Delitto di Orune, fascinazioni etno-antropologiche e indagine “sul campo”
L’omicidio del ragazzo di Orune e la scomparsa, si teme tragicamente collegata, di un altro ragazzo di Nule hanno riaperto una discussione non nuova sulla violenza nell’Isola, che il fatto della scorsa settimana sembra nuovamente, nei commenti mediatici, ricondurre e confinare in una specifica area geografico-culturale. È bene sempre tuttavia rifuggire da generalizzazioni di tipo antropologico, perché fatti salvi i casi di omicidi connessi alla presenza di criminalità organizzata, che ruotano su precisi interessi economici e che hanno una loro serialità e diffusione, i casi specifici, quali sono stati almeno negli ultimi trent’anni in Sardegna, hanno invece ciascuno una propria non ripetibile storia. Le indagini degli investigatori peraltro, in questa vicenda potrebbero riservare sorprese nemmeno immaginate. Certo è difficile sfuggire all’impulso di una valutazione di contesto, in occasione di un fatto che ci coinvolge emotivamente anche nella sfera privata, prima ancora che in quella pubblica. Non siamo in pochi a chiederci infatti: “Potrebbe succedere a mio figlio o a mia figlia?”.
Molti si interrogano, per esempio, sulla diffusione delle armi in Sardegna. In effetti, siamo obiettivi: la questione delle armi e della loro circolazione, legale e illegale, in Italia è ormai fuori controllo dappertutto. Semmai in Sardegna si nota meno, perché da noi omicidi come quello di Orune non sono una realtà quasi quotidiana come, che so, nell’area napoletana. La verità è non solo che di armi ce ne sono troppe, in giro, ma che il loro uso è totalmente disinibito, nel conscio e nell’inconscio, dall’assuefazione culturale mediaticamente amplificata e molecolarmente somministrata.
Ma veniamo al grosso della questione.
C’è da restare stupefatti di fronte alla povertà analitica che si rinviene oggi in troppi commenti di intellettuali e di accademici. Suona vuoto richiamarsi ad Antonio Pigliaru; ancorchè nessuno lo abbia fatto, avrei trovato più giustificato, pur se ormai del tutto inutile per la comprensione dell’attualità, qualche riferimento a Gavino Ledda, il cui romanzo si collocava almeno nella transizione da una fase a un’altra della formazione familiare e individuale in una parte del mondo rurale sardo. Il fatto è che la condizione giovanile sarda non è indagata, nella sua “specificità”, da nessuno e da tempo immemore.
Qualcuno sa qual è l’ambiente giovanile specifico a Latte Dolce, Sassari, o a Piazza Medaglia Miracolosa, Cagliari o a “Su Nuraghe”, a Nuoro?
Il rapporto con la scolarità, con il non-lavoro, con i media e con i loro modelli, con i social e le loro modalità di comunicazione, con gli stupefacenti, col sottomondo illegale?
Ma poi, siamo certi che, nei quartieri “normali” delle città (ne esistono?), la condizione sia differente?
Le stesse domande andrebbero fatte in Barbagia (ma non esclusivamente: Nule, in Goceano, è a 15 chilometri) dove la specificità è meno circoscritta quanto a spazi ed evidente quanto ad appartenenze sociali rispetto ai grandi quartieri urbani, non solo popolari e subpopolari. Domande identiche, o al più con qualche variante.
Il rapporto con le ragazze, per citare un problema serissimo. Negli anni ‘80, per esempio, si osservava come l’accentuata evoluzione culturale femminile spiazzasse nei piccoli paesi, in particolare, una larga fascia di maschi di pari età, in difficoltà ad essere accettati come partner e indotti a ghettizzarsi in ambiti connotati da una strisciante e rancorosa misoginia e da un antagonismo latente verso coetanei più sintonizzati su quell’evoluzione.
Il tema dell’alcool, inoltre, il cui abuso è tuttora endemico. Quanto e come oggi caratterizza le forme della socialità giovanile?
E il sottomondo criminale, contiguo, tuttavia non esclusivamente coincidente con quello delle droghe, come si e’ capillarizzato nelle campagne semiabbandonate?
Insomma, le perduranti e inutili, in questo caso, fascinazioni etno-antropologiche dovrebbero essere superate, finalmente, dall’indagine e dalla riflessione “sul campo”.
Altrimenti non se ne cava piede e ciascuno di noi resta privo di spiegazioni plausibili non di un fatto nella sua singolarità, bensì di una dimensione intera, perciò in balia della diffidenza, della paura, dell’impotenza.
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* anche su Democraziaoggi
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- La foto di Daniele Longoni è tratta uno degli album del suo sito
Ferdinando Camon su La Nuova Sardegna di martedì 19 maggio 2015
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Studente caduto dalla finestra
Se qualcuno ha commesso una tragica cretinata e lo ammette subito la sua vita potrebbe riacquistare un senso, altrimenti no
Grande affetto e grande turbamento tra la folla che ha assistito ai funerali dello studente padovano caduto da un albergo milanese, ma c’era anche dell’altro? Pentimento? Senso di colpa? Abbiamo guardato la folla e successivamente le foto, esattamente come fa la polizia: cercando di leggere nei volti. È circolata la notizia che po’ alla volta il fronte dell’omertà, tra i compagni di classe e di scuola e di gita di Domenico, si stesse aprendo: che fosse trapelata qualche confessione, e qualche nome. Ma aspettiamo ancora le conferme. Si alludeva a un compagno che avrebbe versato il lassativo nella birra di Domenico, innescando il dramma. Questo compagno, o gruppetto di compagni, se esiste, era ai funerali: guardiamo le foto e ci chiediamo: Chi è? Cos’ha fatto? Cosa voleva fare? Alla domanda “Cos’ha fatto” risponde il funerale: ha causato questa tragedia, la morte di un coetaneo, di 19 anni. L’altra domanda è più delicata e complessa: cosa voleva fare. Se (ragazzo o gruppetto di ragazzi) è qui al funerale (e certamente è qui), non voleva far morire un compagno. Se sapessimo chi è e lo guardassimo in faccia, non vi leggeremmo cattiveria e ostilità, ma incredulità e costernazione. Quel che è accaduto è andato al di là delle intenzioni di chi l’ha compiuto, questo è chiaro, ma anche, lasciatemelo dire, della sua intelligenza, della sua capacità di capire. Se il gesto che ha scatenato il tutto è stato quello di mettere un potente lassativo liquido dentro un bicchiere di birra, non è un gesto scherzoso o goliardico, è un gesto idiota. Nell’idiozia è compreso il sadismo. Il sadismo consiste nel programma di divertirsi alle spalle di un amico che corre in cerca di un bagno libero e non lo trova. Una scena che avrebbe reso indelebile, nel ricordo, quella gita. Le scuole organizzano le gite come occasione d’istruzione, di apprendimento, d’integrazione dello studio, e questa gita all’Expo di Milano, possiamo pure dirlo, non è una cattiva idea. Nonostante le denigrazioni a cui l’han sottoposto, l’Expo resta una grande cosa. Se ne parlerà a lungo. Per i ragazzi, poter dire “io l’ho visto” è un vanto. Bene dunque, questa gita. Ma i ragazzi hanno un’altra idea delle gite, vanno in gita per divertirsi, e divertirsi vuol dire combinarne più che possono. Lo potrebbero pure fare. Qual è il limite? Non devono farsi o fare del male. Hanno superato il limite, questi ragazzi del Nievo? Purtroppo sì. Poteva anche andar bene, e non finire in tragedia, ma era comunque un gesto stupido e pesante. Se sapessimo qual è, il ragazzo o il gruppetto di ragazzi che han versato il lassativo (sempre che questa sia l’ipotesi giusta), e lo guardassimo nelle foto del funerale, vi leggeremmo in faccia l’avvilimento: “Che stupido sono stato!”. Essere stupido è una cosa, essere cattivo o violento è un’altra cosa. Questa è negativa moralmente, quella intellettualmente. Il limite intellettuale e culturale si vede anche nel comportamento successivo: ma ragazzi, un vostro compagno è morto per colpa vostra (non dico per vostra volontà), tra voi c’è, a quanto pare, chi sa com’è successo, e non fiata? Non c’è qualcuno che salti fuori a dire: “Sono stato io, volevo fargli uno scherzo, sono un perfetto idiota, chiedo scusa a lui e ai suoi genitori e a tutti”? Siamo qui, noi tutti, a guardare le foto dei ragazzi al funerale, a decifrare il loro sgomento, e ci chiediamo: “A chi tocca fare il primo passo?” Stiamo aspettando. Se qualcuno ha fatto questa cretinata, se adesso lo dichiara la sua vita riacquista un senso. Se no, no.