E’ Natale!
“Oggi è nato per voi un Salvatore”
di ENZO BIANCHI, priore di Bose.
Lc 2,1-14
1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2 Questo primo censimento fu fatto quando Quirinio era governatore della Siria. 3 Tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. 4 Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. 5 Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta. 6 Mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio.
8 C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. 9 Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande timore, 10 ma l’angelo disse loro: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia». 13 E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: 14 «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Per secoli i primi cristiani festeggiarono come festa delle feste la Pasqua di resurrezione di Gesù il primo giorno della settimana ebraica, diventato per loro “giorno del Signore” (Ap 1,10), mentre non sappiamo se in qualche comunità del Mediterraneo si ricordasse la nascita di Gesù con una festa particolare. Nel IV secolo, dopo l’editto di Costantino e la libertà di culto concessa ai credenti in Cristo, avvenne la cristianizzazione di una festa pagana introdotta poco prima dall’imperatore Aureliano (270 ca.), e celebrata a Roma come festa del Sol invictus, del “Sole vincitore”, che in quel giorno comincia ad allungare il suo tempo di luce sulla terra. Per i cristiani Gesù il Signore era “il sole di giustizia” cantato da Malachia (Ml 3,20; cf. Lc 1,78) era “la luce del mondo” proclamata dal vangelo (Gv 8,12). Ecco allora che in occidente la rinascita del Sol invictus pagano è stata cristianizzata mediante la festa del Natale, della Natività di Gesù Cristo. Parallelamente, in oriente (Egitto e Siria), dove il solstizio d’inverno cade il 6 gennaio, si assunse quella data per celebrare l’Epifania come festa della manifestazione della venuta del Figlio di Dio nella nostra umanità.
Questa l’origine della nostra festa, che da sempre ha al suo centro il vangelo della nascita di Gesù secondo Luca. Nella messa della notte, celebrata nel cuore delle tenebre, rifulge una grande luce: Gesù, partorito da Maria a Betlemme. Questo racconto non è una favola, anche se sembra scritto per i bambini, che significativamente lo ricordano per tutta la vita, ma è una pagina del vangelo, una buona notizia! Per questo Luca vuole innanzitutto situare tale evento nella grande storia del Mediterraneo, contrassegnata dal dominio dell’impero romano. Cesare Augusto decide di contare i cittadini di tutte le terre conquistate da Roma: per questo ordina un censimento, eseguito nella terra di Israele da Quirinio, governatore della Siria. Giuseppe obbedisce a quest’ordine e, insieme alla moglie Maria, lascia la sua città di Nazaret per recarsi a Betlemme, in Giudea, nel sud della terra santa, là dove aveva avuto origine la casa e la discendenza di David, il Messia, l’unto del Signore, il re di Israele.
Mentre questa coppia si trova a Betlemme, in una condizione precaria e di povertà non avendo trovato posto nel caravanserraglio, in una piccola costruzione, appena un riparo nella campagna, Maria che è incinta dà alla luce il suo figlio primogenito, annunciato a lei per rivelazione come generato dallo Spirito di Dio (cf. Lc 1,35), un Figlio che solo Dio poteva dare all’umanità tutta. Qui vi è già una forte contrapposizione, che caratterizzerà tutta la vicenda di questo neonato. Chi domina il mondo è Augusto – chiamato Divus, “Dio”; Sotér, Salvatore; Kýrios, Signore –, ma il vero Salvatore e Signore è un suo suddito, un bambino nato in una situazione povera, per il quale da subito sembra non esserci posto in questo mondo.
Conosciamo tutti bene l’icona della Natività: una capanna o una grotta, e Maria che adagia suo figlio in una mangiatoia, con accanto Giuseppe, testimone e custode di quel mistero nel quale viene coinvolto e al quale presta puntualmente obbedienza. Tutto accade nella notte, nel silenzio, nella condizione umanissima di una madre che partorisce un figlio. Nessuno conosce quella coppia, nessuno l’ha accolta, nessuno si è accorto di nulla. Ma ecco che Dio invia un suo messaggero ai pastori che si trovano sulle alture circostanti Betlemme, per alzare il velo su quell’evento: “un angelo del Signore si presentò a loro e la Gloria del Signore li avvolse di luce”. I pastori sono gente disprezzata, emarginata, neppure ritenuta degna di andare al tempio per incontrare il Signore. Ma proprio a questi ultimi della società di Giudea è rivolto l’annuncio, la buona notizia per eccellenza, che è gioia per tutto Israele, per tutto il popolo di Dio. Per la loro condizione di poveri e ultimi, i pastori sono i primi destinatari di diritto di questa buona notizia:
Oggi, nella città di David, del Messia,
è nato per voi un Salvatore, che è il Messia, il Signore.
In questo annuncio cogliamo come un anticipo della buona notizia pasquale: Gesù è il Kýrios, il Salvatore! Non Augusto, che vantava questi titoli, ma un infante appena nato riceve questi stessi titoli da parte di Dio. Così avviene la rivelazione ai piccoli, agli ultimi, dalla quale sono esclusi quanti credevano di esserne destinatari di diritto: sacerdoti, esperti della Legge, credenti militanti convinti di essere loro soli i veri figli di Abramo.
Ai pastori è dato anche un segno, un’indicazione perché possano vedere e comprendere; nulla di straordinario o di divino ma, di nuovo, una realtà umanissima: “Troverete un neonato avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Realtà semplice e umile, senza ornamenti, senza “straordinario”. Eppure questo annuncio è dato da un coro innumerevole di creature invisibili, in una sorta di liturgia cosmica, quella liturgia del cielo che non riusciamo a vedere né ad ascoltare ma che riempie l’universo e canta la santità e la gloria di Dio, cioè proclama chi e come Dio ama. Infatti, ciò che in quel canto corale viene rivelato è la volontà di Dio: “Dio ha peso (kabod, gloria), Dio agisce nel mondo anche se è Santo ed è nel più alto dei cieli, Dio dà la pace all’umanità che egli ama”.
Ecco la buona notizia del Natale: Dio ci ama a tal punto da aver voluto essere uno di noi, tra di noi, uguale a noi, un uomo come noi.
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25 dicembre 2016
Natale, messa della notte
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Isaia 9,1-6
Il profeta Isaia contempla la situazione del popolo di Israele nella terra promessa e donata da Dio e scorge un mistero di morte e resurrezione per la porzione del nord, quella abitata dalle tribù di Zabulon e di Neftali. Mentre egli scrive, queste terre sono desolate dopo la conquista e la deportazione ad opera degli Assiri (722 a.C.). Ma proprio questi territori periferici e umiliati un giorno saranno i primi a risorgere: vedranno una grande luce, la fine della schiavitù e della guerra, a causa della nascita di un bambino, dono di Dio al suo popolo. Un bambino chiamato con dei titoli inauditi: “Dio potente, Padre per sempre, Principe della pace”. Ecco il Messia glorioso e vincitore profetizzato da Isaia.
Lettera a Tito 2,11-14
L’Apostolo ricorda in sintesi l’evento della nostra salvezza: l’incarnazione, l’umanizzazione di Dio che è epifania, manifestazione della sua grazia, del suo amore gratuito che non va mai meritato. È significativo che Girolamo traduca: “È apparsa l’humanitas, l’umanità di Dio nostro Salvatore” (Tt 3,4, Vulgata). Sì, umanità che insegna alla nostra umanità, umanità come Dio l’ha pensata, voluta, creata e pienamente realizzata in suo Figlio, che è per sempre “grande Dio e Salvatore”.
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L’illustrazione in testa: auguri dei Volontari della Pro Civitate Christiana.
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Papa Francesco Natale 2016: “Questa mondanità ci ha preso in ostaggio il Natale, bisogna liberarlo”
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Cristianesimo come religione civile
Quale rapporto tra cristianesimo e società in un contesto di pluralismo di fedi e di crisi di valori condivisi?
sintesi della relazione di Giannino Piana
Verbania Pallanza, 21 gennaio 2006.
- segue –
I rapporti tra Cristianesimo e politica sono profondamente influenzati dai mutamenti avvenuti a seguito del processo di globalizzazione. La politica è in difficoltà sia per la presenza di poteri forti, come quello economico e quello della informazione, sia per la dimensione transnazionale dei problemi. La religione cristiana d’altra parte perde consenso all’interno ed è sempre meno influente all’esterno per l’avanzare del processo di secolarizzazione.
In questo contesto, la presenza sempre più massiccia in occidente di tradizioni religiose e culturali diverse è percepita come un attentato all’identità nazionale. Per questo riprende consistenza l’idea di “religione civile”, che rinvia ad una complessa eredità storica.
L’idea di “religione civile”
È Rousseau a formulare per la prima volta il concetto di religione civile, che distingue da altre forme religiose (religione dell’uomo, quella del prete e quella del cittadino), riconducendola di fatto ad un’etica finalizzata ad alimentare il senso dell’appartenenza collettiva. Si tratta quindi di una forma di religiosità generale, conseguibile con la ragione, che sta al di sotto delle fedi particolari e i cui contenuti sono l’esistenza di una divinità onnipotente e provvidenziale, la sopravvivenza personale dopo la morte e la retribuzione delle opere terrene. Questi contenuti danno solidità al contratto sociale, suscitando nel cittadino l’amore per le leggi, al di là della mera obbedienza strategica.
L’intento di Rousseau non è quello di rendere la religione funzionale all’utilità politica, ma di dare un fondamento etico alla politica. Permane però un’ambiguità, perché il concetto di religione civile se per un verso implica il riconoscimento che la politica non è autosufficiente, dall’altro favorisce la concezione dell’onnipotenza della politica. Si supera l’autonomia individuale con il ricorso a motivazioni sentimentali (paura delle sanzioni divine e amore per le leggi), che sopperiscono all’insufficienza di argomenti razionali.
Successivamente il processo di secolarizzazione in occidente enfatizza gli aspetti di onnipotenza della politica, con un ribaltamento di prospettiva: non è più la religione (eticizzata) a supportare la politica, ma è la politica a diventare religione, assumendo il carattere sacrale di assolutezza e di intangibilità.
La situazione attuale presenta caratteristiche nuove. L’odierno concetto di religione civile non può essere ridotto ad una concezione del cristianesimo, in cui la politica viene concepita come dipendente dalla fede né, inversamente, a una sacralizzazione della politica, che si appropria della dimensione religiosa. Ciò che oggi viene ricercato è un rapporto di mutuo sostegno tra cristianesimo e politica, rapporto ricercato per lo stato di precarietà in cui ambedue si trovano. Il dialogo si sviluppa pertanto su entrambi i fronti in termini di mera funzionalità: la politica ricorre infatti alla religione cristiana per difendere l’identità dell’Occidente dall’incursione di altre tradizioni culturali e religiose, che si presentano con una identità forte; mentre, a sua volta, il cristianesimo, divenuto minoritario, sembra ricuperare, nell’appoggio dato a una politica particolare, la propria visibilità storica e la possibilità di contare nei processi che guidano la vita collettiva. Si direbbe che venga riproponendosi, sia pure in un contesto diverso e con logiche diverse, una forma di “costantinianesimo”, caratterizzato dal riconoscimento dell’autonomia dei rispettivi ambiti – la secolarizzazione ha definitivamente sancito la loro distinzione – ma insieme dall’ammissione della necessità di una loro collaborazione, in ragione di interessi differenziati, che possono essere tuttavia meglio perseguiti (o tutelati) convergendo in una forma di accordo comune.
Due esperienze di “religione civile”
Il ritorno della religione civile riguarda non solo il nostro paese, ma anche gli Stati Uniti, dove assunto particolare evidenza in occasione della campagna presidenziale conclusasi con il secondo mandato a G. Bush.
il caso americano
La cultura politica americana ha avuto sempre un retroterra religioso, riconducibile ad un singolare intreccio tra pensiero ebraico e religiosità protestante, da cui deriva il robusto senso di appartenenza nazionale e la consapevolezza di essere un popolo eletto in vista di una particolare missione per l’intera umanità.
Queste convinzioni sono state alimentate dai numerosi movimenti fondamentalisti presenti in America e dalla diffusa percezione della presenza del divino nella società che porta a considerare la democrazia come teologia dominante e che trasforma il cristianesimo in fattore decisivo della stabilità nazionale per la sua capacità di conciliare sperimentalismo politico e coesione sociale (come osserva Tocqueville). La religione americana è dunque, per definizione, una religione politica, che incide sulla vita pubblica, cementando l’unità nazionale e stimolando processi di crescita comune; la politica americana a sua volta, iscritta com’è in termini immediati nella sfera religiosa, si ammanta di un carattere sacrale.
Questi tratti hanno assunto tinte ancora più forti dopo l’11 settembre 2001, con il riemergere di tendenze fondamentaliste e di stati di ansia apocalittici. Bush, anche per la sua provenienza texana e per l’esperienza personale di fuoriuscita dalla dipendenza dall’alcol grazie ad un percorso religioso (si ritiene un new born in Christ), è percepito come uomo della provvidenza dalla galassia di movimenti religiosi più conservatori e punto di riferimento per una parte consistente della popolazione, di cui fa proprie le istanze, cavalcandone le paure. Il suo programma elettorale di conservatorismo compassionevole, la condanna esplicita di alcune pratiche come l’aborto hanno esercitato un ruolo importante nella rielezione. La guerra in Iraq poi ha consentito a Bush di rispolverare un linguaggio ispirato a toni biblici e teologici, di enfatizzare la missione storica della nazione americana chiamata a farsi paladina della lotta del Bene contro il Male.
Il pericolo non è solo quello di un uso politico della religione, funzionale a restituire all’America una posizione centrale nel mondo, ma anche quello di conferire un alone religioso e sacrale alla politica vigente, assolutizzandola, indebolendo così la democrazia.
Quindi qui il concetto di religione civile ha una duplice accezione: da un lato indica una sorta di consacrazione dall’alto della politica, dall’altra il conferimento alla politica di una portata sacra, con attività il cui significato va oltre il livello umano (lotta del Bene contro il Male).
il caso italiano
Di segno diverso è il caso italiano. Il ritorno alla religione civile non coinvolge solo il rapporto tra mondo ecclesiale e uomini politici che si ispirano a credenze religiose, ma si estende anche ai laici, i cosiddetti atei devoti, privi di veri interessi per la religione, ma che fanno ricorso ad essa come strumento efficace per difendere il patrimonio di cultura e di valori dell’Occidente, patrimonio che ritengono in pericolo per la presenza di etnie, di culture e di religioni diverse, ed in particolare dell’islam.
Questo stato di cose, frutto di una pericolosa forma di complicità tra alte gerarchie ecclesiastiche e laici arroccati su posizioni di netta chiusura nei confronti di culture diverse, è stato lucidamente denunciato dalla Comunità di Bose nella Lettera dell’Avvento 2003, con osservazioni che meritano di essere, sia pure parzialmente, riportate.
“Oggi ci pare che la tentazione più seria che colpisce i testimoni del Signore Gesù fattosi uomo come noi, morto e risorto per ristabilire la piena comunione dell’umanità e del cosmo intero con Dio – scrivono le sorelle e i fratelli di Bose – venga dall’irresistibile fascino della religione civile. È il fascino di un cristianesimo visto anzitutto come cultura di un popolo, addirittura di una identità nazionale, che assicuri il ricompattarsi di una società e che si ammanta di evidenti risultati culturali: una presenza cristiana che inevitabilmente apparirà sempre più come la declinazione dell’equazione “cristianesimo uguale occidente”… C’è una richiesta – soprattutto da parte di quanti, politici o intellettuali, in massima parte estranei alla vita cristiana, ritengono di dover guidare le trasformazioni – di poter disporre dei cosiddetti valori cristiani come di una sorta di ‘vaso degli dei’ cui attingere per mantenere in buona salute la società, per darle unità di fronte ai pericoli esterni, per fornire coesione e ragioni trascendenti di fronte al nemico che si profila all’ orizzonte o che viene creato! È cosi che la chiesa viene ridotta a una potente lobby etico-sociale. E l’invito rivoltole in questo senso da intellettuali non cristiani trova purtroppo accoglienza favorevole anche da parte di autorevoli ecclesiastici che desiderano apprestare una chiesa forte, massicciamente visibile e presente negli spazi vuoti delle ideologie, una chiesa che sappia essere forza di pressione in società dove pure è diventata numericamente minoranza”.
Il rischio che stia avanzando in alcuni settori del mondo laico il tentativo di impadronirsi della religione cristiana per fini puramente utilitaristici è fuori discussione. L’interesse non è dettato da motivazioni di fede o da curiosità intellettuale, ma solo da motivi politici. La chiesa è spesso oggi ridotta a strumento posto al servizio di una cultura particolare; il che spiega perché vengano privilegiate le posizioni espresse dai settori più rigidi della gerarchia e perché si sollevi talora l’accusa di relativismo (da quale pulpito!) nei confronti di quei credenti che sollecitano il dialogo con altre culture e con altre credenze religiose. La religione è concepita come instrumentum regni, come guardiana di una cultura particolare contro le altre culture.
Sul versante ecclesiale il ricorso, presente nei fatti, all’idea di religione civile, è dettato dalla preoccupazione della chiesa di recuperare la propria influenza sulla società italiana. La dissoluzione dell’unità politica dei cattolici ha fatto venire meno un rapporto privilegiato con la politica, finalizzato ad esercitare una pressione sul potere politico per orientare la legislazione su temi eticamente sensibili e per garantire la conservazione e l’acquisizioni di privilegi.
La chiesa ha così cercato nuove forme di intervento nella società. La proposta del progetto culturale mira ad una forma di presenza nella società civile, per incidere sulla formazione delle mentalità e del costume. Sulla stessa linea si collocano altri interventi come la richiesta di mantenere il crocifisso in alcuni luoghi pubblici (scuole, tribunali, ecc.), con il rischio di ridurlo ad emblema della cultura nazionale e di sottrargli pertanto la carica eversiva originaria; o la collusione tra religione e nazione che si è prodotta in occasione del funerale per le vittime italiane di Nassirija – emblematica è stata sotto questo profilo l’omelia del Card. Ruini – ; o, infine (ma non ultima in ordine di importanza), la pressione esercitata – peraltro senza esito – per inserire nella Carta Costituzionale europea l’esplicito riferimento alla tradizione cristiana, in quanto fattore costitutivo della formazione dell’identità europea, sottovalutando, da un lato, la complessità e varietà delle radici culturali dell’Europa, difficilmente riconducibili ad un’unica matrice e dimenticando, dall’altro, che l’apporto della chiesa non ha favorito soltanto lo sviluppo di processi di crescita umana, ma ha anche talvolta determinato l’emergere di intolleranze, che vanno apertamente stigmatizzate.
La “religione civile” pertanto, oltre a favorire il ritorno di un clericalismo, che riduce il cristianesimo a un sistema di potere, finisce per provocare la sostituzione del ruolo evangelico della chiesa con quello politico dando origine a un doppio equivoco: la sconfessione dell’autonomia della politica a causa della intromissione della chiesa in essa e il mancato riconoscimento dell’autonomia del laicato, cui viene sottratta la gestione delle attività temporali affidatagli dal Vaticano II come campo di esercizio della mediazione storica dei valori evangelici. Ancora più grave è inoltre la perdita da parte della chiesa della propria identità spirituale: perdita che le sottrae la possibilità di essere autenticamente chiesa, di leggere cioè profeticamente i segni della presenza di Dio nella storia e di rendere testimonianza al regno che viene.
Un nuovo modello di rapporti tra cristianesimo e politica
L’esigenza del ritorno alla pratica della radicalità evangelica è dunque l’elemento fondamentale da ricuperare.
La possibilità che la chiesa pronunci una parola libera e profetica sulle grandi questioni del mondo odierno dipende da un atteggiamento di radicale spoliazione del potere, rinunciando alla propria autoaffermazione e acquisendo una vera autonomia da ogni sistema culturale e sociale. La pretesa di tutelare la propria identità mediante la pura e semplice riaffermazione dei valori appartenenti ad una tradizione culturale particolare contraddice l’universalità del cristianesimo e quindi la possibilità di incarnarsi in diverse culture. Lo stretto legame tra cristianesimo e cultura occidentale è stato causa di profonde ferite, non ancora del tutto rimarginate.
nessuna fuga dal mondo: la questione della laicità
Il rifiuto del modello di religione civile (rapporto con la politica basato su logiche di potere) non comporta una visione spiritualizzata del cristianesimo, senza alcuna rilevanza sociale. La laicità non può essere vista, come vuole la tradizione liberale e illuministica, mera separazione.
La critica di ogni forma di religione civile deve andare di pari passo con la critica di ogni forma di laicismo, che tende a confinare la religione nella sfera privata, riducendola a fenomeno che attiene alla coscienza personale, senza alcuna rilevanza sociale. Siamo oggi spinti a ripensare i rapporti tra religione e politica sia dalla crescente presenza di persone appartenente a tradizioni culturali e religiose diverse, sia per l’impossibilità di tracciare linee nette di demarcazione tra sfera del sacro e quella del profano.
L’esigenza poi di un giudizio critico del cristianesimo nei confronti della situazione presente emerge con forza dalla constatazione del pericolo di disumanizzazione insito in una forma di secolarizzazione di stampo economicista, causa di sperequazioni economiche e sociali inaccettabili, fautore di una ideologia centrata sull’utile produttivo e sul consumo.
Oggi la sfida è alta: si tratta di dare vita ad una figura di laicità che favorisca l’incontro tra tradizioni culturali e religiose diverse, avviando un dialogo coraggioso tra le varie componenti della società alla ricerca di valori alternativi all’ideologia dominante, che propongano cammini efficaci di promozione umana.
il modello della mediazione etica
Nei testi del Vaticano II è presente un modello di definizione dei rapporti tra cristianesimo e politica. Vi si afferma l’autonomia della politica, con l’esplicito riconoscimento del valore delle realtà temporali e con la piena valorizzazione del laicato che ha uno specifico ruolo di impegno nel mondo. Affermare l’autonomia della politica significa ammetterne la radicale laicità: la politica va studiata per se stessa, aprendosi – secondo la prassi democratica – al confronto con tutti i cittadini.
Autonomia e laicità non implica neutralità etica. La politica, in quanto attività finalizzata al bene umano, postula il riferimento ad alcuni valori (riconoscimento della centralità della persona e il rispetto della sua dignità, l’attenzione al bene comune dell’intera famiglia umana, la costruzione di un ordine rispettoso della uguaglianza di tutti i cittadini e volto a sollecitarne la responsabilità partecipativa, una solidarietà che privilegi i bisogni dei meno garantiti). Il perseguimento di dette finalità non può essere assicurato con il solo ricorso alla tecnica, ma esige il rimando all’etica, che ha le sue radici nell’esperienza razionale dell’uomo.
Alla fede non compete la soluzione tecnica dei problemi politici e neppure l’indicazione di orientamenti etico-normativi per affrontarli correttamente. La fede ha il compito di fornire all’attività umana un orizzonte di senso trascendente, che metta in condizione l’uomo insieme di radicalizzare (si pensi alle radicali esigenze contenute nel discorso della montagna) e di relativizzare l’impegno di trasformazione del mondo, mostrandone l’insufficienza per l’edificazione del regno.
Non è possibile pertanto ricavare dalla fede un progetto politico ben definito, come pure bisogna rifiutare la tentazione di rendere del tutto funzionale la fede alla politica (quando cioè il cristianesimo si trasforma in supporto a un sistema culturale e ideologico particolare.
L’ipotesi pertanto di religione civile è sconfessata sia in ragione dell’autonomia della politica, sia ancor più in ragione della specificità del messaggio evangelico, della sua irriducibilità a ogni modello culturale, ossia della sua universalità.
Solo a queste condizioni la proposta cristiana può ricuperare la sua incidenza sulla realtà sociale e politica, trasformandosi in coscienza critica di tutti i sistemi e di tutte le ideologie storiche e suscitare l’attesa per il regno che deve venire. È questo il senso vero della laicità che, come osserva acutamente Filippo Gentiloni, “è consapevolezza del limite di tutto, anche della politica, anche della chiesa, è tolleranza delle opinioni altrui, è coscienza di una verità che si costruisce giorno per giorno, che non è mai data per scontata né definitivamente raggiunta. È virtù vicina alla cristiana umiltà. È negazione di qualsiasi ideologia totalizzante. Il suo contrario non è dunque il religioso, ma l’integralismo”.
Notte di Natale 2016. L’omelia di Papa Francesco.
“È apparsa la grazia di Dio, che porta salvezza a tutti gli uomini”. Le parole dell’apostolo Paolo rivelano il mistero di questa notte santa: è apparsa la grazia di Dio, il suo regalo gratuito; nel Bambino che ci è donato si fa concreto l’amore di Dio per noi.
È una notte di gloria, quella gloria proclamata dagli angeli a Betlemme e anche da noi oggi in tutto il mondo. È una notte di gioia, perché da oggi e per sempre Dio, l’Eterno, l’Infinito, è Dio con noi: non è lontano, non dobbiamo cercarlo nelle orbite celesti o in qualche mistica idea; è vicino, si è fatto uomo e non si staccherà mai dalla nostra umanità, che ha fatto sua. È una notte di luce: quella luce, profetizzata da Isaia, che avrebbe illuminato chi cammina in terra tenebrosa, è apparsa e ha avvolto i pastori di Betlemme.
I pastori scoprono semplicemente che “un bambino è nato per noi” e comprendono che tutta questa gloria, tutta questa gioia, tutta questa luce si concentrano in un punto solo, in quel segno che l’angelo ha loro indicato: “Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. Questo è il segno di sempre per trovare Gesù. Non solo allora, ma anche oggi. Se vogliamo festeggiare il vero Natale, contempliamo questo segno: la semplicità fragile di un piccolo neonato, la mitezza del suo essere adagiato, il tenero affetto delle fasce che lo avvolgono. Lì sta Dio.
Con questo segno il Vangelo ci svela un paradosso: parla dell’imperatore, del governatore, dei grandi di quel tempo, ma Dio non si fa presente lì; non appare nella sala nobile di un palazzo regale, ma nella povertà di una stalla; non nei fasti dell’apparenza, ma nella semplicità della vita; non nel potere, ma in una piccolezza che sorprende. E per incontrarlo bisogna andare lì, dove Egli sta: occorre chinarsi, abbassarsi, farsi piccoli. Il Bambino che nasce ci interpella: ci chiama a lasciare le illusioni dell’effimero per andare all’essenziale, a rinunciare alle nostre insaziabili pretese, ad abbandonare l’insoddisfazione perenne e la tristezza per qualche cosa che sempre ci mancherà. Ci farà bene lasciare queste cose per ritrovare nella semplicità di Dio-bambino la pace, la gioia, il senso luminoso della vita.
Lasciamoci interpellare dal Bambino nella mangiatoia, ma lasciamoci interpellare anche dai bambini che, oggi, non sono adagiati in una culla e accarezzati dall’affetto di una madre e di un padre, ma giacciono nelle squallide “mangiatoie di dignità”: nel rifugio sotterraneo per scampare ai bombardamenti, sul marciapiede di una grande città, sul fondo di un barcone sovraccarico di migranti. Lasciamoci interpellare dai bambini che non vengono lasciati nascere, da quelli che piangono perché nessuno sazia la loro fame, da quelli che non tengono in mano giocattoli, ma armi.
Il mistero del Natale, che è luce e gioia, interpella e scuote, perché è nello stesso tempo un mistero di speranza e di tristezza. Porta con sé un sapore di tristezza, in quanto l’amore non è accolto, la vita viene scartata. Così accadde a Giuseppe e Maria, che trovarono le porte chiuse e posero Gesù in una mangiatoia, “perché per loro non c’era posto nell’alloggio”. Gesù nacque rifiutato da alcuni e nell’indifferenza dei più. Anche oggi ci può essere la stessa indifferenza, quando Natale diventa una festa dove i protagonisti siamo noi, anziché Lui; quando le luci del commercio gettano nell’ombra la luce di Dio; quando ci affanniamo per i regali e restiamo insensibili a chi è emarginato. (Poi a braccio aggiunge: “Questa mondanità ci ha preso in ostaggio il Natale, bisogna liberarlo”)
Ma il Natale ha soprattutto un sapore di speranza perché, nonostante le nostre tenebre, la luce di Dio risplende. La sua luce gentile non fa paura; Dio, innamorato di noi, ci attira con la sua tenerezza, nascendo povero e fragile in mezzo a noi, come uno di noi. Nasce a Betlemme, che significa “casa del pane”. Sembra così volerci dire che nasce come pane per noi; viene alla vita per darci la sua vita; viene nel nostro mondo per portarci il suo amore. Non viene a divorare o a comandare, ma a nutrire e servire. Così c’è un filo diretto che collega la mangiatoia e la croce, dove Gesù sarà pane spezzato: è il filo diretto dell’amore che si dona e ci salva, che dà luce alla nostra vita, pace ai nostri cuori.
L’hanno capito, in quella notte, i pastori, che erano tra gli emarginati di allora. Ma nessuno è emarginato agli occhi di Dio e proprio loro furono gli invitati di Natale. Chi era sicuro di sé, autosufficiente, stava a casa tra le sue cose; i pastori invece “andarono, senza indugio”. Anche noi lasciamoci interpellare e convocare stanotte da Gesù, andiamo a Lui con fiducia, a partire da quello in cui ci sentiamo emarginati, a partire dai nostri limiti. (A braccio: “A partire dai nostri peccati). Lasciamoci toccare dalla tenerezza che salva. Avviciniamoci a Dio che si fa vicino, fermiamoci a guardare il presepe, immaginiamo la nascita di Gesù: la luce e la pace, la somma povertà e il rifiuto. Entriamo nel vero Natale con i pastori, portiamo a Gesù quello che siamo, le nostre emarginazioni, le nostre ferite non guarite (I nostri peccati). Così, in Gesù, assaporeremo lo spirito vero del Natale: la bellezza di essere amati da Dio. Con Maria e Giuseppe stiamo davanti alla mangiatoia, a Gesù che nasce come pane per la mia vita. Contemplando il suo amore umile e infinito, diciamogli (semplicemente) grazie: grazie, perché hai fatto tutto questo per me”.