Vietnam: una guerra “sporca” e dimenticata.

Vietnam war Wp
di Francesco Casula

Sia ben chiaro: nessuna guerra può essere considerata pulita: ma ve ne sono alcune più “sporche” di altre. E’ il caso della guerra americana contro il Vietnam: perché pur essendo ormai finita e conclusa da decenni (1975), al presente consegna ancora effetti devastanti, con ferite insanabili, nelle persone e nell’ecosistema.
I Vietnamiti sono usciti da qualche anno dal brutale colonialismo francese, durato quasi cento anni (1858-1954) quando nel 1961 vengono aggrediti dalla potenza più grande del mondo, gli Stati Uniti (armati ed equipaggiati 800 volte più dei vietnamiti), che in 14 anni di guerra (1961-1975) causeranno ben 2.313.000 morti civili, durante i combattimenti o sotto gli oltre 14 milioni e 300 mila tonnellate di bombe cadute sull’intero paese asiatico, in modo particolare su milioni di contadini innocenti: quasi il triplo del totale delle bombe sganciate durate il secondo conflitto mondiale!
A tutto ciò occorre aggiungere i 100 milioni di litri di sostanze chimiche che gli Stati Uniti riverseranno sul terreno vietnamita, che già avevano sperimentato nella guerra in Corea e che si aggiungeranno ai micidiali bombardamenti al napalm.
L’obiettivo era quella di distruggere il mantello di vegetazione che proteggeva le piste e le basi logistiche di Vietcong e Nord Vietnamiti. Furono effettuati dei test su alcuni tratti della pista di Ho Chi Minh e fu poi lanciata l’operazione “Farm boy” che consisteva nell’impiegare 18 aerei C 123 per vaporizzare milioni di litri di diserbante nella regione a Nord di Saigon.
Seagrave Sterling nel suo libro “The yellow rain” spiega quali prodotti furono utilizzati:”Furono selezionati quattro prodotti, ognuno era designato da un codice-colore:arancio, bianco, malva e blu. Il prodotto arancio era una miscela di due diserbanti… il quarto, il prodotto blu, un erbicida a base di arsenico ed il cui componente attivo è l’acido cacodilico, noto per la sua alta tossicità…” .

L’impiego degli erbicidi provocò la distruzione di più di due milioni di ettari di vegetazione di cui un decimo era destinato all’agricoltura. Avvenne una autentica catastrofe ecologica perché i cento milioni di litri di prodotti tossici, rovesciati sul terreno, dopo aver distrutto la vegetazione, si infiltrarono nel suolo e contaminarono per lungo tempo le falde freatiche e le mangrovie del litorale. Gli effetti furono tanto più gravi perché i prodotti utilizzati contenevano, fra gli altri elementi, anche la diossina, i cui effetti disastrosi conosceremo in Italia, soprattutto dopo la catastrofe di Seveso del 1976.
Il danno alla salute della popolazione civile è stato incalcolabile con le malattie cutanee incurabili, cancro del fegato, gravissime malformazioni dei feti, elevato tasso di mortalità perinatale, disturbi nervosi.
Ancora oggi, a 40 anni dalla fine della guerra, molti vietnamiti nascono con gravi malformazioni:effetto di quei gas micidiali e criminali. E li puoi vedere per la strada, senza gambe, senza braccia, con malformazioni, a pagare per una guerra infame.
E ancora oggi vasti territori del Vietnam sono inutilizzabili perché contaminati da quei gas o perché popolati da bombe (ben 600 mila) e mine ancora inesplose.
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(Da Guerra del Vietnam su Wikipedia) In alto a sinistra alcuni soldati nordvietnamiti si preparano all’attacco, a destra alcuni soldati americani si preparano a salire su alcuni elicotteri Bell UH-1 Iroquois; In basso a sinistra alcune vittime del tragico massacro di My Lai, a destra un’operazione di rastrellamento in un villaggio.
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Europa flag
La Grecia sta meglio della Sardegna: perché almeno ha rialzato la testa
di Enrico Lobina

La Grecia ha conosciuto, negli ultimi anni, la peggiore crisi economica nella sua storia recente. Dal 2008 ad oggi la sua economia si è ridotta del 25%. Il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 25,8% e, dopo decenni di crescita economica, oggi la Grecia ha il 21,3% di poveri. Dal 2008 una PMI (Piccola e Media Impresa) su quattro è fallita[1]. Secondo un recente sondaggio sette greci su dieci sono pronti a lasciare il paese per trovare un lavoro

A questa situazione il popolo greco ha risposto rifiutando il piano di “salvataggio” dell’economia imposto dalla troika (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea), che ha costretto il Paese a enormi tagli nella spesa pubblica senza pero’ generare alcuna prospettiva di crescita. L’FMI prevedeva che, con l’applicazione della ricetta della troika, nel 2013 il PIL (Prodotto Interno Lordo) della Grecia sarebbe cresciuto del 2,1%, mentre la disoccupazione si sarebbe attestata al 14,3%. I dati reali, però, sono ben diversi.

Il nuovo capo del governo, Alexis Tsipras, ed il suo ministro delle finanze, Yanis Varoufakis, rigettano il principio dell’austerità, secondo il quale i tagli alle spese e la compressione salariale sono la soluzione per far ripartire i paesi europei in crisi. In questi giorni il braccio di ferro tra l’Unione Europea e la Grecia è durissimo, ed i risultati e gli scenari futuri imprevedibili.

Insieme alla Grecia, Cipro, Spagna, Portogallo ed Irlanda hanno vissuto cure simili, ma non hanno avuto politici in grado di mettere in discussione le ricette economiche che arrivavano da Bruxelles. In Spagna si andrà al voto ad ottobre, e Podemos (alleato di Syriza) potrebbe vincere. In Irlanda, l’anno prossimo, lo Sinn Fein, anch’esso legato a Syriza, potrebbe vincere su posizioni che contrastano le politiche di austerità, con l’obiettivo di riunificare il paese.

L’Italia balbetta. Anzi. L’Italia ha scelto una strategia diversa, per bocca del PD: rispettare il Patto di Stabilità e fare riforme strutturali, nella speranza di ottenere più flessibilità nell’applicazione delle regole fiscali. Finora, però, questa linea non ha prodotto risultati: l’economia resta stagnante, la disoccupazione altissima, e in Europa la linea (tedesca) dell’austerità senza sconti e flessibilità non è stata intaccata. Al contempo, i diritti dei lavoratori sono stati messi in discussione con l’abolizione dell’art. 18 e l’introduzione del contratto “a tutele crescenti”, la cui applicazione è tutta da verificare ed i tanto proclamati benefici (nuove assunzioni) appaiono fortemente dubbi. Il comportamento delle classi dirigenti italiane e di quelle greche, anteriori a Syriza, è paragonabile. Il principio da seguire è che il popolo deve pagare le colpe delle classi dirigenti. In questa ottica,oggi la Grecia sta meglio dell’Italia, perché ha alzato la testa.

E la Sardegna?

In Sardegna l’ultimo dato sul tasso di disoccupazione segna 19,1%, contro il 25,8% della Grecia, entrambi ancora in salita[2]. Sul fronte del reddito pro capite, invece, viviamo una forte vicinanza: viaggiamo tutti e due al di sotto dei 20.000 euro pro capite, precisamente 19.300 euro per la Grecia e 19.700 per la Sardegna[3]. Lo stesso ragionamento si può fare sulle persone a rischio povertà: se in Grecia rappresentavano il 23,1% della popolazione nel 2013, in Sardegna siamo al 21,8%.

In Sardegna la presenza di un sistema sanitario nazionale diffuso, e di reti di protezione sociale informale, permettono che il fenomeno non emerga nella sua forza. Ma è questione di tempo.

Mettiamoci l’anima in pace: la Sardegna, su molti dati macroeconomici, non vive una condizione diversa dalla Grecia e dagli altri paesi del sud. Siamo come la Grecia, e non ce ne siamo accorti.

Dal punto di vista politico, niente di simile a Syriza o Podemos appare all’orizzonte. Le proposte di governo di regione e comuni non riprendono nulla di quella spinta alla partecipazione popolare, che abbia l’obiettivo della rottura del quadro dato.

Ecco la differenza: abbiamo bisogno della rottura del quadro dato o possiamo andare avanti facendo aggiustamenti?

In Grecia ed in Spagna i subalterni (spesso giovani) hanno preso la parola ed impongono un cambio di paradigma. In Sardegna pare che la famosa domanda “can the subaltern speak?”[4] di Spivak, che riprende un concetto di Antonio Gramsci, debba avere una risposta negativa.

Il subalterno non parla, e gli intellettuali o non sono organici a quella parte di mondo o fanno finta di esserlo ma, in realtà, non lo sono. Con intellettuali qua intendiamo il vasto ceto, piccolo e medio borghese, che aspira a dirigere, o dirige veramente, gli spazi di potere lasciati in Sardegna nel settore politico, sociale, culturale ed economico.

In questa terra, dove ogni anno dovremmo incassare circa 900 milioni di euro (così stabilisce il nostro statuto) dallo Stato, e dove tra servitù, problemi sanitari, impoverimento del sistema dell’istruzione, culturale ed informativo, sembra di vivere in un incubo, niente. Niente.

Vi è una incapacità totale di vedere gli invisibili, quelli che non affollano i social network, che non entrano nei consigli comunali o regionali perché non hanno studiato, quelli che comprano le candele in drogheria perché non hanno più la luce, o che si avvicinano al macellaio alla chiusura per chiedere di avere ciò che è rimasto gratuitamente.

Mi si dirà, me lo si dice ogni giorno a Cagliari, “non si può fare molto, noi non risolveremo problemi così grandi”. Ma allora perché andare a votare?

E poi, andate a vedere cosa fanno i governi locali in Attica (prima della vittoria a livello nazionale) o in tante altre realtà greche, o in qualche realtà spagnola[5]. Non è vero, care signore e signori della Regione, o della capitale della Sardegna, che non si può fare nulla.

Non è il primo segno del trasformismo (sempre Antonio Gramsci) prendere impegni per tutta la vita e poi, una volta arrivati nella stanza dei bottoni, allargare le braccia e dire “non si può fare”?

[1] Cfr, per esempio, http://blogs.wsj.com/briefly/2015/01/20/crisis-in-greece-the-numbers/

[2] Da un punto di vista statistico, non è corretto mettere a confronto dati nazionali (Grecia), con dati regionali (Sardegna). Sarebbe più corretto mettere a confronto una regione della Grecia con la Sardegna. Sarà ciò che faremo nelle prossime settimane. Data l’urgenza del tema, però, preferiamo comunque avanzare questa parziale comparazione, che ha, quindi, ha un valore eminentemente politico. Sul dato relativo alla disoccupazione in Sardegna cfr. http://www.sardegnalavoro.it/download/Novembre%202014.pdf. Sulla disoccupazione in Grecia http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/File:Unemployment_rates,_seasonally_adjusted,_December_2014.png

[3] Il dato sulla Grecia è una media degli ultimi anni, e la fonte è la Banca Mondiale, mentre il dato per la Sardegna fa riferimento al 2012, e la fonte è l’ISTAT.

[4] “Può il subalterno parlare?” è la traduzione in italiano.

[5] http://www.voxeurop.eu/it/content/article/4886253-nel-laboratorio-politico-di-syriza

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Sardegna-bomeluzo22
* L’articolo di Enrico Lobina viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Appello degli intellettuali europei: l’Ue cambi rotta

—  Costas Douzinas, Jacqueline Rose, Giorgio Agamben, Slavoj Zizek, Lynne Segal, Gayatri Spivak, Etienne Balibar, Judith Butler, Jean-Luc Nancy, Chantal Mouffe, David Harvey, Eric Fassin, Joanna Bourke, Immanuel Wallerstein, Wendy Brown, Sandro Mezzadra, Marina Warner, Drucilla Cornell, 18.2.2015

La richie­sta dell’Unione euro­pea alla Gre­cia di pro­se­guire con le cata­stro­fi­che poli­ti­che di auste­rity degli ultimi cin­que anni, è uno schiaffo alla demo­cra­zia e ai sani cri­teri economici.
Il popolo greco attra­verso ele­zioni demo­cra­ti­che ha rifiu­tato que­ste azioni, che hanno por­tato alla con­tra­zione del 26% della pro­pria eco­no­mia, al 27% del tasso di disoc­cu­pa­zione e hanno por­tato il 40% della popo­la­zione a vivere sulla soglia di povertà.
Con­ti­nuare con l’austerity signi­fica tra­dire la Ue e tra­dire i prin­cipi di demo­cra­zia, pro­spe­rità e soli­da­rietà. Il rischio è che l’austerity fini­sca per dare fiato a forze anti­de­mo­cra­ti­che tanto in Gre­cia, quanto in altri paesi.
Chie­diamo alla lea­der­ship euro­pea di rispet­tare la deci­sione del popolo greco e di con­ce­dere al nuovo governo il tempo per rime­diare alla crisi uma­ni­ta­ria e ripar­tire con la neces­sa­ria rico­stru­zione della deva­stata eco­no­mia nazionale.

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