Ricominciare dalle periferie

quartiere-di-is-mirrionis-stefanocontiNuove periferie crescono in mezzo a noi
di Antonio Scurati
By sardegnasoprattutto/ 23 giugno 2016/ Città & Campagna

La Stampa 22/6/2016. Le periferie, dove si trovano le periferie? Ora se lo chiedono tutti. Soprattutto se lo chiedono i dirigenti del Pd mentre contemplano sgomenti la foto di Renzi che decide di commentare i risultati di una disfatta storica accanto a Massimo Bottura, lo chef superpremiato da 150 euro a coperto.

È tutta qui l’immagine dello smarrimento: il leader di quel che fu il più grande partito comunista dell’Europa occidentale si bamboleggia con le tre stelle Michelin mentre le periferie si avvelenano con i polli geneticamente modificati e votano le cinque stelle.

Dove si trovano le periferie? Nessuno dei giovani rottamatori, invecchiati dalla sera alla mattina, lo sa più con precisione mentre studia le mappe cittadine del disastro elettorale: a Torino Fassino tiene in centro e sulla collina, a Roma Giachetti quasi solo ai Parioli, a Milano Sala vince dentro la cerchia del Naviglio. Tutto il resto è l’ignoto di periferia, una terra divenuta straniera. A Napoli, dove anche il centro è periferia, il Pd non arriva nemmeno al ballottaggio.

Dove cominciano, dunque, queste misteriose periferie? Se si vuole raggiungerle, non è necessario andar lontano. Basta guardarsi attorno. Le nuova periferie non sono, infatti, soltanto aree urbane delimitabili sulle mappe cittadine; sono piuttosto dimensioni storiche, esperienze sociali, luoghi dell’immalinconita anima popolare. Aree golenali in cui imputridisce la vita collettiva.

Per raggiungerne una, tra le tante periferie del nostro scontento, sarebbe sufficiente che domattina seguiste i vostri figli nel loro quotidiano percorso verso la scuola pubblica. Se poteste, non visti, varcare i cancelli di quel mondo a parte che boccheggia da decenni in stato d’assedio nel centro vitale del nostro futuro, potreste osservare muri sbrecciati, aule soffocanti, edifici che sembrano progettati da architetti di campi di concentramento.

Soprattutto, lungo quei pavimenti scoloriti di gomme resilienti, vedreste trascinarsi donne e uomini avviliti e stanchi. Sono gli insegnanti che dovrebbero formare i vostri figli; componevano fino a ieri la più solida base elettorale dei partiti di sinistra e seguono oggi le nuove stelle.

Quello degli insegnanti è uno dei molti casi in cui l’emarginazione non è un fenomeno urbanistico. Quegli insegnanti avviliti e stanchi risiedono, per lo più, negli stessi quartieri abitati dai loro genitori, ma la storia li ha disertati. Sono entrati in un margine di esclusione storica in seguito al pluridecennale disconoscimento dell’importanza della loro funzione sociale. In altre parole, più crude: di loro a nessuno, da troppo tempo, frega più niente.

La cosiddetta «buona scuola», una pseudo-riforma imposta a brutto muso dopo la solita beffarda consultazione on line, ha inflitto al morale del corpo docente il colpo di grazia di una cattiva politica ridotta ai propri slogan. Nessuna attenzione agli aspetti educativi, nessuna autentica valorizzazione sociale del sapere, ogni accento spostato sulle logiche organizzative e gestionali, sulle demagogie dei centomila posti di lavoro.

Se poteste entrare nelle aule insegnanti assistereste al risultato di questa ennesima delusione. Vedreste i precari neo-assunti, membri del cosiddetto «organico di potenziamento», inquadrati con mansioni di «tappabuchi», industriarsi con i loro cellulari obsoleti per ingannare il tempo dividendosi tra un sito porno in navigazione protetta e una community di amanti dei gatti. Di fronte a loro, a osservarli in cagnesco, inaciditi da decenni di confino nelle retrovie della battaglia per l’educazione delle giovani generazioni, scorgereste i docenti tradizionali, indecisi se invidiare l’inedia dei nuovi arrivati o se rimanere fedeli alla propria affannosa impotenza.

Ad attenderli in classe c’è un computer collegato a Internet, dono del riformatore spavaldo e distratto. Nonostante tutte le ricerche scientifiche abbiano oramai dimostrato che l’accesso immediato all’indistinta informazione non favorisca ma, al contrario, ostacoli l’acquisizione di un qualsiasi sapere, la presunta panacea del tablet in ogni classe costringerà la loro lezione di algebra o di storia medievale a competere con l’ultima canzonetta di Justin Bieber. E poi con il bonus di ottanta euro si gustino pure una pizza o si comprino «uno zainetto» (Renzi dixit)! Ecco: scrutate, non visti, questa astiosa guerra tra poveri – poveri di spirito – e avrete trovato l’indirizzo di una delle tante nuove, poco misteriose, periferie.

Poi andatevi a cercare le immagini dell’ultimo comizio di Piero Fassino, figlio di partigiano, già segretario dei Democratici di Sinistra. Per la chiusura della sua perdente campagna elettorale Fassino ha scelto proprio una scuola. Deve, però, essersi smarrito anche lui, perché si trattava della Scuola Holden di Alessandro Baricco. Un magnifico edificio riattato da Renzo Piano e arredato da Dante Ferretti dove un centinaio di ragazzi privilegiati coltivano i propri sogni creativi dietro pagamento di una retta di ventimila euro.
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Is Mirrionis 14 mag 2016
Celestini: «Raggi parta dagli ultimi»
di Giuliano Santoro
By sardegnasoprattutto / 24 giugno 2016/ Società & Politica

ascanio-celestini-banneril manifesto, 23 giugno 2016. Ascanio Celestini, attore, scrittore e regista, viene dalla borgata di Casal Morena, alla periferia sud-est di Roma. Ha cominciato la sua carriera di narratore scavando con occhio da antropologo nella memoria e nelle storie orali. Da qualche anno ha piantato il radar sulle periferie metropolitane, raccontando le storie della gente che vive ai margini della città. Il suo ultimo film, uscito l’anno scorso, si intitola Viva la sposa. Lo abbiamo incontrato per chiedergli come osserva, dal suo punto di vista, il tracollo della sinistra, l’abbandono delle periferie da parte delle forze eredi del Partito comunista, le mutazioni in corso a Roma.

«Fino ad alcuni anni fa c’era un vincolo ideologico tra gli elettori e gli eletti – dice Celestini – L’elettore si sentiva rappresentato perché votava un’insieme di idee delle quali l’eletto era portavoce e attuatore. Quelle idee non erano generali e buone per tutti. Nel caso del Pci, ad esempio, si trattava di una visione del mondo che puntava a trasformarlo radicalmente. Per questa trasformazione tutti erano chiamati a partecipare e a discutere. Questo accadeva soprattutto nelle sezioni che si trovavano ovunque e soprattutto nelle periferie».

E poi, cosa è accaduto? Quando comincia la crisi?
È accaduto che a partire dagli anni Ottanta la situazione è cambiata: da una parte il legame tra elettore ed eletto è diventato virtuale, dall’altra il Partito comunista ha definitivamente abbandonato l’idea di cambiare il mondo preferendo la prospettiva di governarlo. Dunque è diventato sempre più difficile distinguere tra partiti di destra e di sinistra.

La mancanza di spazi comuni, pubblici e condivisi nella città è tra i temi dei tuoi ultimi lavori. Non so se te ne sei accorto: la vittoria del Movimento 5 Stelle a Roma non ha avuto festeggiamenti di piazza. Un timidissimo applauso al comitato elettorale nell’immediato e poi una festa privata, a inviti, in un teatro nel centro. Non è strano, per un partito che si definisce «di cittadini»? E soprattutto, non ti pare che questo denoti ancora una volta la nostra allergia agli spazi pubblici, aperti?
Il M5S riesce a portare in piazza molte persone ma ha bisogno di qualcuno che le organizzi. Non è un partito che fa cortei o manifestazioni spontanee, la sua è una ritualità che somiglia di più alla convention.

Il tuo nuovo spettacolo va in scena proprio a Roma (oggi all’Auditorium, ndr). Parla di un «povero cristo» metropolitano. Che genere di miracoli occorrerebbero per la Roma dispersa, abusiva, clandestina?
Il settimo municipio, quello nel quale vivo, ha più di trecentomila abitanti. Firenze ce ne ha pochi di più, ma già Ferrara ne ha meno della metà. E ancora di meno Pisa. Allora mi chiedo: com’è possibile gestire Roma lasciando a municipi grandi come città solo una piccola parte di autonomia? E poi i territori dovrebbero avere una serie di spazi pubblici nei quali si fanno continuamente attività, che siano frequentati dagli abitanti e ciò dovrebbe accadere soprattutto in periferia. Uno spazio che conosco bene, il teatro biblioteca del Quarticciolo, è chiuso da mesi, ma la sua riapertura è vitale: quello potrebbe essere uno dei tanti spazi pubblici sempre attivi.

Qualche giorno fai hai chiesto pubblicamente alla nuova sindaca di Roma cosa intende fare per la cultura, sottolineando come il concetto di «legalità» non sia sufficiente e anzi rischi di travolgere esperienze culturali formalmente «illegali». Tu che cosa le suggeriresti?

Il teatro del Lido di Ostia è stato occupato due volte e oggi è un esempio di attività culturale e di scelte condivise col territorio. Anche il teatro Valle è stato occupato ricevendo attenzione e sostegno internazionali. Trovo che sarebbe sciocco e pericoloso pensare che le palazzine abbandonate da anni che comitati di cittadini recuperano e mettono a disposizione di chi è senza casa siano solo espressione di illegalità. Lo stesso vale per i centri sociali che colmano un vuoto avvertito soprattutto nelle periferie.

C’è un balconcino che affaccia sui fori dal quale i sindaci di Roma si sporgono assieme ai loro ospiti. Se avessi la possibilità di condurre la nuova giunta in un luogo emblematico di Roma, per fargliela osservare da una prospettiva differente, che luogo sceglieresti e perché?
Potrebbe visitare il Cie di Ponte Galeria, per esempio. O il carcere di Regina Coeli o di Rebibbia. Oppure i campi nomadi. Se nessuno deve restare indietro, bisogna cominciare dagli ultimi.

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