Fuori Carlo Felice con tutti i Savoia dalla toponomastica sarda
Un filo monarchico sardo, pateticamente nostalgico dei Savoia, in una lettera all’Unione Sarda propone che Cagliari dedichi una via all’ex re Umberto II. Replicano numerosi lettori del Quotidiano contestando vivamente tale proposta e ricordando le gravi responsabilità storiche dei sovrani nizzardi, ad iniziare proprio da quelle dell’ultimo re d’Italia e suggerendo di contro, di intitolare invece una via della capitale sarda a Luigi Cogodi.
Antonio Ghiani – già valente giornalista dell’Unione – scrive che “i sardi dovrebbero averne abbastanza dei Savoia e della loro infausta collaborazione con il fascio, conclusasi infine con una ignominiosa fuga, quando l’Italia, persa la guerra, era nel caos”.
Altri ricordano opportunamente la funesta politica dei Savoia tutta giocata sulla discriminazione dei sardi, la repressione e le condanne a morte ma sopratutto il brutale fiscalismo. Aumentato a dismisura dal 1799 al 1816, con la presenza della Corte savoiarda a Cagliari, in seguito all’occupazione dell’Italia settentrionale da parte di Napoleone. Nei 17 anni della presenza a Cagliari dei Savoia infatti “furono complessivamente pagate – scrive lo storico sardo Aldo Accardo – come contribuzioni straordinarie per la corte 9.714.514 lire sarde: dal 1799 373.000 ogni anno per l’appannaggio della famiglia reale; dal 1805 oltre 76.750 per lo spillatico della regina”. E ciò mentre l’Isola vive sulla propria pelle una gravissima crisi economica e finanziaria: certo conseguenza delle calamità naturali e delle pestilenze di quegli anni ma anche di una politica e di un’amministrazione forsennata da parte dei Savoia, specie, ripeto, con l’aumento delle tasse.
Il peso delle nuove imposizioni fiscali, colpivano non soltanto le masse contadine ma anche gli strati intermedi delle città. A tal punto – scrive Girolamo Sotgiu – che “i villaggi dovevano pagare più del clero e dei feudatari: ben 87.500 lire sarde (75 mila il clero e appena 62 mila i feudatari) mentre sui proprietari delle città, sui creditori di censi, sui titolari d’impieghi civili gravava un onere di ben 125.000 lire sarde e sui commercianti di 37 mila”.
Così succedeva che “Spesso gli impiegati rimanevano senza stipendio, i soldati senza il soldo, mentre ai padroni di casa veniva imposto il blocco degli affitti e ai commercianti veniva fatto pagare il diritto di tratta più di una volta” .
Il protagonista fondamentale della politica savoiarda di questo periodo è Carlo Felice, più noto come Carlo feroce: l’epiteto gli fu affibbiato da un suo conterraneo piemontese, Angelo Brofferio, letterato e critico teatrale. Ebbene Carlo Felice, fu viceré e poi re, ottuso e inetto, sanguinario e famelico (pensava ad accumulare il suo “privato tesoro” mentre le carestie decimavano le popolazioni affamate). Su di lui la storia ha già emesso la sua condanna inappellabile. Lo storico Pietro Martini, pur di orientamento monarchico, lo descrive come gaudente parassita, gretto, che avea poca cultura di lettere e ancor meno di pubblici negozi… servo dei ministri ma più dei cortigiani. Ai feudatari, da viceré, – scrive, un altro storico sardo Raimondo Carta Raspi – diede carta bianca per dissanguare i vassalli. Mentre a personaggi come Giuseppe Valentino affidò il governo: questi svolse il suo compito ricorrendo al terrore, innalzando forche soprattutto contro i seguaci di Giovanni Maria Angioy, tanto da meritarsi, da parte di Giovanni Siotto-Pintor, l’epiteto di carnefice e giudice dei suoi concittadini.
Divenuto re con l’abdicazione del fratello Vittorio Emanuele I, mira a conservare e restaurare in Sardegna lo stato di brutale sfruttamento e di spaventosa arretratezza: “con le decime, coi feudi, coi privilegi, col foro clericale, col dispotismo viceregio, con l’iniquo sistema tributario, col terribile potere economico e coll’enorme codazzo degli abusi, delle ingiustizie, delle ineguaglianze e delle oppressioni intrinseche ad ordini di governo nati nel medioevo”: è ancora Pietro Martini a scriverlo.
Carlo Felice odia i sardi: il suo maestro, in tal senso è il reazionario Giuseppe de Maistre che arrivato in Sardegna nel 1800 per reggere la reale cancelleria, non pensa nei tre anni di reggenza, che ai propri interessi denotando uno sviscerato disprezzo per i sardi je ne connais rien dans l’univers au-dessous (sotto) des molentes, soleva affermare nei loro confronti e in una lettera da Pietroburgo al Ministro Rossi nel 1805 scrive : Le sarde est plus savage che le savage , car le savage ne connait la lumiere e le Sarde la connait.
Altro che dedicare allora un’altra via alla odiosa zenia dei Savoia: all’ordine del giorno in Sardegna vi è l’urgenza e la necessità di modificare radicalmente la toponomastica, facendo sloggiare da tutte le strade e le piazze dell’Isola tutti i Savoia, ad iniziare da Carlo feroce. A meno che non si voglia continuare con un imperdonabile masochismo, ricordando e osannando, quelli che sono stati per la Sardegna i persecutori e i sovrani più nefasti.
E’ stato scritto che con i Savoia la Sardegna è stata liberata dal feudalesimo e dunque “modernizzata”. E sia. Purché non si dimentichi che l’eversione dei feudi giovò ai feudatari spagnoli e piemontesi ai quali le terre furono generosamente pagate dalle comunità, dissanguate due volte! Non di restituzione delle terre alle comunità si trattò dunque, ma di un ulteriore esproprio. Anche perché le terre distribuite a così caro prezzo ai contadini e pastori delle ville, privi di capitali e degli stessi arnesi di lavoro (aratri, zappe, falci e cavalli e buoi), caddero ben presto nelle mani di usurai senza scrupoli diventati in breve più esosi, se possibile, dei vecchi padroni.
E’ stato anche scritto che ai Savoia si deve comunque in gran parte la costruzione dello Stato italiano unitario. E sia anche questo. Purché si ricordi che l’Unità d’Italia sarà (e ancora è) tutta giocata, per quanto ci riguarda, contro gli interessi della Sardegna ridotta a “colonia” interna: oggi area di servizio della guerra e domani ricettacolo delle scorie nucleari?
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[…] Certo Sa die de sa Sardigna è nata da una discussione fiacca in Consiglio regionale. Ci fu più eccitazione e partecipazione, ad esempio, quando votammo la legge che faceva Comune Lodine, la piccola frazione di Gavoi. Anche a quel tempo i consiglieri erano attenti alle presenze nelle tribune dell’Aula e per Lodine c’era una folla di lodinesi, mentre per Sa die, gli Angioy e i tanti altri martiri della sarda Rivoluzione non erano lì, neppure nel ricordo dei vivi.. D’altronde il fatto storico, la cacciata dei funzionari piemontesi, è importante, ma molto temporaneo, preceduto e seguito, com’è, da una dominazione ottusa e sanguinaria come fu quella dei Savoia. Dopo quel 28 aprile c’è stata la grande macelleria che ha visto il supplizio di Francesco Cillocco a Sassari, la forca per Sorgia, Putzolu e Cadeddu a Cagliari, la reclusione a vita di Vincenzo Sulis, che stoltamente difese i Savoia dai francesi, ma divenne troppo popolare, da far ombra e destare sospetto negli ambienti di una Corte di ingrati e sanguinari. Poi, giù giù fino all’eccidio di Bugerru, di Iglesias, l’insensato massacro della Grande Guerra e il fascismo. Una storia di sopraffazioni, di patimenti e di sangue. Ha ragione Tonino Dessì, anche per questa ragione Sa die è rimasta una ricorrenza irrisolta, e non a caso, nelle occasioni migliori, fin dalla prima ricorrenza post legem fu relegata al rango di una specie di mascherata generale in costumi dell’epoca, senza impatto sull’oggi e sul domani. Questa irresolutezza ha consentito quest’anno alla Giunta Pigluaru di parlar d’altro e inventarsi un diversivo, la giornata dei migrantes, importante certo, ma di cui si può ben parlare nei restanti 360 giorni dell’anno. Si capisce che per Pigliaru, coi sui magri risultati, parlar di Sardegna è proibitivo. A questo punto, se non vogliamo trasformare le ricorrenza in occasione di conflitto permanente e rinverdire l’antica definizione (pocos, locos e malunidos), occorre dare un senso a Sa die. Certo, è difficile resuscitare i morti. Ci vorrebbe un miracolo. Ma forse la politica è l’unico terreno in cui i prodigi non sono impossibili, anche se son rarissimi, quasi come le guarigioni di Fatima o di Lourdes. Che fare, dunque, per resuscitare la giornata dei sardi? Sul piano simbolico, si potrebbe attualizzare la ricorrenza, facendone l’occasione per la cancellazione simboli della dominazione reazionaria. Per esempio, trasformando in Largo dei Martiri di Palabanda il Largo Carlo Felice e erigendo lì, in faccia a Carlo Felice, un grande monumento a Cadeddu, Sorgia e Putzolu, a ricordo perenne dei fatti del 1812. Se non vogliamo eliminare le opere della dominazione, possiamo ribaltarne il significato e il messaggio. Ad esempio, lasciando la statua di Carlo Felice, ma spiegando nella lapide a caratteri ben visibili che quel re, dal nome così accattivante, fu soprannominato Carlo il Feroce per la sua vocazione reazionaria e sanguinaria. E così, a ondate successive, ogni anno, accompagnando gli eventi con dibattiti di massa, non solo a Cagliari, ma in tutte le contrade della Sardegna, dove i nomi dei protagonisti della lotta dei sardi per la democrazia non sono evocati a dar nome a Piazze e e viali. Ma certo questo è un fatto di memoria, anche se è importante per l‘acquisizione di una consapevolezza storica. E l’attualità? Si può recuperare, facendo de Sa die il giorno del discorso del presidente della regione sullo “stato della Sardegna”, un po’ come si fa negli States, dove il presidente si rivolge al popolo tracciando consuntivi e delineando preventivi, ossia la prospettiva, gli obiettivi di breve e lungo termine. In tale discorso il presidente della Regione potrebbe descrivere sia le condizioni generali dell’Isola sotto il profilo sociale, economico e politico, sia l’agenda della giunta, sia, ancora, i progetti per il futuro e le priorità. Oltreoceano il discorso è tenuto sulla base dell’articolo II, terza sezione, della Costituzione degli Stati Uniti d’America, che richiede al presidente di riferire al congresso lo “stato dell’unione” e le misure che crede sia necessario prendere, in Sardegna potrebbe essere previsto integrando la legge istitutiva de Sa Die. In una terra in cui non si fanno mai consuntivi seri e mai previsioni credibili e non propagandistiche, il “discorso sullo stato della Sardegna” potrebbe essere un momento, se fatto con serietà e rigore, per una discussione generale e di massa sulla condizione dei sardi e la politica isolana. Un modo puntiglioso di fare i conti con noi stessi e con gli altri. Un momento di verità e di mobilitazione del popolo sardo. Il contrario del fatto di folkore degli uni e della rimozione degli altri. —— – Nella foto piccola manifestazione degli indipendentisti a Cagliari per rivendicare una nuova toponomastica che riconosca i martiri sardi contro Carlo Feroce e gli altri Savoia. […]