Il lavoro: da diritto a eventualità
Riforma o restaurazione?
16 gennaio 2016
di Gianni Loy, su il manifesto sardo
C’è stato un tempo, neppure troppo lontano, nel quale al “padrone” ed al lavoratore era concesso di porre fine, liberamente, al rapporto di lavoro,, senza dover fornire alcuna giustificazione. La legge prevedeva l’obbligo di un periodo di preavviso, così da consentire al lavoratore di darsi da fare per trovare un’altra occupazione e, al datore di lavoro, di cercare un sostituto del lavoratore che si fosse dimesso.
Poiché il termine normale di preavviso, per gli operai, era di otto giorni, è invalso l’uso di sostituire l’intimazione “alla prima che mi fai, ti licenzio e te ne vai”, come accadeva ai tempi del signor Bonaventura, con il più elegante: “ti do gli otto giorni”.
Non si tratta di niente di arcaico, sta tutto scritto nel codice civile in vigore, solo che, a partire dal 1966, è stato introdotto l’obbligo di motivare il licenziamento con una giusta causa o un giustificato motivo. In mancanza, sono state previste sanzioni che potevano arrivare sino all’obbligo di reintegrare il lavoratore licenziato nel proprio posto di lavoro. L’articolo del codice civile non è stato mai abrogato, perché sempre è rimasta una piccolissima frangia di casi nei quali il licenziamento ha continuato, e continua, ad essere del tutto libero, come per il periodo di prova, il lavoro domestico e per i dirigenti.
Poi, i sistemi di produzione sono cambiati, è arrivata la stagione della flessibilità e, infine, è sopraggiunta la crisi. In conseguenza, le tutele contro il licenziamento illegittimo sono state fortemente ridotte. Il diritto alla reintegrazione è rimasto solo per il caso dei licenziamenti discriminatori o per quelli privi di forma scritta, oltreché per i pubblici impiegati. Per il resto, tutto è stato limitato ad una sanzione economica imposta a chi licenzi senza motivo: 2 mensilità per ogni anno di servizio, per le unità produttive sopra i 15 dipendenti, con un massimo di 12, e 1 sola, con un massimo di 6, per i datori di lavoro con un numero di dipendenti inferiore.
Tutto è automatico: al giudice è stata tolta la facoltà di stabilire la sanzione (entro un limite massimo) a seconda del caso concreto.
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Questo nuovo regime, evidentemente, altera i termini di paragone tra il contratto a tempo determinato e quello a tempo indeterminato. Potrà sembrare paradossale, ma il rischio per un imprenditore che assuma con contratto a tempo determinato può essere più elevato. In questo ultimo caso, infatti, la sanzione per un licenziamento ingiustificato prima della scadenza, rimane pari alla somma di tutte le retribuzioni mancanti sino alla data originaria di scadenza, e non di 1 o due mensilità per ogni anno di servizio.
Detto in altri termini, ad un imprenditore che abbia necessità di una prestazione temporanea, potrebbe risultare più conveniente utilizzare la forma del contratto a tempo indeterminato, tanto più se questa è resa appetibile dallo sconto concesso sui contributi per le nuove assunzioni. Per altro verso, un lavoratore assunto a tempo determinato ha almeno certezza della durata del proprio contratto, mentre un lavoratore assunto a tempo indeterminato, è assai più esposto ad una cessazione improvvisa, anche immotivata, senza poter più invocare la reintegrazione ma soltanto ricevere una somma certa che, nei primi anni (sono queste le tutele crescenti) è limitata a poche mensilità del proprio salario.
Tutto ciò non sposta di una virgola l’aspetto relativo alla precarietà dell’occupazione, perché è certo che, anche una volta che il contratto a tempo determinato venga definitivamente abolito, la fisiologica flessibilità dell’impresa sarà realizzata sugli ultimi assunti, cioè quelli il cui licenziamento, anche immotivato, costi di meno. Saranno questi che continueranno a “ruotare”.
La morale è che tutto cambia, anche i significati dei termini. Se un tempo, il lavoratore a tempo indeterminato poteva ritenersi garantito da forti tutele, persino “privilegiato”, oggi, non è più così. Oggi dire “contratto a tempo indeterminato” ha un altro significato, un altro sapore. Se, prima, eravamo convinti che il termine riforma fosse sinonimo di provvedimenti legislativi più favorevoli ai lavoratori, oggi dobbiamo constatare che, non di rado, nel diritto del lavoro, oggi significa esattamente il contrario, il ritorno al passato. Manca solo da limare ancora un po’, al ribasso, il costo del licenziamento per ripristinare la vecchia regola della libertà di licenziamento contenuta nel codice civile del 1942. Loro la chiamano riforma. A me pare più corretto definirla restaurazione.
Una postilla: anche i termini di democrazia e di concertazione sono interessati alla evoluzione del loro significato. Il nuovo contratto a tutele crescenti, infatti, ha avuto il via libera dalle parti sociali solo quando è stato chiaro che non sarebbe stato applicato né ai lavoratori già in servizio, né ai dipendenti pubblici presenti e futuri. Cioè: i cosiddetti “garantiti” hanno rinunciato a questa bella conquista per farne grazioso dono agli “altri”, ai giovani, a quelli che verranno, ai loro figli! Altrettanto ha fatto, evidentemente, l’istituzione democratica che ha approvato il decreto. Grazie!
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