesco Cancellato
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«Se lei va in qualunque museo europeo, da Dresda al Louvre, dal Victoria & Albert Museum, dalla National Gallery al Prado, lei trova già l’Europa, là dentro. Fianco a fianco, ci sono i fiamminghi e il rinascimento italiano, gli impressionisti francesi e i romantici inglesi». È dove meno te l’aspetti, la chiave per rilanciare il sogno europeo. In cornice, nei corridoi di un’esposizione. O tra quelle élite culturali, politiche, economiche massacrate dai populisti, nel contempo problema e soluzione dei guai della tanto bistrattata Unione. A pensarla così è un intellettuale come Philippe Daverio, a margine dell’incontro “La cultura salverà l’Europa?” organizzato a Roma, in occasione delle celebrazione dei sessant’anni dalla firma del Trattato di Roma presso gli spazi di Luiss Enlabs da Culturally.eu in collaborazione con Linkiesta.it: « L’Europa sono i momenti di connessione che formano da sempre la nostra cultura: pensi a Georg Friedrich Haendel, da Hannover, che viene a Roma e grazie al cardinale Ottoboni si mette a fare il clavicembalista con Scarlatti. E da lì va a Londra a fare il musicista di corte di Giorgio I e della famiglia reale inglese».

Daverio, prima obiezione. Qualche artista non fa primavera…
Sa qual è stato il momento in cui l’Europa è stata più unita che mai?

Quale?
Il Medioevo.

Ma se si scannavano tutti…
Sì, ma è anche l’epoca del monachesimo e della conventualità che sono i due primi grandi fenomeni di europeismo. La riforma di San Francesco e di Domenico da Guzman approvata dallo stesso papato di Odorio III, forma una specie rete di intelligence che arriva ovunque, dall’Irlanda fino all’Ungheria. Il medioevo è un’era di deambulazione perfetta, funzionava meglio che con Schengen. Tommaso d’Aquino, per dire, va a piedi a Parigi, e poi da Parigi a Colonia.

Com’è che prosegue, la Storia?
Col trattato di Westfalia del 1648. È lì che l’Europa comincia a diventare un affare di Stati. Ne ha un po’ colpa la Germania, la rissa tra cattolici e protestanti, ma soprattutto la Francia di Luigi XIII, sobillato da quel geniale figlio di mignotta che è il cardinale Mazzarino, che fa nascere lo Stato francese. C’è quella bella frase di Blaise Pascal: «La verità è di qua dei Pirenei, l’errore è di là». Le barriere diventano stabili. L’Europa dell’impero, poi Europa dei popoli, diventa Europa delle nazioni, quella che darà origine alle tre guerre suicide dal 1870 al 1945.

E oggi che Europa è?
Oggi stiamo ragionando di una nuova fase, quella dell’Europa unita, ma siamo ancora in transizione.

Cosa ci manca?
La lingua, per prima cosa. Nel medioevo c’era il latino, e il latino univa. L’Europa sconta la mancanza di una lingua comune, ma è ia sua caratteristica. Noi abbiamo sempre questo sogno o questo incubo dell’impero che torna, di un nuovo Napoleone, o di un nuovo Hitler in arrivo. La genesi delle nazionalità è proprio nei francesi che nel ‘200 si oppongono all’impero.
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«Abbiamo elite fiacche, del cavolo, senza muscoli. Merkel è una piccola Bismarck in gonnella, per dire. Non da meno, la Le Pen è la versione caricaturale dell’autonomia francese del ’200.A noi, oggi, serve una nuova élite che sia almeno trilingue. Le élite dovrebbero essere rilanciate alla grande»
Philippe Daverio
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Il latino però era parlato solo dalle élite…
E allora? Le élite culturali allora erano un contropotere. Anch’esso transnazionale, peraltro. Guglielmo da Occam, partiva da Occam, dal sud della Francia se la prendeva con l’impero e poi se ne andava a Monaco di Baviera. Era l’Europa degli intellettuali, quella. E loro erano un contropotere. E si ricorda cosa diceva all’imperatore? Difendimi con la spada, io ti difenderò con la penna. Oggi quell’élite consapevole non c’è.

Come mai?
Per tanti motivi.

Almeno uno, suvvia…
Il mondo mercantile tende a essere internazionale, il mondo della grande produzione industriale tende a essere nazionalista. Dopo due guerre sanguinose, l’Europa decide di estirpare alla radice uno degli elementi costitutivi del nazionalismo e non a caso nasce attorno alla Comunità del carbone e dell’acciaio. Per togliere ossigeno al nazionalismo. La cultura in quella fase non viene percepita come questione basilare. Né tantomeno la formazione delle élite.

Quindi, lei dice, oggi serve ripartire da qua, dalla cultura e dalle élite…
E certo! Dobbiamo seguire la lezione di Pareto quando parlava della circolazione delle élite dall’alto verso il basso. La nostra aristocrazia, allora, era almeno trilingue. A noi, oggi, serve una nuova élite che sia almeno trilingue. Le élite dovrebbero essere rilanciate alla grande.

Ma il popolo odia le élite…
C’è sempre stata la rivolta del popolo contro le élite, è dialettica. Altrimenti dovremmo buttare nel cesso Hegel. In Gran Bretagna il Bremain ha vinto benissimo a Oxford e Canbridge e perso malissimo nelle periferie di Liverpool. Non è un caso.

Però uno dei blocchi che forma l’intellettualità transnazionale è proprio l’internazionalismo socialista, che teorizza la saldatura tra le avanguardie e le masse…
Il rapporto élite-masse è molto complesso e oggi non è più basato sulla lotta di classe. Ancora cinquant’anni fa, a Lecco, 10mila persone entravano con le loro biciclette in una fabbrica. Suonava la sirena e mangiavano. Suonava la sirena e uscivano. La domenica andavano alla casa del popolo o in chiesa. Fine. Loro erano massa. Oggi c’è la moltitudine, in cui ognuno va per la sua direzione, come nel Medioevo. E la moltitudine ha bisogno della Tavola di Re Artù e delle élite. Un élite che si fa i fatti suoi e che non pensa alla rivluzione. Ma che ha una forza osmotica, di filtrazione e stimolo, con la piazza.

Quelle di oggi sono talmente osmotiche che in Gran Bretagna trionfa la Brexit, e in America Trump, solo per far loro un dispetto.
Perché abbiamo elite fiacche, del cavolo, senza muscoli. Culturali, e anche politiche, intendiamoci. Merkel è una piccola Bismarck in gonnella, per dire. Non da meno, la Le Pen è la versione caricaturale degli autonomisti francesi del ’200 che volevano emanciparsi dall’impero. Siamo ancora lì.

Chi, allora?
Sono gl imprenditori – grandi, piccoli o startupper che siano – a incarnare le nuove élite, più di chiunque altro, oggi in Europa. Perchè sono transnazionali, al passo con l’innovazione, idealisti e pragmatici assieme. E sanno comunicare valori e identità, a differenza di intellettuali e politici. Bisognerebbe farla partire da loro, la rinascita dell’Europa.

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Rispondi a Oggi domenica 26 marzo 2017 | Aladin Pensiero Annulla risposta

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