Una proposta al Consiglio Regionale Sardo perché s’impegni per il NO alla modifica costituzionale Renzi-Boschi
CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA
XV LEGISLATURA
MOZIONE N. 241
MOZIONE ZEDDA Paolo Flavio – USULA - COCCO Daniele Secondo – ZANCHETTA – SOLINAS Christian – LAI – PIZZUTO - AGUS – GAIA sulle ricadute negative per la Sardegna a seguito dell’eventuale approvazione della riforma costituzionale licenziata del Parlamento in vista del referendum ex articolo 138 della Costituzione, nonché sull’improcrastinabilità della riscrittura dello Statuto sardo.
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IL CONSIGLIO REGIONALE
PREMESSO che:
- nella Gazzetta ufficiale del 15 aprile 2016 è stato pubblicato il testo della legge costituzionale C. 2613-D, avente ad oggetto “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del CNEL e la revisione del titolo V della parte II della Costituzione” approvato da entrambe le Camere, in seconda deliberazione, a maggioranza assoluta dei componenti;
- la legge di riforma costituzionale suddetta è finalizzata, tra l’altro:
a) al conferimento in capo al Governo di alcune attribuzioni procedurali inerenti il potere legislativo che producono, in assenza di validi contrappesi istituzionali, un’eccessiva verticalizzazione del potere accentrato sull’Esecutivo;
b) al superamento del bicameralismo perfetto, con la trasformazione del Senato, compresa la sua composizione numerica, in un “Senato delle Autonomie”, modificazione che incide sul rapporto fiduciario con il Governo (con l’introduzione del principio di esclusività della sola Camera dei deputati per quanto concerne la rappresentanza della nazione e la titolarità del potere di indirizzo politico), sulle modalità di elezione (eliminandone l’elettività diretta) e sulla partecipazione dello stesso Senato al procedimento legislativo (con l’esclusione di alcune limitate eccezioni);
c) alla nuova riforma del titolo V con la soppressione della legislazione concorrente tra Stato e Regioni prevista dall’attuale articolo 117 della Costituzione e con il riassorbimento delle relative materie e di nuove nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato;
- SEGUE -
TENUTO CONTO che:
- il progetto di attribuzione costituzionale in oggetto contiene nelle sue premesse fondamentali e nelle sue linee generali delle forti criticità emerse, tra l’altro, oltre che nell’ambito del dibattito sorto in seno all’opinione pubblica e nella società civile, anche a seguito di un’attenta valutazione da parte della dottrina più autorevole;
- tale dottrina ha evidenziato, tra gli altri, i seguenti profili critici:
- accentramento dei poteri in capo all’Esecutivo: nelle parole degli eminenti costituzionalisti firmatari del Manifesto di Libertà e Giustizia, ci si troverebbe dinnanzi a un “progetto di stravolgere la Costituzione da parte di un parlamento esplicitamente delegittimato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 1 del 2014, per creare un sistema autoritario che dà al Presidente del Consiglio poteri padronali”;
- combinato disposto con la legge 6 maggio 2015, n. 15 (legge elettorale cosiddetta Italicum) che, con la previsione dei capolista bloccati e il premio di maggioranza, tenderebbe a riprodurre i difetti della legge elettorale precedente, i quali, nelle parole della Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014) “producono una eccessiva divaricazione tra la composizione dell’organo della rappresentanza politica, che è al centro del sistema di democrazia rappresentativa e della forma di governo parlamentare prefigurati dalla Costituzione, e la volontà dei cittadini espressa attraverso il voto, che costituisce il principale strumento di manifestazione della sovranità popolare, secondo l’art. 1, secondo comma, Cost.”;
- nelle sue linee di fondo, in sostanza, tale progetto di riforma costituzionale appare disomogeneo dal punto di vista contenutistico, irrazionale e ambiguo per quanto concerne funzioni, composizione ed elezioni del nuovo Senato, nonché confuso e contradditorio sul versante dell’autonomia regionale;
CONSIDERATO che:
- per quanto concerne la riforma del Titolo V, la riscrittura degli articoli 114-126 della Costituzione – in linea con le mai sopite pulsioni neoaccentratrici, acuitesi a partire dalla legislazione emergenziale seguita alla crisi economica e consolidatesi con i progetti di revisione costituzionale Monti e Letta e con la riscrittura dell’articolo 81 della Costituzione – delinea ancora una volta una concezione del diritto delle regioni confusa e scevra da adeguate valutazioni circa la comparazione delle soluzioni adottate da altri stati, ivi compresi gli stati federali;
- la riscrittura appare dunque una sorta di “controriforma” del titolo V vigente, già fortemente ridimensionato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale progressivamente orientatasi a favore di una interpretazione sempre meno favorevole alle regioni;
in particolare:
1) tali pulsioni paiono recepite nella riscrittura dell’articolo 117 della Costituzione e nella conseguente eliminazione della legislazione concorrente, con il pressoché totale riassorbimento delle materie in essa prevista nell’ambito della legislazione esclusiva dello Stato (che aumentano di circa il 50 per cento) e nell’introduzione di un’ulteriore “clausola di supremazia”, dopo quella prevista dall’articolo 120 della Costituzione, comma secondo, secondo la quale “su proposta del Governo, la legge dello Stato può intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale”, reintroducendo in tal modo il criterio dell’interesse nazionale” quale ampio e generico discrimine al riparto di competenze costituzionalmente garantito;
2) la riforma segue il solco tracciato negli ultimi anni alla compressione dell’autonomia finanziaria delle Regioni, attuata – oltre che per mezzo dell’onnivoro principio del “coordinamento di finanza pubblica”, nel progetto di riforma transitato nella competenza esclusiva dello Stato, e da una serie di nuovi e penetranti controlli da parte della Corte dei Conti – mediante la legge costituzionale 20 aprile 2012, n. 1 che ha imposto il pareggio di bilancio e introdotto, all’art. 5, indefinite “verifiche, preventive e consultive, sugli andamenti di finanza pubblica” che, in linea di principio, potrebbero legittimare l’introduzione di controlli statali sulle Regioni e sui Consigli regionali;
inoltre:
1) se da un lato la riforma pare assecondare il processo cosiddetto di “amministrativazione” delle regioni, dall’altro si traduce sostanzialmente nello svilimento del principio autonomistico e della funzione politica degli enti territoriali votata alle grandi opzioni strategiche di programmazione e indirizzo dello sviluppo locale;
2) in definitiva, la riforma muove da un contesto culturale nel quale l’annichilimento delle autonomie territoriali è considerato quale unico fattore di semplificazione, di razionalizzazione dei processi decisionali e, in ultima analisi, quale unico rimedio contro le inefficienze delle regioni, concepite come centri d’interessi particolaristici e non come espressione generale di un territorio;
CONSIDERATO, altresì, che i rischi di una ennesima compressione della sovranità della Sardegna risultano esplicitamente e implicitamente fondati su un’attenta analisi della riforma in oggetto, in particolare per quanto riguarda i seguenti profili:
- la concezione fortemente neocentralista alla base della legge costituzionale in oggetto rende alquanta problematica la possibilità di effettuare delle valutazioni ottimistiche sul futuro delle regioni a statuto speciale; benché il nuovo titolo V non si applichi a queste fino alla revisione degli statuti, il principio centralizzante che ispira l’intera riforma non può non avere ripercussioni dirette e immediate su materie fondamentali per lo sviluppo dell’isola, quali quelle relative a istruzione e università, ambiente, energia e lavoro, per citare alcuni esempi;
- se da un lato la clausola di non applicabilità prevista dall’articolo 39, comma 13, esclude le regioni ad autonomia speciale dalla riforma da un punto di vista formale, dall’altro vi è la pressoché certezza che tale norma introduca un regime confuso e contradditorio, stante la possibilità concreta di trovarsi dinnanzi due titoli V vigenti, quello in vigore dal 2001 e quello riscritto dalla riforma, il cui perimetro di applicabilità alle Regioni a Statuto speciale, lungi dal ridurre il conflitto con lo Stato, sarà quasi certamente fonte di nuovi contenziosi in sede giurisdizionale, contribuendo in tal modo all’erosione delle prerogative statutarie della Regione e all’incertezza eletta a sistema circa il diritto del proprio regime speciale;
- la confusione risulta particolarmente problematica in riferimento alla “clausola di maggior favore” prevista dall’articolo 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, che estendeva alle regioni a statuto speciale, sino all’adeguamento dei rispettivi statuti, gli effetti della riforma “per le parti in cui prevedono forme di autonomia più ampie” rispetto a quelle vigenti e sul cui destino non c’è unanimità di vedute neanche da parte della dottrina; ciò getta una luce inquietante sulla competenza della Regione a legiferare in quelle materie, come ad esempio l’istruzione che, per effetto della riforma del 2001, erano transitate nell’ambito delle legislazione concorrente, stante l’espunzione delle stesse tipologie di materie dal progetto di riforma;
- non è dato sapere se la sopravvivenza della norma succitata possa resistere ad un eventuale e probabile vaglio della Corte costituzionale, in quanto “clausola” introdotta dal legislatore costituzionale del 2001 sul presupposto della vigenza delle norme oggetto di riforma che la contengono e che a essa s’intrecciano in modo indissolubile;
- non esiste alcuna certezza circa il procedimento che, secondo la lettera dell’articolo 39, dovrebbe portare, attraverso il sistema dell’”intesa”, alla revisione degli statuti speciali; in particolare, la norma in parola desta non poche perplessità circa l’eventuale potere di veto del Parlamento su possibili proposte di modifiche statutarie presentate dai consigli regionali;
- altrettanto allarme suscita, per quanto attiene ai rapporti finanziari con lo Stato, la possibilità di un ampio margine di penetrazione nei confronti della specialità sarda ove si considerasse la nuova competenza esclusiva statale in materia di “coordinamento della finanza pubblica”; la portata regressiva della norma sul già di per sé discutibile sistema del regionalismo italiano appare maggiormente incisiva se letta in combinato disposto con l’introduzione della richiamata “clausola di supremazia”, pensata dal legislatore di revisione come uno strumento di portata generale e illimitata quanto a oggetto;
- tale clausola, efficacemente ribattezzata dalla dottrina più sensibile “clausola vampiro”, attivabile dal governo in presenza di condizioni oggettivamente imponderabili, quali quelle relative alla tutela dell’interesse nazionale e alla tutela dell’unità giuridica e economica, doterebbe il legislatore centrale di una vera e propria competenza in grado di scardinare, in maniera potenzialmente arbitraria, l’intera architettura del riparto di competenze stabilito dalla Carta;
- d’altro canto, la trasformazione della Camera alta in un Senato delle autonomie svuotato di competenze non pare offrire un valido contrappeso ai rischi menzionati, in ragione della sua scarsa rappresentatività legata ai territori soltanto da meccanismi di secondo livello e per lo più di natura non paritaria ma proporzionata alla popolazione di ciascuna regione, della presumibile scarsa attitudine dei nuovi senatori a stringere forti legami con il circuito di legittimazione democratica territoriale (a causa dell’attuale sistema dei partiti), nonché dalla considerazione che tali senatori andranno a rappresentare, secondo la lettera della riforma, non le popolazioni ma le “istituzioni territoriali”;
- in un contesto simile, sia per i motivi succitati, sia per il ridotto numero di senatori, non è possibile fare alcuna valutazione ottimistica circa la composizione territoriale sarda che, all’interno del nuovo Senato, dovrebbe rappresentare gli interessi della Sardegna, per tacere del fatto che la specialità all’interno del nuovo organo parlamentare sarebbe comunque destinata a recedere;
- si registra, inoltre, sul piano del diritto comparato, che l’istituzione di una camera rappresentativa di interessi regionali e locali è stata accompagnata in diversi paesi da una trama costituzionale volta alla transizione della forma di stato in senso federalista, istituzione che nel progetto di riforma in parola è contraddetta da un oggettivo arretramento delle prerogative regionali così come disegnato dal nuovo titolo V;
DATO ATTO che in seno all’opinione pubblica va compattandosi un vasto fronte contrario alla riforma costituzionale più invasiva della storia della Repubblica, concretizzatosi nella nascita, anche in Sardegna, dei Comitati del no in vista del referendum previsto dall’articolo 138 della Costituzione;
DATO ATTO, altresì, che nelle ultime elezioni regionali le forze che si richiamano esplicitamente al principio di autodeterminazione dei sardi quale valore irrinunciabile e improcrastinabile per il futuro della Sardegna rappresentavano circa il 30 per cento dei suffragi;
RICHIAMATA la risoluzione n. 3, approvata da questo Consiglio in data 26 giugno 2014, secondo la quale il percorso delle riforme della Regione deve in via prioritaria articolarsi “nell’individuazione degli ambiti e delle disposizioni dello Statuto la cui revisione garantisca una più efficace declinazione della specialità e dell’autonomia quale premessa per poter conseguentemente procedere, previo confronto con la Giunta e con i Parlamentari sardi eletti in Sardegna, all’elaborazione di una idonea procedura e di una organica proposta di revisione statutaria”;
RICHIAMATO altresì l’articolo 138 della Costituzione, comma secondo, secondo il quale “Le leggi stesse sono sottoposte a referendum popolare quando, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano domanda un quinto dei membri di una Camera o cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali”,
impegna il Presidente della Regione
1) ad esplicitare la contrarietà della Regione alla riforma costituzionale licenziata dal Parlamento;
2) a promuovere, in vista del referendum previsto dall’articolo 138 della Costituzione, tutte le opportune iniziative al fine di favorire il più ampio dibattito tra le forze politiche, sociali ed economiche della Regione sul tema della riforma costituzionale,
invita il Presidente del Consiglio
1) a promuovere ogni azione volta a prevenire gli effetti negativi della riforma costituzionale sull’autonomia speciale della Sardegna, compresa ogni attività propedeutica, d’impulso e stimolo atta ad avviare in Consiglio tutti gli opportuni interventi al fine di dare celermente seguito alla risoluzione n. 3, inerente il “Percorso delle riforme”, approvata dall’Aula il 26 giugno 2014, in particolar modo per quanto concerne la scrittura di una nuova Costituzione sarda che sostanzi il suo nucleo fondante nella specificità linguistica, culturale, storica e geografica della Sardegna;
2) nell’ambito delle attività di cui al punto 1), a valutare tutte le possibili iniziative al fine di promuovere, in vista della riscrittura dello Statuto, il più ampio coinvolgimento e la partecipazione diretta in sede decisionale di tutta la società sarda, comprese le forze politico-sociali escluse dalla rappresentanza istituzionale in virtù della legge elettorale regionale.
Cagliari, 6 luglio 2016
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