Lavoro. La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico?

LAVORO
Le cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout
di Giovanni Marco Santini su LabSus 14 marzo 2017

La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico? Si domandava Gregorio Arena in un editoriale di qualche anno fa. La risposta era ovviamente positiva, riferendosi alle opportunità legate all’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale per la riqualificazione del patrimonio pubblico. Ma rispetto alle imprese private, la sussidiarietà può salvare posti di lavoro? Per rispondere a questa domanda abbiamo letto la ricerca “Le nuove cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout” portata avanti da Sara Depedri, Stefania Turri e Marcelo Vieta, nell’ambito di un progetto Euricse.

Il fenomeno del Workers Buyout
Un Workers Buyout (WBO) è un’acquisizione o un salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che vi hanno lavorato. Un fenomeno sviluppatosi principalmente in Argentina, e più in generale nell’America Latina, ma che ha avuto fortuna anche in Francia, Spagna e Italia. La prima parte della ricerca si è concentrata sul caso italiano e sulle sue peculiarità: la lunga storia di cooperativismo, riconducibile già ai primi anni del ‘900, e la legge Marcora, emanata nel 1985 che stabilisce contributi alle cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione, agevolazioni finanziarie e un fondo che eroga prestiti a tasso agevolato per riconvertire le strutture industriali. Un meccanismo negoziato che richiede un approccio collaborativo tra tutti gli attori in gioco: i lavoratori, lo stato, le istituzioni cooperative. Le cooperative di lavoratori sono considerate, a ragione, uno strumento anticiclico per rispondere alla disoccupazione e alle contrazioni del mercato del lavoro. I dati mostrano una correlazione diretta tra congiunture economiche sfavorevoli e la nascita di WBO, testimoniato anche dal rinnovato utilizzo successivo alla crisi finanziaria del 2007.

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La fotografia del fenomeno italiano
Lo studio ha analizzato le 243 cooperative che hanno sfruttato il meccanismo previsto dalla legge e ha cercato di capire il reale valore di queste esperienze e le caratteristiche del “modello italiano”. Dall’analisi emerge come il 75,5% dei WBO sia distribuito tra Centro e Nord Est, dato coerente con la natura di queste aziende, che per il 65,4% operano nel settore manifatturiero. Il fenomeno dei WBO riguarda principalmente le piccole imprese (tra i 10 e i 50 lavoratori) e le medie imprese (tra i 50 e i 250 dipendenti) che sono, rispettivamente, il 68,4%, e il 21,9% del totale; mentre sembra essere stato adottato i maniera più marginale nelle micro imprese (meno di 10 lavoratori) che sono l’8,8% del totale, e nelle aziende con più di 250 dipendenti, che infatti rappresentano solo lo 0,9%. Delle 243 cooperative analizzate 121 sono ancora attive (pari al 49,8). L’analisi dei dati dei WBO esistenti in Italia dagli anni ’80 pone in luce un buon tasso di sopravvivenza di queste realtà, con una vita media di poco inferiore ai 13 anni. Tale dato è inferiore alla vita media di tutte le cooperative italiane, pari a 17 anni, ma è quasi pari alla vita media delle imprese italiane (13,5 anni). Inoltre il 35,3% delle cooperative di lavoro recuperate ha avuto una vita attiva superiore ai 16 anni. La resistenza dei WBO in Italia è ulteriormente confermata se si considera che quasi l’85% dei WBO nati dal 2004 ad oggi sono ancora attivi. Le cooperative di lavoratori sembrano essere piuttosto resilienti e le motivazioni sembrano essere intrinseche al modello: il metodo democratico nel decision making, la preferenza data alla flessibilità piuttosto che al licenziamento, la maggiore disponibilità all’aggiustamento dei salari nei momenti di recessione e l’integrazione con le comunità locali. Una serie di elementi che ne favoriscono la robustezza.

Le caratteristiche principali
La ricerca individua quindi cinque caratteristiche relative all’emersione delle cooperative di lavoratori italiane. Innanzitutto la marcata correlazione tra recessioni macro economiche e aumento di autogestioni evidenzia il valore anticiclico di queste esperienze. La seconda caratteristica è rappresentata dalla propensione delle piccole e medie imprese a convertirsi in cooperative quando sono situate in una rete con altre imprese. Il terzo aspetto riguarda il processo produttivo, ossia le cooperative tendono a nascere in settori ad alta intensità di manodopera qualificata piuttosto che in quelli a forte intensità di capitale e manodopera non qualificata. La quarta caratteristica è relativa alla disposizione geografica dei WBO, questi infatti le sorgono laddove ci sono lavoratori specializzati e insediati geograficamente. Cinque, le cooperative tendono a nascere in realtà in cui esistono forti legami interni: le piccole e medie imprese hanno la giusta dimensione per favorire la solidarietà e meccanismi di partecipazione.

In conclusione possiamo dire che i WBO “tendono a promuovere politiche gestionali solidali volte prioritariamente alla tutela dell’occupazione, (…) facendo prevalere gli obiettivi sociali su quelli di profitto”, e così sembrano essere generati da quelle relazioni di condivisione che sono “l’essenza della sussidiarietà”. Ascrivendosi a pieno titolo tra le pratiche collaborative improntate alla sussidiarietà, i WBO si qualificano come “ammortizzatori sociali” e producono esternalità positive per i territori e le comunità in cui sorgono.
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RICERCHE
Sharing Economy
Maria Cristina Marchetti – 21 agosto 2016, su LabSus

Chissà quanti nel programmare le loro vacanze sceglieranno di alloggiare presso uno dei tanti appartamenti messi a disposizione da Airbnb o si rivolgeranno a Uber o a BlaBlacar per i loro spostamenti. Ebbene questi sono solo alcuni degli esempi di sharing economy sui quali la Commissione europea ha deciso di intervenire con una comunicazione dal titolo: “Un’agenda europea per l’economia collaborativa”.
Secondo la Commissione, “l’espressione ‘economia collaborativa’ si riferisce ai modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. L’economia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale (“pari”) sia prestatori di servizi nell’ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione — attraverso una piattaforma online — i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (“piattaforme di collaborazione”). Le transazioni dell’economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effettuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro”.

Con ricavi totali lordi che si attestano intorno a 28 miliardi di euro nel 2015 nella sola Unione europea e con una crescita stimata fino a 572 miliardi di euro, la sharing economy resta un fenomeno controverso che ha reso necessario l’intervento della Commissione.

Una delle questioni più dibattute è l’accesso al mercato, che rinvia ad un nuovo modello imprenditoriale nei confronti del quale la normativa vigente rischia di apparire inadeguata. “Una specificità dell’economia collaborativa – afferma la Commissione è che i prestatori di servizi sono spesso privati che offrono beni o servizi su base occasionale e “tra pari” (peer-to-peer)”. Una questione fondamentale diventa quella di distinguere tra i prestatori di servizi professionali e i prestatori tra pari, con riferimento alla necessità o meno di richiedere licenze o autorizzazioni.

Diverso ancora è il discorso per le piattaforme che si pongono come intermediari tra i prestatori di servizi e gli utenti finali. “Se — e in quale misura — le piattaforme di collaborazione possono essere soggette ai requisiti di accesso al mercato dipende dalla natura delle loro attività”. Possono infatti limitarsi a fare da intermediari oppure fornire a loro volta servizi sia agli utenti che agli intermediari.

La tutela degli utenti, la differenza tra lavoratore autonomo e subordinato, la fiscalità sono solo altre delle questioni sollevate dalla sharing economy nei confronti delle quali la Commissione sembra tenere un atteggiamento di apertura. “In considerazione dei notevoli vantaggi che possono derivare dai nuovi modelli imprenditoriali dell’economia collaborativa, l’Europa dovrebbe essere pronta ad accogliere queste nuove opportunità. L’UE dovrebbe sostenere in modo proattivo l’innovazione, la competitività e le opportunità di crescita offerte dalla modernizzazione dell’economia. Al tempo stesso è importante garantire condizioni di lavoro eque e una protezione sociale e del consumatore adeguata e sostenibile”.

Non mancano i dubbi sul fatto che la sharing economy non si avvii a diventare un altro modello di business in cui le piattaforme non si limiteranno a fornire l’infrastruttura digitale, ma agiranno come veri e propri imprenditori.

Ciò che resta interessante è che dietro questo fenomeno si intravede un mutamento culturale di lungo periodo, più volte segnalato dalla letteratura a partire dalla fine degli anni novanta (basti pensare all’era dell’accesso di Rifkin), che ridefinisce i modelli imprenditoriali conosciuti, ma anche le modalità di fruizione dei beni. È una rivoluzione culturale dalle implicazioni interessanti e degne di essere monitorate con attenzione negli anni a venire.

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