la lampada di aladin su… Emergenza Educazione
Don Cannavera, la lettera delle dimissioni: “Nel carcere di Quartucciu ragazzi trattati come pacchi””
. Vito Biolchini su vitobiolchiniblog.
Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità la Collina, ha reso note alla stampa le sue dimissioni dall’incarico di cappellano del carcere minorile di Quartucciu. Lo scorso 7 maggio Cannavera aveva inviato la lettera che qui pubblichiamo (“Riflessioni sull’impostazione pedagogica dell’Istituto penale minorile di Quartucciu”) al ministro della Giustizia Andrea Orlando, al direttore del Dipartimento Giustizia Minorile Annamaria Palma Guarnier, e per conoscenza al magistrato di sorveglianza del Tribunale per i minorenni di Cagliari Maria Giovanna Pisanu, alla presidente della Camera Laura Boldrini, ai senatori Luigi Manconi e Roberto Cotti, ai deputati Michele Piras e Pierpaolo Vargiu, e al direttore del Centro Giustizia Minorile per la Sardegna Isabella Mastropasqua
- A Orune come a Milano?. Andrea Pubusa su Democraziaoggi. (…) E la mancanza di democrazia c’entra? C’è stata una stagione in cui tutti i paesi erano innervati da una rete di centri di organizzazione, dove si discuteva dei problemi locali e nazionali, le sezioni dei partiti, luoghi di confronto, di socializzazione e di elaborazione, e i consigli comunali erano piccole agorà, dove si decidevano le cose locali, ma sopratutto si formavano i cittadini, abituandoli alla pratica democratica. C’è stata la stagione dei circoli culturali ad Orgosolo e dintorni, e quanta dirigenza politica, quanta analisi della situazione è venuta fuori di lì. Molti di noi si sono formati in quella esaltante fucina di idee, di contatti, di discussioni, dove l’analisi prima che dai libri veniva trasmessa reciprocamente a voce dai Giovanni Moro, dai Gonario Sedda, dai Tonino Dessì e dalle Teta Mazzette. Oggi, c’è il sindaco-semi podestà, nelle province il podestà, nella Regione il governatore che sgoverna col 19% del consenso dei sardi, grazie ad una legge elettorale-truffa, e il presidente che si avvia sulla stessa strada con l’Italicum. Fra poco ci saranno anche i presidi-podestà e così via podestando. Qualcosa ha sostituito questi luoghi d’incontro, di analisi, di formazione? Questo deserto democratico incide nel malessere giovanile e non solo, in Barbagia come altrove? (…)
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Tre giorni fa, martedì 12 maggio, don Cannavera ha comunicato le sue dimissioni da cappellano del carcere di Quartucciu (era stato nominato quasi 23 anni fa, il 3 ottobre 1992) all’arcivescovo di Cagliari Arrigo Miglio, al direttore dell’istituto minorile Paolo Planta e all’ispettore dei cappellani don Virgilio Balducchi. Cannavera ha comunicato che resterà in servizio fino al 31 maggio “allo scopo di facilitare la nomina di un altro cappellano, per la cui ricerca si rende disponibile”.
Questa è la scheda dell’istituto redatta dall’associazione Antigone.
I grassetti nella lettera somi miei. [V.B.]
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Signor Ministro, signora Direttrice del Dipartimento Giustizia Minorile,
sento il dovere di mettere a conoscenza voi e gli altri rappresentanti delle istituzioni in indirizzo – particolarmente attenti alle problematiche del carcere – di quanto, dal mio osservatorio, constato riguardo alla conduzione del vissuto quotidiano dei ragazzi accolti nell’Istituto penale minorile di Quartucciu, dove opero come cappellano.
Ritengo doveroso rendere tutti voi partecipi delle osservazioni che mi accingo a esprimere nell’intento di assicurare il rispetto dei bisogni dei ragazzi, di cui il comportamento deviante è espressione. Desidero inoltre segnalare la scarsa attenzione nei confronti della rieducazione e del recupero dei ragazzi affidatici dalla Magistratura da parte degli enti che hanno in carico la supervisione dello stesso carcere: il D.G.M e il Centro di Giustizia Minorile di Cagliari.
Sottolineo inoltre le condizioni di abbandono in cui versa l’edificio stesso del carcere, circostanza che insieme alle altre condiziona pesantemente il progetto educativo già di per sé di difficile attuazione.
Dopo ventitré anni di servizio volontario e di presenza assidua nel carcere di Quartucciu, negli ultimi due ho deciso di diradare gradualmente la mia presenza per l’incapacità di riconoscervi ancora un luogo ove si svolga quell’opera di recupero educativo e di reinserimento sociale che la nostra Costituzione attribuisce alla pena (art. 27). Nel nostro carcere minorile si pratica una pedagogia penitenziaria che non riesco più a condividere.
Scrive Gabrio Forti che una giustizia penale è democratica «in quanto mai disgiunta dall’impegno a generare solide risposte educative alla trasgressione». Questo deve essere l’impegno di quanti operano attorno alla colpa, alla pena, alla riconciliazione. Nel carcere di Quartucciu, invece, le risposte pedagogiche latitano: tutto o quasi è subordinato alle sole esigenze di custodia e di sicurezza.
Constato così che il D.G.M. trasferisce i ragazzi da un carcere all’altro per motivi disciplinari o di sovraffollamento e non per un progetto educativo, che invece richiederebbe la permanenza del ragazzo nell’istituto di pena nonostante il comportamento “aggressivo” o similari. I ragazzi sono spesso trattati come “pacchi” da destinare a una collocazione più contenitiva, e si trascura di instaurare con loro una relazione educativa che sia “di cura”. Relazione che dovrebbe instaurarsi con la creazione di una équipe educativa che coinvolga tutti gli adulti che operano all’interno del carcere: cuoca e portinaio compresi.
Nel carcere minorile di Quartucciu le esigenze del “trattamento” e della “sicurezza” prevalgono ancora su uno “spazio pedagogico penitenziario”, con l’effetto di piegare il tempo a ritmi di attività periodiche e occasionali lontane da quella pedagogia che si fonda principalmente sulla relazione costante e quotidiana dei ragazzi con gli educatori. Le preziose potenzialità pedagogiche di questi ultimi si riducono invece a un’attività da “impiegato” cui spetta il compito di riferire all’autorità giudiziaria. Un ruolo quindi privo di una progettualità educativa che si eserciti nella condivisione del vissuto quotidiano dei ragazzi nelle ore di servizio e in tutto il tempo della settimana. Educare è rompere ogni resistenza alla relazione di fiducia con l’altro, e questo può accadere solo se l’adulto che vuole definirsi educatore condivide con il ragazzo gli spazi e il tempo in cui il ragazzo è più autenticamente se stesso: l’intera quotidianità, i luoghi e i momenti di convivialità e di lavoro…
Formalismo nelle relazioni e tempo ridotto dedicato ad esse allontanano dal ragazzo consapevolezza e responsabilizzazione, unici agenti efficaci di cambiamento di sé. Com’è possibile allora “riscattare” ciò che è imprigionato nel ragazzo, nell’angoscia e nell’illusione? Che strumenti gli diamo per mutare l’immagine negativa di sé, se lo priviamo della possibilità di sperimentare relazioni d’affetto significative e senso della vita in un’età così ricca di possibile progettualità?
Queste osservazioni valgono per l’istituto di cui ho diretta esperienza. L’impostazione pedagogica della Direzione del C.G.M., corresponsabile della gestione del carcere attuata dal nuovo direttore dopo l’allontanamento del precedente direttore Giuseppe Zoccheddu (completamente scagionato da quanto gli veniva imputato), mi sembra lontana dall’impostazione che qui ho cercato di riassumere.
La presenza degli educatori, spesso privi di una prospettiva pedagogica condivisa, mi sembra non rispondere alle necessità relazionali ed educative dei ragazzi. L’allargamento a 25 anni dell’età di coabitazione con i minori, in mancanza di una diversa progettualità educativa, mi sembra nocivo più che educativo. In questi ultimi tempi si è poi rafforzata in me l’impressione che la vita all’interno del carcere sia modulata dai detenuti più grandi piuttosto che da una “scansione” temporale educativa.
La struttura sempre più fatiscente rende il carcere di Quartucciu ancora più estraneo all’obiettivo pedagogico che si prefigge, ed è lecito domandarsi se le cospicue risorse economiche destinate all’organizzazione di incontri e convegni su temi attinenti al disagio e alla devianza giovanile non potrebbero essere destinate a migliorarne la vivibilità per gli adolescenti che passano i loro giorni tra le sue mura. Il costo giornaliero attuale per ogni minore detenuto a Quartucciu supera ormai i mille euro e non ci si preoccupa minimamente di reperire altre strutture meno costose per la collettività e più adeguate a una efficace relazione educativa coi ragazzi.
Si predica il risparmio e si esorta a spendere ragionevolmente. Ma allora perché non risparmiare risorse nominando alla direzione del Centro Giustizia Minorile per la Sardegna uno dei tanti operatori sardi competenti? Perché spendere in viaggi e alloggi costosi per chi viene a “colonizzarci” da Roma anziché impiegare un operatore locale qualificato? Perché retribuire come direttore Giuseppe Zoccheddu, inutilizzato al Centro, invece che restituirgli il riconoscimento professionale che gli spetta? Non possiamo più essere complici silenziosi di questa ingiustizia per paura di ritorsioni nei confronti di chi sa e ha difficoltà a parlare. Cosa insegniamo ai nostri ragazzi, se noi adulti ci comportiamo da complici di “reati” economicamente ben più gravosi?
Sentendomi impotente di fronte a queste dinamiche, sto maturando l’intenzione di non assecondare oltre con il mio ruolo di cappellano questa gestione, lontana sia da quanto affermiamo in convegni e dibattiti sia da quanto sostiene la letteratura corrente in materia di pedagogia penitenziaria minorile.
Ho accennato solo ad alcune carenze, consapevole che ve ne sono ben altre sia da me conosciute superficialmente sia a me sconosciute in un sistema che addirittura si fregia del termine “Giustizia”.
Per il futuro intendo dedicare il mio tempo ai detenuti del carcere di Uta e di altre carceri per adulti in Sardegna, come già faccio nel tempo residuale all’impegno nell’Ipm e nella Comunità La Collina di cui sono responsabile. E lo farò senza alcun ruolo istituzionale ma in quanto semplice volontario, come del resto ho fatto a Quartucciu in questi ventitré anni in cui ho rifiutato qualsiasi retribuzione per il ruolo di cappellano o contributo economico per le varie attività religiose, ricreative e culturali organizzate insieme al gruppo di volontari dell’associazione “Oltre le sbarre”, che ho aiutato a nascere e di cui faccio e continuerò a fare parte.
La giustizia minorile, nel piccolo settore di cui mi sono occupato per oltre quarant’anni e di cui continuerò ad occuparmi da esterno col “fare” e spero col “dire”, rimarrà al centro dei miei interessi, nell’ottica di contribuire al miglioramento di un’autentica pedagogia penitenziaria.
Resto perciò disponibile, quando non impegnato in altre carceri, a contribuire a un’opera di riflessione e di proposta orientata a una detenzione che sia pedagogicamente significativa, come le nostre leggi e norme richiedono.
Cappellano dell’Istituto penale minorile di Quartucciu
don Ettore Cannavera
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A Orune come a Milano?
17 Maggio 2015
Andrea Pubusa su Democraziaoggi
So di fare una provocazione, ma la faccio lo stesso. C’è un nesso fra l’uccisione del giovane studente di Orune e la morte dello studente in gita a Milano? Direte: entrambi erano certamente studenti delle secondarie e dunque giovani. Solo questo? No, erano sicuramente ragazzi, coetanei, anche tutti i protagonisti della vicenda. E poi? Erano tutti maschi. Embe!? Sono contesti usuali in ambito giovanile. Ma introduciamo una variante: se l’ambiente fosse stato misto e nei gruppi fosse stata rilevante la presenza femminile, gli esiti sarebbero stati gli stessi? Probabilmente no. Forse l’attenzione si sarebbe spostata verso la ricerca dell’altra, e la dinamica avrebbe fatto prevalere questo interesse. Voglio dire che non va trascurata l’osservazione di Tonino Dessì, quando mette in luce, in queste vicende piene di disvalori, la difficoltà di relazione con le ragazze e la conseguente chiusura in “masculiate”, prive di positività e di sentimenti.
Altro elemento comune in queste vicende è la sproporzione fra l’esito, la morte di un giovane, e le motivazioni o i fattori causali. Il dato di fondo è l’assoluta svalutazione della vita umana, della persona e della sua sacralità. Si può ammazzare per una ripicca o per uno scherzo. So di fare un accostamento all’apparenza audace e gratuito, ma la vita dei giovani massacrati nelle guerre, c’entra in tutto questo? Influisce lo svilimento delle persone, che nel centenario della Prima e nel settantesimo della fine della Seconda, abbiamo visto mille volte nei filmati d’epoca? E la mercificazione del lavoro, privato della sacralità d’essere l’elemento più creativo della persona? C’entra la svalutazione del lavoro ormai non più garanzia di una vita libera e dignitosa, come recita la nostra Carta, maltrattata anzitutto in questo?
E la mancanza di democrazia c’entra? C’è stata una stagione in cui tutti i paesi erano innervati da una rete di centri di organizzazione, dove si discuteva dei problemi locali e nazionali, le sezioni dei partiti, luoghi di confronto, di socializzazione e di elaborazione, e i consigli comunali erano piccole agorà, dove si decidevano le cose locali, ma sopratutto si formavano i cittadini, abituandoli alla pratica democratica. C’è stata la stagione dei circoli culturali ad Orgosolo e dintorni, e quanta dirigenza politica, quanta analisi della situazione è venuta fuori di lì. Oggi, c’è il sindaco-semi podestà, nelle province il podestà, nella Regione il governatore che sgoverna col 19% del consenso dei sardi, grazie auna legge elettorale-truffa, e il presidente che si avvia sulla stessa strada con l’Italicum. Fra poco ci saranno anche i presidi-podestà e così via podestando. Qualcosa ha sostituito questi luoghi d’incontro, di analisi, di formazione? Questo deserto incide nel malessere giovanile e non solo, in Barbagia come altrove?
E’ giusto interrogarci sul malessere dei giovani delle zone interne, ma il malessere degli studenti in gita a Milano non rivela punti di contatto? Più che l’ambiente barbaricino non rileva il contesto generale? Per il balente la vita era il bene più prezioso, e nella proporzionalità della vendetta poteva essere sacrificata solo perché di pari valore alla vita dell’altro, ammazzato per mano altrui. Qui è proprio questa proporzione che manca, c’è gratuità nell’ammazzamento. In tutto questo la diffusione delle armi ha poco rilievo, tant’è che si può uccidere o lasciar morire un compagno disarmati. Si può ammazzare sparando o non soccorrendo, si uccide per indifferenza, con omissioni più che con azioni. Il Mare nostrum lo comprova, ahinoi, tutti i giorni! Il fatto è che la svalutazione della persona, il disconoscimento del suo naturale corredo di diritti è senso comune fin nella civile UE dei finanzieri. In tutto questo nelle Barbagie come a Padova e Milano ha qualche riflesso la mancanza di una rete democratica radicata nei luoghi di socialità, dalla scuola, al municipio, alla fabbrica? E l’assenza di forze e di leader che richiamino alla solidarietà, alla centralità della persona e alla promozione dei diritti? Cosa può nascere dalla mancanza di umanità delle istituzioni e dei loro occupanti? A ben vedere oggi c’è solo un leader mondiale che ci richiama al valore centrale della persona e del lavoro, Francesco, vox clamantis in deserto. Ed è in questo deserto globale di vita democratica, di sentimenti e di valori che, a Orune come a Padova, giovani ammazzano o lasciano morire altri giovani.
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