Deficit investimenti pubblici ripresa economica

albero orto capdi Roberta Carlini su Rocca

Parlare di economia del terremoto non è cinico: è essenziale. Perché è anche per vincoli economici, o per sbagliate scelte economiche, che il terremoto del centro Italia ha ucciso tante persone; e perché la distruzione, e la necessaria ricostruzione, ci dicono molto dei dilemmi nei quali la politica economica è impantanata, e delle prospettive che abbiamo per uscire dalla palude.

la fallacia del Pil

Tanto per cominciare, un terremoto è la conferma più tragica e concreta della fallacia del Pil come misura del nostro benessere. Su quest’ultima, vale ancora oggi come testo universale, per la sua semplicità, il discorso di Robert Kennedy agli studenti dell’università del Kansas (18 marzo 1968): «Il Pil comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana. Il Pil mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. (…) Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari, comprende anche la ricerca per migliorare la disseminazione della peste bubbonica, si accresce con gli equipaggiamenti che la polizia usa per sedare le rivolte, e non fa che aumentare quando sulle loro ceneri si ricostruiscono i bassifondi popolari». Seguono altri esempi, in negativo, di quel che non è misurato dal Pil, dalla «bellezza della nostra poesia» alla «onestà dei nostri pubblici dipendenti», per concludere che il Pil «misura tutto, tranne ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta». Un testo di altissimo impatto emotivo e politico, e solidamente agganciato anche alla teoria economica, che da allora ha sviluppato altri criteri di misurazione del benessere e aperto filoni di ricerca in materia.

anche un terremoto fa salire questo Pil

Ma torniamo alle prime righe: il Pil misura anche le ambulanze per sgomberare le strade dai morti. Se una casa crolla, il senso comune registra una perdita. Il prodotto nazionale invece può registrare un guadagno: perché bisognerà produrre altri materiali da costruzione, pagare gli operai, rifare gli arredi, tutte attività monetizzate e che andranno a far crescere la produzione e i consumi. Napalm e missili, poi, fanno crescere il Pil due o più volte: quando si producono, e quando si ricostruisce sulle macerie che hanno causato. Anche un tifone, un uragano, un terremoto fanno salire il Pil, in questo senso: prima c’è una perdita netta (patrimoniale), ma poi ci saranno i redditi da ricostruzione.
Dal punto di vista di Kennedy e di tutto il filone di critica al Pil – e di costruzione di indicatori alternativi di benessere – questo non vuol dire che allora non si devono ripulire le autostrade, ricostruire, recuperare. Ma che sarebbe sbagliato valutare il conseguente incremento del Pil come un aumento del benessere.

vincoli alla spesa pubblica

In Europa però – nell’Europa dei trattati e del patto di stabilità – c’è un altro effetto perverso dell’ancoraggio alla misurazione del Pil, ed è nei vincoli della spesa pubblica. All’indomani della tragedia di Amatrice e degli altri paesi distrutti dal sisma, le autorità di Bruxelles hanno infatti chiarito che la «flessibilità» accordata ai nostri conti pubblici in conseguenza del terremoto è limitata agli interventi d’emergenza. Dunque lo stretto necessario per riparare il danno: queste spese potranno essere fatte dal governo in deficit, senza però essere contate nel numero chiave della finanza pubblica, ossia il rapporto deficit/Pil annuale.
Se le parole di Kennedy ci invitavano a una visione qualitativa e allargata del benessere al di là del Pil, i trattati europei ci costringono in una logica solamente quantitativa e ristretta del «bene»: è bene ciò che non va in deficit oltre una certa soglia (prima era il 3%, poi è scesa di una misura che si contratta ogni anno), è male tutto il resto. Sul confine tra bene è male, si è aperta da qualche anno una contrattazione annuale che va sotto il nome di «flessibilità»: visto che c’è stata una lunghissima crisi, visto che non ne siamo ancora usciti, visto che il rapporto tra deficit (e debito) e Pil può peggiorare anche per riduzione del denominatore, oltre che per aumento del numeratore… visto tutto ciò, il governo italiano ha chiesto e in parte ottenuto un margine di flessibilità, insomma di potersi un po’ indebitare per rilanciare l’economia. L’intervento pubblico in deficit per contrastare la congiuntura economica negativa (anche eccezionalmente negativa, come la crisi che si è aperta nel 2008), diventa così l’eccezione, da conquistarsi con fatica e prove alla mano, e mesi e mesi di trattativa estenuante se ne vanno per questa procedura, volta ad evitare altre più sgradevoli procedure: come il commissariamento del Paese via troika, che scatterebbe se si finisse in un deficit «eccessivo», cioè non autorizzato.
Il keynesismo, da impostazione della politica economica molto contestata ma di un qualche successo nel Novecento, diventa un accessorio, che si può usare in presenza di gravi e comprovate disgrazie. Ne consegue che per farsi autorizzare al deficit tutto può servire. E così, via via sono stati invocati come buoni motivi per la flessibilità la crisi dei rifugiati, il terrorismo, le guerre del Mediterraneo, e adesso il terremoto.

perché includere nel computo del deficit anche la spesa per investimenti?

Viste dall’alto del nord Europa, tutte queste terribili questioni possono sembrare poco più che pretesti che i furbissimi italiani – e i popoli del Sud in generale – avanzano per farla franca ancora una volta, e far debiti sulle spalle degli Stati con i conti a posto. È la prova lampante della mancanza di quella solidarietà non solo morale, ma anche finanziaria, che sola può reggere un’area monetaria comune, come nota Joseph Stiglitz nel suo libro The Euro – And its Threat to the Future of Europe, che è da poco uscito negli Stati Uniti e tanto rumore sta facendo da noi, visto che profetizza che di questi mali, a breve, l’Unione morirà. È anche la prova di alcuni difetti di fabbricazione non da poco: per esempio, ammesso che sia accettabile e utile l’aver imposto un tetto rigido al rapporto tra deficit e Pil, perché includere nel computo del deficit anche le spese per gli investimenti? Un’impresa, una famiglia, se devono investire si indebitano, contando di ripagare i debiti con i proventi dell’investimento: perché lo Stato non può? Perché gli Stati sono inefficienti e sperperano i soldi delle tasse, spiazzando così l’iniziativa privata, è la risposta della corrente di pensiero che sta alla base dei patti europei. Come dice lo stesso Stiglitz, per la prima volta nella storia gli economisti hanno potuto fare un esperimento dal vivo. Queste teorie sono state sperimentate sul campo, e i numeri ci dicono com’è andata. Negli anni della crisi (2008-2015), il rapporto tra investimenti e Pil nella zona dell’euro è sceso da 23,2 a 20,08. In Italia, il calo è stato più marcato: da 21,24 a 16,52. Sono scesi sia gli investimenti pubblici – bloccati dal patto di stabilità e dal principio dell’austerità fiscale, che, al contrario degli Usa, l’Europa non ha voluto derogare – che quelli privati. Solo nell’ultimo anno, documenta la Bce, c’è stato un segnale di ripresa, che rischia però di essere gelato dall’incertezza del dopo-Brexit. Persino Draghi, in un’audizione al parlamento europeo, ha auspicato investimenti pubblici per aiutare la ripresa. In modo più netto e non solo per l’Europa, la stessa ricetta è stata proposta dal Fondo monetario internazionale.

se gli investimenti pubblici fossero fuori dal Patto di stabilità

Tutto questo ha a che vedere con la tragedia del terremoto. Non è in discussione l’aiuto d’emergenza, e neanche la ricostruzione delle case cadute (speriamo). Ma tutto il resto, e non è poco. Se gli investimenti pubblici fossero fuori dal patto di stabilità, l’Italia potrebbe avviare un piano di manutenzione straordinaria dei suoi paesi e delle sue città: quelle piccole opere di cui parlano gli ambientalisti, quel «rammendo» che auspica da tempo Renzo Piano, quel progetto Casa Italia che adesso il governo ha proposto. E però: l’Europa non si fida, ma noi ci fidiamo? A Bruxelles temono che Casa Italia sia l’espediente per far rientrare dalla finestra il lassismo cacciato dalla porta; qui, più concretamente, temiamo che anche questa volta tutto finisca in progetti, carte, documenti nei cassetti, oppure che le opere si facciano sì, ma al caro prezzo della ripresa di corruzione, appalti pilotati, ruberie. Se è questo l’ostacolo, con un po’ di coraggio istituzionale, da entrambi i lati, forse si potrebbe superare. Per esempio, chiamando direttamente le istituzioni e gli organi tecnici del pianeta Ue (ce ne sono, nelle Dire- zioni generali ma anche nella Banca europea per gli investimenti) a gestire la ricostruzione italiana. A concordare i piani (coinvolgendo le popolazioni locali, e gli autori delle buone pratiche di alcune passate ricostruzioni, dal Friuli all’Umbria), scrivere i capitolati, selezionare le imprese, sorvegliare l’avanzamento dei lavori. Facciamoci commissariare, insomma: forse stavolta può servire.
Roberta Carlini
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Rocca 18 2016
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Il Signore è davvero il mio Redentore?
vescovo nuoro mosè marciadi Mosè Marcia, Vescovo di Nuoro*

Abbiamo davanti a noi due date, 1901-2016.
1901, apertura nuovo secolo, papa Leone XIII, il Papa della “Rerum novarum”, indìce un anno Giubilare dedicato a Gesù Cristo Dio, nostro Redentore!
2016, altro Giubileo indetto da papa Francesco dedicato a Gesu’ Cristo, immagine della Misericordia del Padre.
Due date, due anni giubilari, ambedue dedicati all’infinito amore di Dio per noi.
Il primo pone l’accento sull’evento, liberamente voluto dal Cristo, per noi empi, ancora empi, con la sua morte in croce, dandoci la Redenzione, la liberazione dal peccato e la salvezza!
Abbiamo appena ascoltato Paolo che, scrivendo ai Romani, afferma: «In questo Dio dimostra il suo amore verso di noi perché mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi». (Rom 5,5-11).
È giusto per noi oggi fare festa e nel contempo «ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, dal quale ora abbiamo ottenuto la riconciliazione».
Il secondo Giubileo, quello della Misericordia, (Miseri-cordia = Il Cuore, L’Amore rivolto alla Miseria) che viviamo noi oggi, dopo poco più di un secolo, ci richiama a contemplare ancora l’amore di Dio che si china, con la Sua infinita pazienza, sulle nostre miserie, e ci spinge ad essere degni suoi figli, misericordiosi come lui, nostro Padre, amando e riscattando gli altri dalla propria miseria: «Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro» (Lc 6, 36).
Potremo mai gustare il Suo amore infinito, la Sua eterna misericordia, se non avvertiamo – ma perdonatemi – e non vogliamo ammettere la nostra o le nostre miserie?
Siamo malati di egoismo e individualismo esasperato. La nostra cultura ci ha abituati alla competizione: la lotta per i primi posti, la ricerca del profitto, la concorrenza fino ad eliminare chi è percepito come avversario, la raccomandazione a scavalcare altri.
La corruzione per aggirare la legge, la furbizia per non pagare il dovuto e tanti altri comportamenti simili ci sono proposti e diventano con facilità i valori portanti del nostro vivere sociale.
Così possiamo contare 133 guerre dal 1900 ad oggi, 25 dal 2000 e di queste 17 ancora in atto. Solo nelle due guerre mondiali, abbiamo contato 88.469.833 morti.
Il Redentore e il Suo Vangelo insegna tutt’altro, proclama la vera rivoluzione alternativa alle nostre “mode”: orgoglio e autosufficienza sono davanti a Lui negazione della vera sapienza.
Chi usa occhiali dalle lenti rosse, vedrà tutto rosso! Se il nostro metro di misura è il PIL, la ricchezza, il denaro, proprio tornaconto, leggerà con questa ottica anche la distruzione e le morti che un terremoto causa in pochi infiniti attimi!
Invece quegli istanti di distruzione sono capaci di generare tanta solidarietà e ci fanno riscoprire bisognosi l’uno dell’altro. «Amatevi come io ho amato voi», insegna il Redentore! E non possono non farci riflettere sulla nostra precarietà e incapacità di programmarci.
È questo egoismo, questa ricerca del proprio dio-denaro, dio-interesse, a spingerci nel non rispettare il creato: «la nostra casa comune, la nostra sorella, con la quale condividiamo l’esistenza, la nostra madre bella che ci accoglie tra le sue braccia» (Laudato Sii, 1)
«Questa sorella, continua papa Francesco, protesta per il male che le provochiamo, a causa dell’uso irresponsabile e dell’abuso dei beni che Dio ha posto in lei. Siamo cresciuti pensando che eravamo suoi proprietari e dominatori, autorizzati a saccheggiarla». (Laudato Sii, 2)
Fratelli, quanto sarebbe per noi deleterio, inqualificabilmente vergognoso e disumano, se rispondesse a verità che la ricerca di gas o di petrolio nelle profondità della terra, fosse causa o anche semplicemente concausa dei terremoti!
Non bastano 291 morti, ma neanche una sola vita stroncata è mai barattabile con un “barile” di combustibile!
Noi qui, a casa nostra, in Sardegna, non siamo più innocenti delle grandi multinazionali, quando con il fuoco, con gli incendi, distruggiamo migliaia di ettari e condanniamo al rogo migliaia di animali, esseri viventi che formano la nostra fauna!
È solo piromania da curare anche forzatamente, come ogni altra malattia deleteria per la persona e per la società, o è idolatria del nostro dio-interesse?
C’è rispetto del creato o non forse ancora il culto al dio-denaro, con i suoi incomprensibili interessi, e i nostri egoismi, con chissà anche quali sospettabili abusi di potere, quando si vuole cambiare la vocazione di una terra a scapito della piccola imprenditoria, familiari private, e a favore di grandi potenze economiche, fossero anche pubbliche?
È ancora il dio “IO”, l’egoismo, il culto del dio-possesso, del dio-piacere a minare e rovinare la famiglia, unica cellula sociale che veramente forma, genera e regge la società! Dimentichiamo troppo spesso il passo della Genesi che racconta la creazione!
Dio non creò né lo stato, né la politica, né la chiesa, né il clero, ma creò la FAMIGLIA!
«Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». (Gen 1, 27).
Il Redentore ci ricorda che Dio è Amore! Ma dov’è l’immagine di Dio-Amore nella famiglia quando per un fazzoletto di terra frutto non del proprio lavoro personale, ma di eredità, si ammazza un proprio fratello? O per un testamento, che mi esclude da un bene su cui forse non ho alcun diritto, viene armata la mano omicida contro due della mia stessa famiglia? È amore o egoismo mascherato di finto amore, che per non soffrire io sopprimo mia madre sofferente?
È mai definibile amore il rapporto famigliare dei due coniugi che sfocia nella violenza e nel femminicidio?
Certo in un contesto del genere non ci colpiscono più i dati riferiti dall’ISTAT come nel 2014 l’indice di separazione in Sardegna è stato di 309,4 ogni 1000 matrimoni, mentre vent’anni fa, nel 1995 era di soli 95,3!
O forse ci meraviglia tanto se in Sardegna, nella nostra isola, ancora dati dell’ISTAT, nel 2013 ben 2.070 donne hanno interrotto volontariamente la gravidanza, generando più di cinque aborti al giorno?
Eppure il Redentore che festeggiamo ci insegna tutt’altro, sia sul valore della vita sia sul senso dello stesso dolore, Lui che volutamente si è fatto uomo nel grembo di una donna e patì la morte per la nostra salvezza!
Credo che dovremo davvero festeggiare di più il nostro Redentore, non tanto con le sfilate che ci vedono ancora discordi e capricciosi, quanto in una sana riflessione sui nostri comportamenti che non sempre mostrano nel vissuto la nostra fede nel Cristo Morto e Risorto per noi!
La Sua Misericordia infinita, porta spalancata del Suo Amore senza limiti, attende da me, solo un atto di fiducia, un atto di fede e di abbandono alla Sua Volontà, questo non vanifica la Sua morte e lo rende mio Redentore.
Queste le riflessioni che mi venivano mentre benedicevo l’epigrafe che il comitato “Ultima spiaggia” ha voluto collocare ai piedi del Redentore, ricordando le due date giubilari: il Giubileo della Redenzione e il Giubileo della Misericordia. Credo che guardando questa targa dobbiamo chiederci se il Signore è davvero il mio Redentore o lo sto cercando altrove.
Così la targa in bronzo ricorda le due date riportando quanto scrisse per noi sardi il papa Leone XIII:
“I Sardi dedicano a Gesù Cristo Dio per la Sua Salvezza”
(“Jesu Christo Deo Restitutae Per Ipsum Salutis Anno MCMI Sardi)
Leo P.P. XIII
e l’incipit della Bolla di indizione del Giubileo della Misericordia:
“Gesù Cristo è il volto della misericordia del Padre”
(Misericordiae Vultus Patris – Annus Sanctus Misericordiae Extraordinarius – Anno MMXVI)
Franciscus.

* Omelia del Vescovo di Nuoro Mosè Marcia in occasione della Festa del Redentore del 29 agosto 2016.
L’attacco all’omelia del giornalista (ex montiamo) Mario Sechi, su Il Foglio.
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Il banalismo anti crescita dei vescovi visto da un’omelia a Nuoro
“Siamo malati di egoismo e individualismo esasperati. La nostra cultura ci ha abituati alla competizione: la lotta per i primi posti, la ricerca del profitto”. E questa è la cultura cattolica in una regione che ha bisogno di impresa e capitali? E di grazia come si costruisce il futuro senza profitto?

di Mario Sechi | 01 Settembre 2016 ore 11:00 su Il Foglio

La Chiesa di Francesco e dei suoi vescovi ha l’ambizione di essere un ospedale da campo, ma i suoi esiti sulle cose terrene assumono sembianze sempre più bizzarre. Il dogma è un’opinione, la predica un’occasione, l’omelia una chance. Il prete si trasforma in sociologo turibolante, archeologo di ideologie d’occasione. Il religioso e il sacro si annacquano in una versione new age dispensata nelle piazze durante le feste e i funerali. Si va dalla negazione dell’evidenza scientifica, al determinismo ottenuto per via primitivista.Il Monsignore di Rieti che solennemente afferma le virtù del terremoto buono e i mali dell’uomo creatore di opere è solo uno degli ormai tracimanti esempi di riflessione escatologica senza capo né coda. La teologia à la carte della Chiesa di Bergoglio emerge tra le macerie di Amatrice, ma il disastro naturale è solo uno dei tanti teatri dove fa la sua comparsa.

Economia e finanza, ecco perché Francesco è lontano anni luce da Benedetto XVI Il Papa: “Pentirsi per i peccati contro il creato. Si faccia un uso oculato della plastica” La pace del dio denaro In Barbagia, qualche giorno fa abbiamo assistito a un’omelia dove mancava solo il canto degli Inti Illimani. Mentre il vescovo di Nuoro recitava la sua omelia per la Festa del Redentore, in sottofondo sembrava di udire il ritornello El pueblo, unido, jamas serà vencido. E’ il 29 agosto, in una terra dal cuore di granito, scolpita dagli elementi, scrigno di devastante bellezza e crudeltà, davanti a migliaia di persone, Monsignor Mosè Marcia trasforma il monte Ortobene in un pascolo dell’anti-capitalismo: “Siamo malati di egoismo e individualismo esasperato. La nostra cultura ci ha abituati alla competizione: la lotta per i primi posti, la ricerca del profitto, la concorrenza fino ad eliminare chi è percepito come avversario, la raccomandazione a scavalcare altri”. Que viva la revolution! Le parole di Sua Eccellenza echeggiano come un tamburo in una regione povera, bisognosa come non mai di investimenti, di capitali, di fiducia, di profitto e di concorrenza.
Secondo il bollettino di Bankitalia sull’economia della Sardegna, pubblicato il 21 giugno scorso, nel 2015 l’economia ha cominciato a dare segnali di debole ripresa dopo la crisi, ma le prospettive per i giovani sono peggiorate: “Il tasso di occupazione è diminuito di 2 punti percentuali per le persone tra i 15 e i 24 anni di età”. La fiducia stenta a decollare, i percorsi accademici dei giovani sardi sono ampiamente al di sotto della media nazionale: “Tra il 2007 e il 2014 le immatricolazioni di giovani sardi di età compresa tra i 18 e i 20 anni sono diminuite del 21,2 per cento, più che nella media nazionale (-8,0 per cento) e del Mezzogiorno (-16,2 per cento)”. Sono numeri che la Diocesi di Nuoro dovrebbe conoscere bene, ma Monsignor Marcia è in fase Liber Tango, si scaglia contro il profitto e la competizione, vede l’impresa come un mostro, un’Idra che divora tutto quello che incontra. I toni sono apocalittici, è il Sardegna Canta del banalismo anti-crescita: “Se il nostro metro di misura è il Pil, la ricchezza, il denaro, proprio tornaconto, leggerà con questa ottica anche la distruzione e le morti che un terremoto causa in pochi infiniti attimi!”. Il Pil, figuriamoci, un feticcio degli economisti, un’eresia del razionalismo, c’è la Misericordina distribuita dal Papa in comode confezioni famiglia per alleviare ogni sofferenza qui nell’isola. Non la produzione, non la creazione di ricchezza, non l’impresa, non il lavoro.
Sua Eccellenza è al mixer, frulla la critica della Scuola di Francoforte con le ostie, pane e frattaglie ideologiche, il Corpo di Cristo e le pagine di Marx in versione reloaded. Egli non si fa deviare, cita ampi passi della lettera enciclica Laudato Si del Papa, ma è quando fa sgorgare dal petto la sua prosa che il racconto si fa distopico, va dritto al punto, colpisce il moloch capitalista, l’impresa, quella grande, vestita di mitologica onnipotenza, arriva con gli angeli al galoppo la carica contro la ricerca, la scienza, l’industria: “Fratelli, quanto sarebbe per noi deleterio, inqualificabilmente vergognoso e disumano, se rispondesse a verità che la ricerca di gas o di petrolio nelle profondità della terra, fosse causa o anche semplicemente concausa dei terremoti! Non bastano 291 morti, ma neanche una sola vita stroncata è mai barattabile con un “barile” di combustibile!”. Eccolo il nemico, il barile, il petrolio, la trivella. Sul monte Ortobene va in scena il fracking teologico, l’Oil & Gas sono trasformati negli elisir del diavolo, ma senza il genio di Hoffmann, l’omelia si trasforma in un goffo testo che perde il sacro e lo umilia fino a ridurlo a una battaglia ideologica dove i fatti, la scienza, la legislazione, non contano assolutamente nulla.
Nessuna di queste pratiche è ammessa in Italia, ma l’omelia del vescovo di Nuoro è ormai in orbita verso altri mondi, completamente sganciata dalla realtà. In Italia il fracking è vietato, ma fa niente, il minestrone religioso è in piena ebollizione. E’ un fuoco che conduce alla giusta condanna della piromania, ma è solo un attimo illusorio di rinvenuta saggezza, perché poi la narrazione di Monsignor Marcia torna al chiodo fisso, al Male Assoluto, al Nemico: “C’è rispetto del creato o non forse ancora il culto al dio-denaro, con i suoi incomprensibili interessi, e i nostri egoismi, con chissà anche quali sospettabili abusi di potere, quando si vuole cambiare la vocazione di una terra a scapito della piccola imprenditoria, familiari private, e a favore di grandi potenze economiche, fossero anche pubbliche?”. Le grandi potenze economiche? Purtroppo in Sardegna non ci sono, ce ne sarebbe un bisogno primordiale, una questione urgente di pane e futuro per i figli di tanti padri di famiglia, ma le multinazionali qui vengono, guardano, commentano la bellezza del nostro giardino naturale, del mare, ma poi vanno a creare lavoro altrove.
Perché l’isola ha seri problemi di logistica e trasporti, una bolletta energetica non competitiva con il resto del mondo, una provincia, quella di Nuoro, sede della diocesi di Monsignor Marcia, la cui quota di export rispetto al pil provinciale è pari al 3 per cento (la media in Italia è del 27%), mentre il pil pro capite (quello che fino a prova contraria misura la ricchezza e il benessere) è fermo a 14.947 euro contro i 23.870 euro della media nazionale. Sono dati Istat che Sua Eccellenza potrebbe mettere in fila tra una comunione, una cresima e un battesimo, quest’ultimo quando capita, visto che le proiezioni del tasso di natalità sono inesorabilmente decrescenti e senza popolazione giovane non ci sarà pil (sì, ancora quello). Si chiama futuro. E per costruirlo servono denaro, impresa, profitto, lavoro. I nemici dell’uomo elencati da Sua Eccellenza Monsignor Marcia.
E’ questo il volto della Chiesa in Sardegna? Questa è la cultura cattolica in una regione che ha bisogno di impresa e capitali? Pare di sì e forse aveva ragione Salvatore Satta, un suo figlio illustre, quando scriveva queste parole intrise di realismo isolano: “Chi lavora ha sempre ragione su chi insegue le sue chimere, e intanto non lavora”. Smettete di suonare il tango, tornate al ballo sardo.



One Response to Deficit investimenti pubblici ripresa economica

  1. […] Lo sosteniamo da tempo! ——————————————————— L’insostenibile sviluppo dell’Italia senza futuro. L’Onu lancia l’agenda 2030: diciassette obiettivi per migliorare. Il nostro Paese, però, è molto indietro su donne, ambiente, lavoro. In questa elaborazione di LaStampa-Centimetri è rappresentato il volume di anidride carbonica prodotta in un anno dalla pubblica amministrazione a causa del banale uso della carta. Si tratta di una sfera del diametro di 200 metri, poco meno dell’altezza del grattacielo più alto d’Italia, la Torre di Unicredit a Milano (fonte ForumPA). di LINDA LAURA SABBADINI su La Stampa ROMA Il Pil è sempre stato il punto di riferimento fondamentale delle politiche. Ma il Pil non riesce a misurare il reale livello di benessere di un Paese, la qualità della vita di donne e uomini, che non è la risultante delle sole condizioni economiche. Salute, qualità del lavoro, ambiente, disuguaglianze di genere, povertà, sono solo alcuni elementi fondamentali da considerare. Se il Pil non basta più, le politiche non possono essere più Pil-centriche, non possono più basarsi su indicatori unicamente di carattere economico. – segue – Il progetto dell’Onu Non lo dico io, lo dice chiaramente la strategia di sviluppo sostenibile varata dall’Onu e l’Agenda per il 2030 per tutti i Paesi. L’Onu esprime un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo. Al Pil devono affiancarsi nuovi indicatori di benessere e sviluppo sostenibile, che permettano il monitoraggio delle politiche, per raggiungere i 17 obiettivi di questa agenda, con la riduzione delle disuguaglianze, la valorizzazione delle risorse del nostro pianeta e delle biodiversità, la qualità della vita della popolazione. […]

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