Immigrazioni che fare?

Riace 2ACCOGLIENZA NUOVI IMMIGRATI
troppi mesi senza far niente

di Fiorella Farinelli, su Rocca.

C’è un’Italia che apre le porte, offre ospitalità e amicizia, contrasta in ogni modo la doppia catastrofe – quella che rifugia da guerre, povertà, disastri ambientali, e quella di un’Europa che innalzando ogni tipo di muro seta perdendo se stessa. E c’è un’Italia che invece strepita, si oppone, grida all’invasione, accusa l’altra di agire solo per sporchi interessi, minaccia e aggredisce. Quando finirà? E, soprattutto, ci sono strategie e politiche, internazionali e nazionali, che possano essere efficaci?

arrivano che fare?
In Italia i profughi arrivati dall’inizio del 2016 sono circa 150mila. Non sono di più di quelli del 2015, e non sono un numero che giustifichi l’uso della parola invasione a fronte dei 5 milioni e rotti di immigrati che negli ultimi venti anni si sono stabilizzati da noi. Quelli che, resistendo alla crisi, oggi lavorano, «fanno impresa» dando talora occupazione anche agli italiani, consumano e pagano le tasse, mandano i figli a scuola (più di 800mila gli studenti stranieri nel 2015), ottengono permessi di soggiorno a tempo indeterminato, e in quote sempre più consistenti anche la cittadinanza.
Non sono un’enormità i 150mila sbarcati quest’anno. Tanto più che i flussi «per lavoro», che in anni recenti sono stati qualche volta anche più di 200mila l’anno stanno diventando dal 2012 un rivolo sempre più sottile, e c’è anche chi, complici le difficoltà occupazionali e il miglioramento, viceversa, delle condizioni di vita nei paesi d’origine, ci è già tornato e ci tornerà, come per esempio albanesi e romeni. Tanto più che da noi le culle sono sempre più vuote, e «loro», i profughi che salviamo dai naufragi, sono solitamente giovani, qualche volta sono addirittura ragazzini (più di 12mila, quest’anno, i «minori stranieri ogni modo la doppia catastrofe non accompagnati», cioè arrivati da soli). Ma questi argomenti non bastano. Non basta neppure l’impossibilità evidente, per un paese che si allunga nel mare fino a poche centinaia di chilometri dai luoghi delle crisi geopolitiche più acute, di mezzi di contrasto che non siano apertamente violenti. Che cosa dovremmo fare, lasciare che anneghino?

una accoglienza «cauta»
Ma il clima politico si sta facendo di giorno in giorno più arroventato, da noi e in altri paesi ben più solidi del nostro. Anche in Germania, dove l’accoglienza è stata generosa (con 800mila profughi accolti tutti insieme nel 2015) e dove la macchina dell’integrazione funziona assai meglio che da noi, l’insofferenza per questa nuova immigrazione fa tremare la democrazia. Prima il capodanno 2015 di Colonia, ora le risse nei centri sociali di Lipsia – al centro sempre conflitti culturali e comportamentali sul rapporto tra i sessi – si assottiglia ogni giorno di più lo spazio per le retoriche ingenue dell’integrazione facile e di un lineare sviluppo interculturale. Ed è stato il rifiuto dell’immigrazione, venuto non a caso soprattutto dai settori di popolazione più massacrati dalla deindustrializzazione e dalla crescita esponenziale delle diseguaglianze, l’ingrediente più potente della Brexit. Con la tendopoli di Calais, migliaia di profughi sulla sponda francese disposti a tutto pur di riuscire ad attraversare la Manica, a buttare benzina sul fuoco. Che cosa diventerà l’Europa politica, nei prossimi anni? Perfino papa Bergoglio, al ritorno da una Svezia che sta dismettendo il suo mitico Welfare, ha dato voce all’esigenza di un’accoglienza «cauta», che non prometta più di quel che si può ragionevolmente fare in termini di integrazione.

l’integrazione seria e difficile
Questa immigrazione, in effetti, inquieta molto più di altre ondate. L’opinione pubblica italiana, anche la più razionale, sa che molti di quelli che arrivano in Italia ma vorrebbero andare altrove, per il momento non ci riusciranno. Si stanno moltiplicando ovunque, nell’area Ue, i muri materiali e immateriali, e quest’anno sono state solo poche migliaia i «ricollocati» in base agli impegni sottoscritti negli altri paesi dell’Unione. Sa anche che quelli a cui non verrà riconosciuto il diritto a una protezione – i «dinieghi» sono mediamente il 50% delle richieste – si sottrarranno ai decreti di espulsione e resteranno da noi. A fare che cosa? A ingrossare le file dei mendicanti, o quelle della malavita? Anche chi fa parte dell’Italia che accoglie, ha mille inquietudini e mille paure per quello che può succedere. L’integrazione è una cosa seria e difficile, significa alloggi, inserimento nel lavoro, istruzione e qualificazione professionale, uno sviluppo economico che non c’è, legami di amicizia e di solidarietà che richiedono intelligenza sociale e tempo.

chi ci prova
Intanto che si cercano, senza per ora grandi successi, strategie e rapporti internazionali che, determinando nuovi equilibri nei paesi più tormentati da guerre e disastri politici, contengano o esauriscano i flussi, ci sono almeno strategie politiche locali capaci di sostenere una vera integrazione? ll panorama è variegato. Noi ci lamentiamo dell’Europa, dove il programma di ricollocazione è ostacolato o va a rilento, ma anche in Italia il problema sembra analogo. Le Regioni si dividono tra quelle che mugugnano per i piani di distribuzione dei profughi del Ministero degli Interni e quelle che protestano. Lombardia e Veneto gridano a gran voce di avere già dato, altre Regioni, pur accettandoli, stentano a trovare soluzioni efficienti e di lunga gittata. Sono talora i Comuni, presi in mezzo, a inventare le politiche migliori.
riace-il-paese-dellaccoglienza2È il caso di Riace, la città calabrese dei Bronzi, in cui il Comune è riuscito a trasformare in una potente risorsa di sviluppo un’immigrazione di 6.000 persone, tantissime per un paese di poche migliaia di residenti. Ripopolando un territorio di case e campagne abbandonate dai giovani italiani, con iniziative in agricoltura e nei servizi, dalla raccolta differenziata al parco di ippoterapia per ragazzi disabili. L’abbiamo saputo da Fortune, la rivista americana di business globale fondata all’indomani della crisi del ’29, che ha nominato lo sconosciuto sindaco di Riace tra gli uomini più importanti del mondo, omaggio strameritato a una politica capace di visione del futuro, e di incarnarsi in iniziative concrete di successo.
Tra le eccezioni al mugugno e alla protesta, c’è anche la Regione Basilicata, un altro luogo di Italia da cui i giovani scolarizzati oggi fuggono – come decenni fa fuggirono i contadini poveri – che ha recentemente chiesto allo Stato di poter accogliere il doppio di profughi rispetto ai 1.000 che le sono stati assegnati. Perché, sulla scorta dei 44mila stranieri – il 90% con contratti regolari – che già oggi hanno trovato alloggio e occupazione nei paesi spopolati e nelle campagne abbandonate, ha concreti piani di rilancio economico e di lavoro. Siamo nella terra in cui Eni e Fiat di Melfi mettono in cassa integrazione centinaia tra operai e tecnici, ma le strategie di sviluppo ci sono, e così interessanti da indurre il ricchissimo egiziano Naguib Sawirs, tycoon delle telecomunicazioni, a investire capitali per dare un futuro ai tanti connazionali in fuga dalla povertà del paese d’origine. Meglio un’immigrazione controllata e non infiltrata dall’Isis e dai Fratelli musulmani, meglio un avvenire di lavoro in Basilicata, argomenta Sawirs, che i salari da fame egiziani. Utopie che si sgretoleranno alla prova dei fatti o sensate strategie di sviluppo con giovani disponibili e motivati al lavoro in agricoltura e nei servizi? È un fatto però che queste iniziative non stanno diventando un modello esportabile in altri luoghi del paese, e che nei social infuriano anzi le contrarietà per iniziative non indirizzate agli italiani ma agli stranieri «usurpatori».

salvare la vita non basta
Eppure di tutto ciò, e di molto di più, c’è un bisogno urgente. Se i 150mila, e gli altri che arriveranno, non sono per il momento una realtà numericamente insostenibile per un paese con 60 milioni di abitanti sempre più vecchi e con pochi giovani, è assolutamente evidente che non si può in alcun modo ipotizzare una loro stabilizzazione e integrazione se non nel contesto di politiche nuove, capaci di intrecciare nuovo sviluppo e nuovi dispositivi di inclusione e di inserimento. Chi si occupa dell’accoglienza e perfino chi opera nelle tante scuole di italiano sa bene che si tratta per lo più di persone traumatizzate, disorientate, frustrate. Diverse, per motivazioni ed esperienze, dall’immigrazione per lavoro che abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni. Perfino imparare l’italiano è più difficile per chi si aspettava di dover imparare lo svedese o l’olandese e vede anche in questo il segno tangibile della sconfitta del suo progetto migratorio. Lavoro subito, qualificazione professionale, riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze sono obiettivi da realizzare rapidamente e concretamente. Sono molti – dalla Libia, dall’Africa centrale, dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran – i diplomati e i laureati, quelli che hanno interrotto gli studi, i tecnici in informatica, i dentisti, gli ingegneri, gli agronomi. Ci sono anche ragazzi poco scolarizzati, soprattutto dall’Egitto e dall’Eritrea, qualche volta perfino analfabeti nella loro lingua madre, ma insieme a loro i plurilingue che padroneggiano insieme dialetti, lingua araba, inglese o francese, una risorsa importante in un paese come il nostro in cui c’è scarsa familiarità con le lingue straniere.
Ci sono giovani donne coinvolte da esperienze di tratta e di altro tipo che fanno fatica perfino a raccontare, ma anche giornaliste, avvocate, infermiere, ostetriche, medici.
Non si può perdere tempo, non si può lasciare che per mesi e mesi (almeno 6 perché le commissioni verifichino se potranno godere dell’asilo o della protezione, e poi altri mesi ancora per i ricorsi contro i «dinieghi») restino nei luoghi cosiddetti di accoglienza senza far niente, senza avere neppure la possibilità di un lavoro volontario nella gestione del loro funzionamento, senza relazioni con i contesti di arrivo, senza esperienze di vita e di lavoro che diano un senso al loro essere qui. Sono percorsi di estraniamento, questi, non di integrazione. Di dipendenza, non di responsabilizzazione.
Percorsi per di più pericolosissimi perché esposti alla tentazione dell’illegalità e della criminalità organizzata, lo si tocca con mano con i «minori stranieri non accompagnati»: quasi tutti maschi mandati da noi con il compito di trovare il prima possibile e in qualunque modo i soldi da mandare a casa, per recuperare i debiti del viaggio, e per aiutare le famiglie e molto spesso pronti, appena ce n’è l’occasione, a scappare dalle case-famiglia per impigliarsi nelle reti, dei connazionali e degli italiani, per lo spaccio di droghe, la prostituzione, e peggio. Sono circa un terzo – dati del Ministero degli Interni – quelli che dopo qualche mese si volatilizzano senza lasciare traccia di sé.
E non sono molte finora le situazioni capaci di replicare i modelli di accoglienza e di integrazione che, come sta succedendo a Palermo e in Sicilia (dove è accolto oggi il 40% dei ragazzi arrivati da soli), riescono a intrecciare in modo efficace e motivante le risorse della scuola, dell’università, del volontariato, delle amministrazioni locali.
È difficile, certo, ma non impossibile. Salvare la vita non basta, se poi non si riesce a darle un senso positivo che restituisca identità e dignità. Non è solidarietà soltanto, è qualcosa che si deve fare anche per il paese che ospita, per il suo sviluppo economico, per la sua salute civile e democratica. Minacciata non dall’immigrazione, ma soprattutto dall’incapacità di governarla e di integrarla. Passa da qui, e non da improbabili respingimenti di massa su frontiere che in Italia non ci sono, la possibilità di farcela.

Fiorella Farinelli su Rocca n.23/2016
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Rocca 23 2016 1 dic
- Fonte foto Riace.
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Immigrazione in Sardegna: come stanno davvero le cose
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Dossier 2016 libroD O S S I E R S TAT I S T I CO I M M I G R A Z I O N E 2 0 1 6
PARTE V I contesti regionali
Sardegna. Rapporto immigrazione 2016 .
Maria Tiziana Putzolu ft fbRedazione regionale: Maria Tiziana Putzolu
(Centro Studi Relazioni Industriali – Università di Cagliari)
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One Response to Immigrazioni che fare?

  1. […] assistenza). Nulla a che vedere con il processo di organica integrazione, da molti auspicato, ma concretamente praticato soltanto in piccole realtà territoriali. Si avverte sempre più la mancanza di un progetto finalizzato all’inclusione dei migranti nella […]

Rispondi a Immigranti: “Si rendono necessari interventi qualificati per avviare processi di reale integrazione” | Aladin Pensiero Annulla risposta

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