Dibattito politico? No, grazie!
di Vanni Tola
L’interesse del cittadino medio per il dibattito politico, pur in presenza di un’importante tornata elettorale, non va per la maggiore. Direi che non interessa proprio nessuno, forse pochi appassionati nostalgici. Difficile dare torto a quei milioni di italiani che, anche questa volta, esprimeranno con l’astensione la propria abissale distanza, il disinteresse e il disincanto per le scaramucce ideologiche in atto con al centro l’uomo solo al comando, Renzi e i suoi competitor. I più ottimisti sognano che a cambiare le cose nel paese possa essere l’influenza di accadimenti che si realizzano in altri paesi e allora eccoli li, tutti pronti a sperare, ad attendere che il miracolo Tsipras, la crescita di Podemos, la scelta laica dell’Irlanda riguardante i matrimoni gay, possano produrre un qualche benefico “effetto induzione” anche qui da noi pur in assenza di reali movimenti alternativi e di leader politici capaci di promuoverli e orientarli. La storia recente ci insegna che ciò finora non è accaduto e probabilmente non accadrà mai per sola induzione geografica. Per tutti gli altri, per coloro che ancora ritengono sia utile l’analisi politica, lo studio serio degli accadimenti politici come chiave di lettura e comprensione delle vicende in atto, suggerisco la partecipazione ideale a un importante dibattito in corso fra alcuni intellettuali storici della politica italiana. Un dibattito avviato dalla Fondazione Pintor Onlus con articoli di Roberto Musacchio, Valentino Parlato e Alfonso Gianni (che pubblichiamo). Buona lettura.
L’INTELLIGENZA DELLA TRISTEZZA
di Alfonso Gianni – 28 maggio 2015
Vorrei inserirmi nella discussione che qui si è aperta per merito degli articoli pubblicati da Roberto Musacchio e da Valentino Parlato. Non servirà certo – è bene avvertire subito l’eventuale lettore – a squarciare quel velo di tristezza che avvolge entrambi gli scritti citati. Non posso dire di essere animato da particolari motivi di ottimismo. Proprio per questo i due articoli mi sono parsi da subito meritevoli di particolare attenzione. Perché sono privi di retorica e finalmente esprimono uno stato d’animo diffuso autentico, che, a sua volta, diventa un elemento politico non trascurabile nella nostra situazione.
Siamo alla vigilia di elezioni regionali certamente significative. Si voterà tra una manciata di giorni in sette regioni e tutta l’attenzione indotta dai mass-media è concentrata sul risultato finale, espresso in termini tennistici: sarà un 6 a 1, oppure un 4 a 3 e via dicendo. Nessuno sembra preoccuparsi e tenere in considerazione l’elemento che in ogni caso sarà il più rilevante di questa tornata elettorale amministrativa: la disaffezione al voto. Tutti i sondaggi fin qui consultabili indicano un ulteriore incremento dell’astensionismo. Dovessero sbagliarsi i sondaggi e le mie personali percezioni – magari! -, questa sì sarebbe allora la vera novità capace di proporre in una luce diversa il quadro politico e sociale del nostro paese.
Sì, perché non si può vivere solo di luce riflessa. I successi di Syriza, ora di Podemos ( e non solo ), come del referendum irlandese sui matrimoni gay ci riempiono di entusiasmo. Tommaso Nencioni in uno stimolante articolo pubblicato sul Manifesto, ricorda come ritorni in ballo il vecchio auspicio di Carlo Rosselli “Oggi in Spagna, domani in Italia”. Ma è niente altro che un dolce nostalgico richiamo o un wishful thinking che non trova riscontri reali nella nostra condizione. La verità è che da noi mancano non solo soggetti politici nuovi della sinistra, ma anche i movimenti hanno andamenti carsici o insediamenti troppo localistici che li configurano più come comunità in lotta che movimenti antisistemici complessivi.
Sperare che la vicenda spagnola influisca positivamente sulla imminente tornata elettorale italiana mi pare una pia illusione. Sia che a coltivarla sia il Movimento 5 stelle che, se troverà domenica una buona affermazione, non sarà certo per punti di somiglianza con Podemos – casomai con Ciudadanos, il movimento liberal democratico spagnolo –, ma per il protagonismo nell’opposizione a Renzi, qualunque sia il giudizio di qualità e di merito che si voglia dare sulle loro azioni. Sia che a nutrire una simile speranza siano le liste di cittadinanza – comprendenti anche i piccoli partiti della sinistra d’alternativa, ma non tutti e non da tutte le parti - che, con molta fatica, sono state messe in piedi. La loro possibilità di ottenere buoni risultati, che vadano al di là dei bacini elettorali preesistenti, è esclusivamente legata alla eventuale capacità di avere centrato qualche argomento che tocca e scuote la condizione concreta delle popolazioni locali. Le amministrative sono le amministrative. E’ tautologia, ma sembra che bisogna ripetercelo ogni volta. Abbiamo già patito le delusioni della stagione dei sindaci arancioni, anche perché affidavamo loro capacità trasformative generali che mai avrebbero potuto fornire.
D’altro canto così si spiega il successo della sinistra spagnola, come ci dicono le analisi più accurate che sono seguite al voto. I migliori successi avvengono nelle città dove si è costruita una coalizione di forze politiche e sociali. Se queste fossero andate divise o se le prime avessero preteso dalle seconde solamente il voto, anziché la partecipazione attiva alla costruzione del programma, della lista, dell’immagine complessiva da mettere in campo, i risultati sarebbero stati più scadenti.
Non a caso ho parlato di sinistra spagnola, malgrado le nuove forze sembrano scartare lo stesso termine “sinistra” dalle proprie insegne, quasi fosse un relitto del passato aggrappandosi al quale si rischia di andare a fondo. Nessuno può avere dubbi sul carattere profondamente di sinistra della vittoria della coalizione catalana, per fare un esempio. Non solo perché le lotte sociali che l’hanno partorita, quelle contro gli sfratti, riproducono un conflitto più che classico fra proprietà privata e diritto all’abitazione – ne scrivevano già Marx e soprattutto Engels più o meno 150 anni fa -, ma perché la costruzione di senso che è stata perseguita muove tutta nella direzione dell’uguaglianza, il tratto assolutamente distintivo della sinistra, il clivage fra destra e sinistra come aveva scritto Norberto Bobbio 20 anni fa. Il conflitto fra destra e sinistra è stato tra i protagonisti nella contesa spagnola, accanto, ma non sorpassato, a quelli fra alto e basso nella società, fra esclusi e inclusi. Ma lo scontro tra destra e sinistra per esistere e incidere deve nuovamente inverarsi nel tessuto sociale, poiché a livello delle vecchie rappresentanze politiche esso è del tutto irriconoscibile.
Ha ragione Loris Caruso quando conclude la sua analisi affermando che “Qualsiasi forma di politicismo, anche brillante, è decisamente votata alla sconfitta. Sarà questo il futuro modello della sinistra, visibilmente in gestazione in questi anni e di cui le elezioni spagnole parlano in modo chiaro: partiti e movimenti insieme, coalizione sociale più coalizione politica. Ognuno, da solo, farà poca strada”. Appunto, ma per “sommarsi”, bisogna che già esistano entrambi: partiti e movimenti. Questo punto non può essere saltato nel ragionamento quando riflettiamo sulla condizione nel nostro paese. Né la confusione fra coesione politica e coesione sociale aiuta. Pensare che dalla coesione sociale lanciata da Landini possa provenire di per sé la risposta per la costruzione del soggetto nuovo della sinistra è un errore, come lo è prescinderne. Su questo punto ha ragione Fausto Bertinotti, in un’intervista rilasciata all’Huffingtonpost, quando afferma che “la coalizione sociale è la produzione di un processo politico-partitico? No. E’ una produzione di politicizzazione? Sì. Quindi può essere intercettata da chi in autonomia può fare Podemos o Syriza”.
Ma non esiste un modello per farlo. Del resto Podemos e Syriza sono diversissimi tra loro. La formazione iberica si ispira deliberatamente a quel populismo di sinistra, teorizzato come risposta alla crisi delle ideologie e della forma partito, da Ernesto Laclau, cui si connette inevitabilmente, direi strutturalmente, la figura carismatica del leader. E quest’ultimo non si inventa. Non credo sia questa la risposta da dare in Italia. Tentativi ce ne sono stati, più o meno consapevoli, più o meno analoghi. Dalle forzature teoriche sul concetto di “moltitudine” al tentativo di creare connessioni, se non unità, fra movimenti che avevano obiettivi circoscritti. Sono falliti – o hanno durato lo spazio di un amen - tanto quanto i richiami all’unità delle micro formazioni politiche.
L’Altra Europa con Tsipras con il suo risicato ma decisivo 4,03% è andata in controtendenza rispetto alla “scimmia” della sconfitta posatasi sulle spalle della sinistra di alternativa. Ma quello che ne è seguito dimostra che non basta. Non solo per le litigiosità interne. Il richiamo a un europeismo antiliberista è stato un punto forte di programma che si è rivelato vincente. Ma da solo non può reggere il compito della costruzione di un nuovo soggetto politico della sinistra. La ragione di questo limite sta proprio nell’Europa. Essa non è solo Grecia e Spagna, ma anche Polonia. Per non parlare del suo attuale carattere germanocentrico. Più che un ideale è un terreno di conflitto aperto ad ogni soluzione. Se prevalesse la Grexit – cui magari potrebbe seguire un’uscita della Gran Bretagna , della Polonia o della Spagna per motivi fra loro opposti – dell’Europa, e di quanto ha rappresentato in termini ideali da Ventotene in poi, non resterebbe più nulla. Del resto ogni soggetto politico ha necessità di trovare le ragioni del suo esistere in primo luogo nella realtà culturale, economica e sociale nella quale nasce.
So bene che un nuovo soggetto politico non può essere partorito dai vecchi. Verrebbe trascinato nella tomba da questi ultimi. Ma intanto se si potesse evitare che alla sinistra del Pd ci siano più organizzazioni la cui esistenza separata non ha più alcuna ragione di essere nemmeno per i propri militanti – anche grazie al rifiuto di qualunque relazione alla propria sinistra teorizzata e praticata da Renzi - e soprattutto se ci potessimo risparmiare che le forze che abbandonano il Pd, pensino di potere mettere sé stesse al centro di processi unitari (ogni riferimento a Civati non è casuale) sarebbe già un piccolissimo passo in avanti. Un’opera di semplificazione e di igiene politica utile a farsi intendere e capire. Forse non basterà un convegno per ottenere questo risultato, ma cominciare a parlarsi chiaro sarebbe utile.
Ma soprattutto per conquistare nuove forze, quelle dell’astensionismo per esempio, quelle della sinistra diffusa fortemente politicizzata ma non partitica, vi è bisogno di una nuova elaborazione programmatica, di sperimentazioni organizzative all’insegna della democrazia deliberativa, di nuovi linguaggi. Una vera ricerca intellettuale e pratica ci sta davanti. Eppure le non molte forze che lo potrebbero fare, anziché unirsi si suddividono ulteriormente. Ovunque nascono gruppi di studio, centri di elaborazione programmatica, gruppi di lavoro. Che non si parlano tra di loro e neppure competono in una sana produttività intellettuale. Semplicemente o si pestano i piedi o si attribuiscono la palma dell’heri dicebamus. Su questo terreno non ha neppure senso una separazione di ricerca fra chi lavora prevalentemente alla coalizione sociale e chi a un nuovo soggetto politico, essendo i temi gli stessi, mentre ciò che è diverso è il ruolo che le due differenti dimensioni giocano in rapporto a quelle tematiche. E’ troppo chiedere di unificare, almeno tendenzialmente, i “pensatoi” secondo linee di ricerca condivise? Almeno, se distinzioni restassero – e certamente ne resterebbero -, avrebbero il pregio della chiarezza.
Probabilmente nei prossimi mesi, se non settimane, verranno al pettine diverse questioni che potrebbero essere oggetto di nuove battaglie referendarie. Dalla legge elettorale, alle controriforme costituzionali, dalle leggi neoliberiste sul lavoro a quelle che distruggono stato sociale, scuola e beni comuni. Il governo è stato iperattivo su questi fronti. Questo “merito” a Renzi bisogna riconoscerglielo. Naturalmente bisognerà discutere, ad esempio sui contenuti e la forma dei quesiti da sottoporre ai cittadini – con intensità ma con calma. La fretta – ce lo insegna la nostra storia – in questi campi è matrice di sconfitte, a volte anche banali.
Ma in ogni caso si apre una possibilità imperdibile. Si possono unire temi istituzionali, quindi prettamente politici, con grandi tematiche sociali per cui battersi con le armi della mobilitazione di massa e della democrazia diretta, l’unica cosa che può veramente fondere, senza confondere, il terreno politico con quello sociale. Se accompagnamo questo con l’intensificazione di un internazionalismo europeista concreto, fatto non solo di parole d’ordine ma di connessioni materiali, e della ripresa di una lotta per la pace che i nuovi venti di guerra (da qualche parte del mondo è già da tempo burrasca piena) che spirano a Sud e a Est del nostro vecchio continente, forse ce la facciamo a tracciare una nostra strada originale, sia per dare continuità ai movimenti sociali, sia per rinnovare profondamente il sindacato, sia per fondare un soggetto politico nuovo della sinistra.
In conclusione: restiamo pure tristi , se non altro perché l’età ci fa avvertiti, ma non abbandoniamo tenacia e intelligenza.
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ROMPIAMO L’INCANTESIMO
di Roberto Musacchio – 15 maggio 2015
Una maledizione! E’ ciò che sembra avere da, troppo, tempo la sinistra italiana. La maledizione delle sconfitte, certo. Ma su queste sarebbe bene qualche volta riflettere senza ogni volta buttare via tutto per ricominciare da capo senza aver in realtà capito cosa sia successo. La maledizione della divisione, delle rotture ripetute all’infinito ed all’infinitesimale. Anche queste mai rielaborate. Ma è veramente così impossibile provare a fare una riflessione collettiva, magari un poco organizzata, per capire e, si spera, rimediare? Certo non è facile, perché sconfitte e divisioni si accompagnano a rancori, dissapori che albergano tra i “protagonisti” e che, nel mondo della rete, si alimentano in un circuito di massa che avvelena un intero pezzo di società.
Partiamo da quest’ultimo elemento: il rancore generalizzato. “Avete sbagliato tutti, andatevene tutti”. Sentimento anche motivato e bisogno di ricambio anche giusto. Ma questo risolve? A me pare che sia il caso di chiederselo. Abbiamo ora in campo la rottamazione renziana. Possiamo vedere che il rottamare non è neutro e che spesso si accompagna a un populismo che più che altro vuole distruggere un’idea sociale e di democrazia partecipativa. Il “buttafuori Renzi” sta alimentando un nuovo bisogno di qualcosa di alternativo. Ma questo fatica ad affermarsi. Manca un leader, dicono in molti. E forse c’è una parte di verità. Ma forse ancora di più manca una nuova visione condivisa che non può fare a meno di un processo di riconoscimento reciproco dei percorsi fatti. Così come nei Paesi che escono da dure guerre civili, il riconoscimento collettivo delle colpe e delle ragioni è indispensabile al nuovo che si vuole edificare.
Siccome questo processo di riconoscimento reciproco non si può fare ex cathedra io parto da me. Che mi sento tutte le responsabilità di un percorso ormai lungo, avverto gli errori ma non riesco a rinunciare anche alle ragioni che mi hanno mosso. Il punto di vista è quello di una storia che va dal Pdup, al Pci, al Prc e Sel per poi ritrovarsi oggi in Altra Europa. A un certo punto un cambio forte di prospettiva per una politica non vissuta più come “mestiere” e un ricollocarsi in altre esperienze ma sempre mantenendo il “vizio assurdo”. Anzi, con l’interrogarsi sugli errori che porta, almeno me, a ricercare nuove ragioni di incontro con tutti coloro da cui mi sono diviso e una “urgenza” di riparare. Una vita dunque in buona parte “dentro” quel mondo ormai disastrato della politica “apparato”. Che è stato un mondo complesso, di passioni e miserie che non si possono liquidare senza rifletterci un po’ sopra.
Questo partire da sé, e dal contesto in cui si è stati, per altro a me pare una pratica utile che suggerirei anche ad altri diversamente collocati. Mi vengono in mente ad esempio gli intellettuali che anch’essi hanno vissuto una dimensione di “apparato” che oggi è radicalmente messa in crisi. Magari sarebbe utile riflettere su come, per entrambi, i politici e gli intellettuali, questa messa in discussione degli “apparati” sia divenuta messa in discussione dell’esistenza stessa delle categorie del pensiero e dell’agire cui si riferiscono e cioè la politica e l’uso dell’intelletto. Lo dico perché assieme al partire da sé a ma appare utile anche la contestualizzazione. Riconoscere il contesto in cui si è stati e si sta, vedere se coincidono i vissuti di esso, per come era o per come lo si ripensa oggi e per come è adesso è una pratica per me feconda.
Provo allora a dire come la vedo io. A me pare che il ciclo lungo in cui siamo sia quello della rivoluzione conservatrice legata al capitalismo finanziario globalizzato. Questo ciclo lungo prende le mosse nel momento stesso in cui gli “anni gloriosi” raggiungono il loro culmine e cioè già negli anni ’70. Credo di non proporre una ricostruzione ciclica contestualizzata alla mia esperienza soggettiva ma abbastanza oggettivabile. Naturalmente ciascuno di noi è portato a provare a dare un senso alla propria storia rischiando magari sfasature e di sembrare il giapponese che continuava a combattere. Ma a me pare che anche questo senso di sfasatura sia un effetto voluto di questa rivoluzione conservatrice che, come in 1984 di Orwell, prova a farti dimenticare anche le ragioni per cui combattevi il grande fratello per poi ucciderti quando ti sarai pacificato con lui.
Questo cambio di percezione che opera la rivoluzione conservatrice agisce precisamente sui grandi aggregati di senso storicamente determinati. Pensiamo a come abbiano cambiato, appunto, di senso grandi categorie come la politica, la democrazia, il pubblico, il lavoro, l’Europa. Parto da quest’ultima, l’Europa, perché a me appare precisamente il luogo-contesto dove si era maggiormente realizzato il senso degli anni gloriosi e dove oggi si pratica di più il non-senso della rivoluzione conservatrice. La definizione di questo luogo-contesto mi aiuta a leggere meglio il passaggio dal senso al non-senso di grandi categorie e di grandi aggregati. Penso all’apparato democratico e politico. A quello dell’economia pubblica e sociale. A quello della intellettualità. E penso alle grandi costruzioni sociali e politiche, il movimento operaio e, in Italia, il Pci.
Proprio il Pci, nel suo bagaglio, aveva, ed avremmo ancora noi tutti, quella lettura gramsciana che tanto aiuterebbe a riflettere precisamente sulle grandi categorie, la politica, la democrazia, gli intellettuali, il senso comune, nel loro rapporto con la “modernità”. Ciò su cui ha operato la rivoluzione conservatrice è precisamente questa capacità di costruzione di egemonia per estirparla dalla radice. Depauperato di ciò il Pci è risultato una struttura ridotta a puro funzionalismo, scalabile. Precisamente ciò che era avvenuto, per ragioni diverse, nei vecchi regimi del socialismo reale. La devitalizzazione del Pci, e il suo cambio genetico che culmina con il Partito della Nazione di Renzi, avviene precisamente nel contesto storico di costruzione della ‘”Europa Reale” e determina il venir meno della connessione sentimentale tra un popolo e il suo percorso storico. Scrivo così perchè nella perdita generale di senso operata dalla rivoluzione conservatrice la perdita del popolo e del percorso storico non avvengono linearmente ed anzi si cortocircuitano. Cosa che rende tutto drammaticamente più difficile perché non è dato un punto di ripartenza “facile” né nel popolo né nel senso.
Per tornare al mio punto di osservazione personale mi pare di poter ricostruire un percorso che va dal punto di vista di “avanguardia finale” degli anni gloriosi, e cioè il ’68 al tentativo di contrastare la perdita di senso usando ciò che ne rimaneva. Del ’68 dico “avanguardia finale” per dire che quegli anni che sembravano aprire un percorso probabilmente invece vedevano iniziare la sua fine. E dico dell’uso del senso rimasto perché mi pare che in fondo si sia vissuti soprattutto del tentativo di non far chiudere una porta storica. Naturalmente questa lunga fase di crisi ha tappe, momenti topici, in cui forse si poteva fare altro. Io considero il “fare la storia con i sé” una buona pratica che può aiutare a elaborare i lutti e a trovare nuove vie. Naturalmente altro è se invece serve a creare fissità in cui ci si trincera non per riparare agli errori ma per accusare altri di tradimento.
Volendo arrivare all’oggi, la mia idea è che l’Altra Europa con Tsipras sia stato. e sia ancora, il tentativo di riprovare a darsi un senso laddove esso era stato particolarmente perso, e cioè la dimensione europea. Per come l’ho pensata e vissuta, la relazione con Tsipras e la lotta contro l’austerità, austerità che rappresenta il punto terminale di cambio di senso dell’Europa, è il tentativo di ricostruire una connessione sentimentale con il popolo e del popolo con un progetto storico, la lotta di liberazione dell’Europa. Con tutti i materiali che ciò fornisce. Come la costruzione di coalizioni sociali a quel livello europeo dove esiste oggi solo il patto di potere tra finanza e borghesie. E il rapporto con una esperienza, quella di Syriza, che è stata capace di un processo di recupero di senso e funzione storica. Non è un caso che nella esperienza della lista si siano ritrovati percorsi fino ad allora divisi e frammentati. Penso a pezzi di naufraghi della politica e della intellettualità insieme a nuovi protagonismi sociali. Le loro divisioni erano state evidenti anche nel voto per le politiche del 2013, quelle a me pare della sconfitta definitiva del tentativo di “recuperare il PD e questa Europa”. Alcune parti politiche e molti intellettuali, compresi alcuni garanti e riferimenti della lista Tsipras avevano votato e fatto appelli per Italia Bene Comune. Nonostante che, per me, proprio il suo profilo europeo fosse la cosa più lontana. Altri, anche io, avevano vissuto l’esperienza infelice di Rivoluzione Civile. Ma insomma c’era una confluenza tra due percorsi che alludevano per altro ad un periodo lungo di incontro scontro avvenuto negli anni del “prodismo” tra chi ha provato a tenere aperta una contraddizione dall’interno e chi, come me, la considerava talmente grande, l’incombere della “Europa Reale” che occorresse comunque attrezzarsi a starne fuori. Visioni che si sono scontrate e incontrate per 15 anni per altro articolandosi in tante gamme.
Sta di fatto che con la lista Tsipras si opera una prima riconnessione, su un punto chiave, appunto l’Europa. Per questo sono affezionato a questa esperienza perché mi pare indichi il tema, la ricostruzione di senso al livello a cui lo si è più perso, e una via per l’unità fondata sulla riconnessione sentimentale tra popolo e storia. Naturalmente sono bene cosciente delle inadeguatezze e delle nuove fratture intervenute. Come si è visto non ho parlato di queste perché non volevo fare né una replica né una riflessione contingente. Ho provato a riflettere sul tema della “nostra maledizione”. Naturalmente, anche per questo, questa esperienza, quella dell’AE, non vale in sé come nuovo soggetto storico ma, come abbiamo detto, come soggetto-progetto. Cosa significa? Che sappia lavorare alla ricostruzione di senso, radicalità e unità. Il contesto resta massimamente difficile. L’”Europa Reale” incombe. La breccia greca non vede aprirsi una stagione di incontro tra lotte che si riconoscono e si uniscono. I materiali del vecchio Movimento Operaio sono dispersi e, in Italia, la vena del Pci definitivamente esaurita e trasformata nel suo contrario, il Partito della Nazione. Gli intellettuali e la politica faticano a ridarsi senso. E non c’è un movimento sociale capace di fare da architrave ad un nuovo soggetto. Né appare alle porte una soluzione generazionale.
Su questi due aspetti, quello sociale e quello generazionale, voglio spendere due parole, sapendo che dovrebbero essere molte di più. La coalizione sociale è indispensabile, specie a livello europeo. La lotta della scuola ci dice che c’è ancora un accumulo di senso che permane. Non fosse così non si potrebbe parlare di Altra Europa. Non dobbiamo però dimenticare quale poderosa costruzione sociale è stata quella degli anni gloriosi e di come abbia toccato tutti i gangli della società in una politicizzazione sociale straordinaria che va dagli operai alla psichiatria. Il ’68, il femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo, l’alterglobalismo stanno nella nostra esperienza e sono forse l’irriducibile del nostro senso. Questo non toglie nulla a ciò che oggi si muove in forme nuove di altra società, di altra economia, di mutualismo. Ma senza operare, questo è il mio pensiero, scorciatoie politiciste per altro esterne a queste stesse pratiche. Appunto vivendo la coalizione sociale per come viene proposta.
Per i giovani io penso che questo nostro non confrontarsi con la memoria sia per loro un peso. Si è ingombranti non solo quando non ci si leva di torno ma anche quando ci si sottrae ad un confronto. La mia esperienza è quella di una generazione che ha provato a prendere in mano la propria vita ma è anche fatta di ricordi di “grandi” con cui ho condiviso questa mia strada, nel bene e nel male.
Allora, come sempre, c’è il che fare. Anche qui lo dico per me. La mia bussola è quella di stare dentro le pratiche sociali dal basso e di coltivare il “vizio assurdo” della politica secondo alcune regole e con alcuni fini. Mai più rappresentanza o apparato. Lavorare a ricostruire seguendo l’”etica del discorso”, il reincontro, la riflessione su passato, presente e futuro, la comprensione, l’unità nella radicalità, il cambio motivato. Il mio obiettivo lo dichiaro ed è quello di un grande soggetto politico nuovo che aiuti la riconnessione tra popoli europei e una nuova Europa. A me pare che, nonostante tutto, qualcosa si muova. Tutti dicono di non mettere insieme ceti politici e sconfitte, e io concordo. Ma non basta dirlo. Francamente se il problema fosse tutto riducibile alle “miserie” dei “partitini” o dei “ceti politici” o a quelle degli “intellettuali” le cose sarebbero ben poco problematiche. Purtroppo, almeno per me, c’è assai di più e di diverso e di questo ho provato a parlare. Per essere all’altezza, questo lavoro di reinsediamento, di reincontro, di ricostruzione di senso e connessione sentimentale, di ricambio va fatto sul serio e da tutti.
Roberto Musacchio
[il grassetto è redazionale]
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CRISI ECONOMICA, CRISI SOCIALE,
CRISI POLITICA, CRISI CULTURALE
di Valentino Parlato – 20 maggio 2015
Lo scritto di Roberto Musacchio, che potete trovare sul sito della Fondazione Luigi Pintor, va assolutamente letto. Innanzitutto – e parlo per me e la mia generazione – perché esprime la tristezza e, anche, il disorientamento di chi si era impegnato in politica per cambiare il mondo e ora non smette di lamentare lo stato presente delle cose e, ancora di più, delle persone. Quelli della mia generazione sono tristi e delusi, ma i giovani non hanno neanche le speranze che, ai nostri tempi, ci spingevano a pensare ed agire. Erano, ricordiamolo, i tempi del famoso “miracolo italiano”. La bella scrittura di Musacchio descrive e rappresenta il presente e il suo dolore, ma non è mai fuga.
Non dobbiamo nascondercelo o farci ingannare da qualche ripresina. Siamo in una crisi epocale del sistema capitalistico, ma in vista non c’è nessuna rivoluzione, quasi che la crisi capitalistica uccida anche gli avversari del capitalismo. C’e’ una grande crisi capitalistica, ma gli antagonisti storici del capitalismo stanno un po’ peggio dei capitalisti; questa è la realtà che sta sotto i nostri occhi. La crisi è economica, ma anche sociale e culturale. Sindacati e partiti di sinistra sono indeboliti e anche in difficoltà culturale: pensiero debole e mancanza di obiettivi che non siano puramente e debolmente difensivi.
Questa situazione Marx l’aveva prevista quando scriveva che “lo sfruttamento del lavoro vivo diverrà una ben misera base per lo sviluppo generale della ricchezza”, ma sul possibile futuro nel Capitale non scrive e le possibilità di una rivoluzione sono trattate solo nel “Manifesto” di Marx ed Engels. Questa citazione l’ho trovata nel “Sarto di Ulm’ di Lucio Magri, opera della qual raccomando la lettura, soprattutto la Appendice che ha per titolo “ Una nuova identità comunista” (1987) nella quale Lucio affrontava, ben prima di noi, i pesanti problemi che abbiamo di fronte e che, quasi, ci ammutoliscono. Leggere e rileggere Lucio è da fare seriamente. Insomma il capitalismo è in una crisi gravissima e, direi, finale, ma non ci sono indicazioni sulla via di uscita.
Siamo nel pieno di cambiamenti profondi del capitalismo storico, quello che abbiamo conosciuto, e siamo in una crisi di caduta della produzione. E quando i giornali segnalano con ottimismo, quasi si fosse a una svolta, che il Pil è cresciuto dello 0,5 o 0,7 per cento; mi viene da ricordare che anche nelle malattie mortali talvolta ci sono segni di miglioramento temporaneo, che non cambiano affatto l’esito finale.
Siamo di fronte a cambiamenti profondi nei modi di produzione; pensiamo solo alla rivoluzione delle macchine e alla globalizzazione e alla fine delle economie nazionali se non addirittura delle nazioni, degli stati indipendenti (basta vedere quel che sta producendo la moneta unica in Europa. Come ci aiuta a capire “La nuova rivoluzione delle macchine” di Erik Brynjolfsson e Andrew Mc Afee (Feltrinelli), oggi le macchine non solo sostituiscono la forza fisica dei lavoratori, come a suo tempo la macchina a vapore, ma anche l’intelligenza dei lavoratori e cosi la storica classe operaia perde il suo relativo primato. Ma cambia anche sostanza e ruolo il padrone, che da imprenditore, capitano d’industria che si occupava della produzione oggi è impegnato a far denaro con il denaro, senza la mediazione delle merci . E ancora finanziarizzazione e globalizzazione riducono il potere degli stati nazionali e, quindi, dei parlamenti e dei partiti nazionali . E’ il tramonto della vera politica e dei grandi obiettivi di riforma: prevale, a livello di gruppo e individuale, l’arte di arrangiarsi. L’innegabile grande successo di Matteo Renzi e del suo “partito della nazione” si fonda sulla rottamazione delle istituzioni democratiche a vantaggio del potere personale e, come si sa, il potere personale e’ essenzialmente di destra. Non dimentichiamo che Mussolini già da socialista era molto attento al suo potere personale. Con questo non voglio dire che Renzi stia sulle tracce di Mussolini, ma che può incoraggiare nuovi personaggi di destra.
L’altra grande novità è la globalizzazione. Il mondo è diventato (anche per il progresso tecnico) comunicante e si è scatenata una nuova concorrenza sui prodotti , le imprese e il lavoro umano. Non ci sono solo la Cina (che è il maggior creditore degli Usa) e l’India, ma un’infinità di paesi grandi e piccoli che portano sul nostro mercato merci e persone e imprese. In Italia la storica Pirelli è diventata cinese, l’Alitalia un po’ araba, la Fiat americana. E in Europa non si è fatta l’unità politica, ma quella monetaria che riduce l’autonomia politica degli stati, non in base a un accordo contrattato, ma in base al pareggio di bilancio, (che abbiamo messo pure in Costituzione) che ha messo al primo posto l’assurda religione dell’austerità. A scuola ci insegnavano che e’ il sovrano a battere moneta in Europa sovrana è la moneta che decide chi può essere sovrano e chi no (vedi la vicenda della Grecia).
Crisi economica, crisi sociale, crisi politica, crisi culturale: questa la nostra attuale realtà. In questa situazione Franco Cassano nel suo ottimo volumetto sul vento della storia che non soffia più a favore del mondo del lavoro ci dice che bisogna ricostruire il popolo e Maurizio Landini propone di lavorare alla formazione di una coalizione sociale, cioè a una convergenza delle forze sociali in difficoltà. Ottime indicazioni, ma allo stato attuale con scarso seguito nonostante la grande e forte manifestazione della Fiom per lanciare appunto la coalizione. Tutti i democratici dovrebbero impegnarsi a realizzare questi obiettivi. Questa è la politica che ci vuole oggi e ci vuole un lavoro culturale per analizzare e capire la dinamica dell’attuale crisi epocale e costruire la speranza. È un proverbio reazionario quello che dice che “chi di speranza vive, disperato muore”: tutti i movimenti che hanno migliorato le condizioni di noi umani si sono fondati sulla speranza di cambiare e quindi sullo studio e l’organizzazione.
E, per finire, un sentito grazie a Roberto Musacchio.
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lA NUOVA SARDEGNA 30 maggio 2015
Il dibattito politico
Mai visto nel lessico politico un simile affollamento intorno alla categoria di “possibilità”. L’esempio di Podemos che esercita fascino anche in Italia
di Luciano Marrocu
È un segno dei tempi il ribadire da parte di Michela Murgia che lo slogan “Sardegna Possibile” appartiene al suo movimento e che quindi male ha fatto Pippo Civati, con il suo “In Sardegna è possibile”, ad appropriarsene. La cosa, nonostante le apparenze, è abbastanza seria, vista l’importanza che hanno slogan e simboli in politica. Sono sempre esistite nella politica democratica le contese sui simboli. Contese particolarmente aspre in occasione di scissioni, quando sembra decisivo a ognuna delle fazioni in lotta appropriarsi del nome e del simbolo originari del partito e attraverso essi richiamarsi alla tradizione comune. La tradizione, infatti, quando viene il momento delle elezioni, è un asset di cui si afferra tutta l’importanza. Ciò che colpisce nel caso specifico non è dunque l’esistenza di una discussione sullo slogan, ma il contenuto dello slogan su cui si discute. Sino ad anni recenti non si era mai visto nel lessico politico un simile affollamento intorno alla categoria di possibilità. È definitivamente e felicemente tramontata la stagione delle marmoree sicurezze, quella del “noi tireremo dritti” per intenderci. Eppure anche successivamente qualche certezza i partiti hanno pensato di doverla offrire agli elettori. Nelle storiche elezioni del 1948, al “Dio ti vede, Stalin no”, inventato da Giovannino Guareschi ma largamente utilizzato dalla Dc, comunisti e socialisti contrapposero il non meno stentoreo “Contro i provocatori di guerre, i venduti allo straniero, vota Garibaldi.” Nelle elezioni europee del 1984 il Pci impostò la campagna su uno slogan “Per chi avrà vent’anni nel 2.000. Un’Europa di pace e lavoro”, che se non dava assolute certezze perlomeno individuava un obiettivo. L’assertivo “Forza Italia” del 1994 operava una sintesi geniale, riuscendo a funzionare sia come nome del nuovo partito di Berlusconi, sia come lo slogan intorno al quale incardinò la sua vittoriosa campagna elettorale. Rimanendo all’Italia, fu il Veltroni fondatore e leader del Pd emerso dallo ceneri dei Ds e della Margherita a importare nel lessico politico nazionale la categoria di possibilità. “Yes, we can”, lo slogan intorno al quale Veltroni costruì la campagna elettorale del 2008. Era certo bizzarro che si usasse l’inglese in una faccenda tutta italiana, ma non mancava di forza e di significato quel “Sì, noi possiamo” che le legava la possibilità del cambiamento a un massiccio coinvolgimento dei cittadini, chiamati a prendere l’iniziativa in prima persona. Dopo qualche anno, sono stati gli spagnoli di “Podemos” a esplorare gli spazi che la categoria della politica come possibilità offriva a chi li sapesse occupare. La crisi strutturale della democrazia spagnola, la divaricazione tra il sentire comune e la rappresentanza politica, sono state il contesto in cui “Podemos” ha costruito la sua ascesa. Non molto diversa la situazione in Italia, ciò che spiega il fascino esercitato nel nostro paese da “Podemos”. Ha anche trovato estimatori da noi il nuovo stile politico di Adau Colau, vincitrice a Barcellona, e di Manuela Carmena probabile prossimo sindaco di Madrid, che sembrano offrire una risposta, da sinistra e di sinistra, alle difficoltà e alle occasioni della politica liquida. Vediamo ogni giorno in Europa, in particolare dopo quest’ultima tornata elettorale, che l’instabilità politica, la transizione che non finisce mai, non sono un fatto solo italiano. In questo mare siamo chiamati a navigare, insomma, in questo mare navigheremo.