Sardegna: il dibattito sullo spopolamento
Comuni sardi in estinzione: quali rimedi?
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
Il recente studio, “Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento”, di Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni, ha rilanciato il grido d’allarme sullo spopolamento dei comuni della Sardegna. Lo studio, commissionato dal Centro regionale di programmazione all’Università di Cagliari, è valso ad aggiornare le informazioni, sul fenomeno dello spopolamento, di un’analoga ricerca commissionata nel 2006. L’analisi condotta evidenzia che, nell’arco dei 60 anni compresi tra il censimento del 1951 e quello del 2011, la percentuale di comuni in calo demografico è stata di circa il 60%, 228 comuni su 377, e di questi oltre un terzo (35,5%) ha registrato un decremento superiore al 40%.
La denuncia del fenomeno è stata ripresa dai mass-media regionali, che hanno sottolineato la gravità della situazione, cui hanno fatto seguito dibattiti diffusi in molte parti dell’Isola e risvegliato l’interesse della classe politica regionale per il destino delle cosiddette “zone interne”; ad essa, infatti, è riconducibile buona parte della responsabilità del mancato governo della fuga dei residenti dai piccoli centri che, a meno di interventi pubblici di natura prevalentemente “caritatevole”, sono stati abbandonati a se stessi. Ora, di fronte alla denuncia dell’aggravarsi del fenomeno dell’abbandono da parte dei residenti dei loro piccoli comuni senza futuro, è da presumere che a ben poco potrà servire, per “tamponare” l’esodo, la presentazione di proposte di legge regionali (come ha fatto di recente il Gruppo “Riformatori sardi), allo scopo di rilanciare i “piccoli comuni” dell’interno dell’Isola, col fine ambizioso di fare ripartire la crescita e lo sviluppo dell’intera Sardegna.
Stupisce, inoltre, che un conoscitore dei problemi della Sardegna, come Paolo Savona, in un recente articolo apparso su “L’Unione Sarda” del 22 giugno (“Zone interne, per la rinascita puntiamo sul modello Oxford”, il cui occhiello recita: “La politica cambi strategia: l’accentramento crea povertà e tensioni sociali”), abbia sostenuto che lo spopolamento “avrà pericolosi effetti sulla tenuta sociale e civile dell’Isola”; invece di operare contro questa tendenza, si continuerebbe ad agire in senso contrario, favorendo l’accentramento delle attività (burocratico-amministrative e sanitarie?) nelle aree che sarebbero capaci di reagire spontaneamente, “accelerando lo spopolamento delle aree deboli a favore di quelle forti, depauperando l’unica ricchezza sulla quale la Sardegna può ancora contare: il territorio e le sue vocazioni”. Già, il territorio e le sue vocazioni! - segue -
Ma Savona non ha per caso dimenticato che il “modello di industrializzazione forte senza sviluppo”, sperimentato nell’Isola, non ha mai considerato la diffusione territoriale dei suoi possibili effetti? Che le cosiddette “zone interne”, abbandonate a se stesse, sono state le destinatarie degli esiti di politiche ridistributive del reddito, reso disponibile per lo più da trasferimenti pubblici, per compensarle dell’unico processo di cambiamento vissuto dalla Sardegna? Un cambiamento sostanziatosi in una trasmigrazione intrasettoriale della forza lavoro dal settore primario, che avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza della crescita e dello sviluppo dei territori isolani, prevalentemente verso il settore della pubblica amministrazione, produttore solo di servizi non per il mercato? Con al centro, tra i due settori indicati (quello primario e quello della pubblica amministrazione), il settore industriale che ha “partorito” solo le famose “cattedrali nel deserto”, rimaste al palo sul piano occupazionale e mai riuscite a conservarsi autonomamente sul mercato? E che, proprio per questo, le “cattedrali”, essendo state di continuo rifinanziate”, hanno garantito all’Isola risorse pubbliche sufficienti ad assicurare un “reddito disponibile” orientato a rimunerare i bassi livelli occupazionali del settore di trasformazione e la pressoché totale ”disoccupazione nascosta” del settore della pubblica amministrazione regionale e a mantenere residualmente sul territorio quei pochi non privilegiati che non sono riusciti ad abbandonare il loro comune d’origine?
Ignorando tutto questo, oggi Paolo Savona, per la cura dei mali dell’Isola, propone, a salvaguardia della permanenza dei sardi sparsi nell’intero territorio regionale, una “ricetta” che prescrive il potenziamento del turismo di élite, in sostituzione di quello di massa, la costruzione di centri di accoglienza per anziani, nelle “zone amene della Sardegna, con poco traffico, aria buona, buon cibo e, soprattutto, assistenza sanitaria locale” (eventualmente affiancate da università e scuole di specializzazione, “come accaduto per Oxford e Cambridge”). In tal modo, a suo parere, diverrebbe possibile, se fossero innestate nei luoghi di residenza le iniziative indicate, creare col sostegno delle vocazioni territoriali appropriati ostacoli allo spopolamento e, nello stesso tempo, favorire la creazione delle condizioni per una ripresa della crescita e dello sviluppo dell’intera Isola.
A parte la disponibilità delle risorse, ciò che la ricetta proposta trascura è il fatto che quelle indicate come trainanti sono tutte “attività finali”, il cui supporto presume il sostegno delle “vocazioni territoriali”, cioè la nascita di tutte le strutture destinate a produrre ciò che deve essere trasformato per essere offerto sotto forma di beni e servizi per il mantenimento dei turisti e degli anziani ospiti dei centri di accoglienza. Se ciò non avvenisse, le ricadute in termini di reddito prodotto non sarebbero certamente investite all’interno dell’Isola, in quanto il nuovo reddito, se risparmiato, verrebbe inevitabilmente indirizzato altrove dal sistema bancario sovraregionale.
Inoltre, se le attività di trasformazione, collaterali alle vocazioni territoriali, dovessero realmente sorgere, imporrebbero gli esiti della loro intrinseca logica organizzativa, tendente, non a favorire la loro dispersione territoriale, semmai la loro concentrazione. E’ questo un aspetto che non può essere trascurato, potendo la sua considerazione essere assunta come valido paradigma per misurare il grado di successo sulla via della crescita e dello sviluppo dei singoli territori. Perché?
Gli studi sulle aree arretrate evidenziano che il superamento del sottosviluppo è accompagnato da alcune tendenze di fondo che ne caratterizzano lo svolgimento; fra questi elementi, oltre alla propensione generalizzata della popolazione ad accettare il cambiamento, vi è la tendenza di questa a cambiare la propria distribuzione territoriale. Una misura molto indiretta, infatti, del ritmo col quale un’area abbandona lo stato di arretratezza è offerta proprio dal intensità con cui si verifica il cambiamento della distribuzione territoriale delle residenze.
In generale, un’area arretrata è caratterizzata dalla dispersione della popolazione in un numero molto vasto di piccoli agglomerati che rappresentano sistemi sociali chiusi, autosufficienti, con una struttura produttiva segnata da bassi livelli di tecnologia, assenza di specializzazione del lavoro, mancanza di attitudine alla innovazione, ecc. E’ questa la fotografia della Sardegna dell’epoca anteriore all’inizio dell’intervento ordinario e straordinario finalizzato a sostenerne la crescita e lo sviluppo.
Esistono studi, e Savona dovrebbe conoscerli, che rilevano come l’Isola, nonostante i consistenti trasferimenti pubblici dei quali ha goduto, abbia conservato, ancora nella seconda parte avanzata del secolo scorso, una situazione che, a meno dell’abbandono delle residenze da parte di chi trovava un’occupazione nel settore della pubblica amministrazione e di coloro che emigravano, risultava tendenzialmente statica dal punto di vista della diffusione degli insediamenti demografici nel territorio. Col risultato che la dinamica demografica della popolazione anziana ha dato origine, successivamente, all’aggravamento del fenomeno denunciato da Bottazzi e da Puggioni e iniziato agli albori degli anni Cinquanta del secolo scorso.
Ciò significa che sin dall’avvio della politica di crescita e sviluppo, non è stato inaugurato in Sardegna, per quanto riguarda la distribuzione territoriale della popolazione, un appropriato governo del mutamento insediativo; mutamento, questo, inevitabile per promuovere la costituzione di una società e di una base produttiva moderne. In altri termini, in Sardegna non è mai esistita un’adeguata riflessione riguardo al mutamento degli insediamenti della popolazione regionale, quale si sarebbe dovuto prevedere all’interno di un’area, come quella dell’Isola, dove si intendeva perseguire la promozione di un processo di crescita e di sviluppo.
La conseguenza di tutto ciò è stata che l’attuazione della politica di intervento adottata ha originato una configurazione dell’intero contesto regionale caratterizzata dalla compresenza di due classi di subaree; queste, pur dotate di un migliorato reddito pro-capite disponibile, hanno presentato tuttavia sul piano demografico, delle specifiche peculiarità: accanto alle subaree periferiche o costiere, caratterizzate dalla presenza dei “grandi” centri urbani dell’Isola, la cui popolazione è risultata tendenzialmente correlata alla prevalente presenza di attività extraagricole, sono coesistite delle subaree (le cosiddette “zone interne”) all’interno delle quali si sono conservati piccoli centri di insediamento, con una popolazione “residuale” correlata alla prevalente presenza di attività di allevamento brado.
Il mancato governo del problema relativo alla dispersione territoriale della popolazione, pertanto, si è ora trasformato in uno dei tanti ostacoli che impediscono di migliorare, oltre che la struttura sociale ed istituzionale della Sardegna, anche la sua base produttiva. Tuttavia, al riguardo, va osservato che il mancato governo del problema della distribuzione territoriale della popolazione dell’Isola è, in parte, da imputarsi al radicarsi nella coscienza collettiva del “mito della conservazione delle zone interne” (sempre con la conveniente e interessata attenzione della classe politica regionale), per via del loro presunto ruolo identitario; ciò, nell’assunto che la conservazione quasi sacrale della tradizione potesse essere conciliata con l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita della popolazione, rifiutando conseguentemente i necessari cambiamenti, incluso quello concernente la sua tradizionale distribuzione nel territorio.
Una maggiore concentrazione territoriale della popolazione, perciò, sembra essere indispensabile, se si aspira a perseguire un miglioramento delle sue condizioni esistenziali, senza che lo spopolamento parziale di alcuni territori costituisca, di per se, un fatto negativo; anzi, da molti punti di vista, lo spopolamento può consentire ai territori, resi esausti dall’eccessivo sfruttamento perpetrato, come nel caso della Sardegna, dalla secolare pratica dell’allevamento brado, una restituzione al loro “climax ecologico”, perché in esso si instauri un sistema di equilibri naturali conservativi, regolanti le relazioni fra tutti gli elementi che concorrono a determinarli.
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