storia sarda

tuvixeddu partTre giorni e tre notti di massacro, il sale sparso sulle macerie della città
Dall’alto di Tuvixeddu
Gia distrutta dai Pisani
di GIULIO ANGIONI, La Nuova Sardegna on line 8 settembre 2014
Dire ciò che ricordo, io, Mannai Murenu, di come tutto è stato, settant’anni fa? È una parola. Era un giorno di luglio. Come oggi. Come noi adesso. Non so, non mi ricordo più perché, ma noi quel giorno eravamo convinti che i pisani, stanchi di guerra quanto noi, stavano per togliere l’assedio rabbioso a Santa Gia nostra benedetta. C’era gente di nuovo per le strade, nelle piazze, a centinaia. Dopo mesi e mesi. Anni, a fare bene i conti. Non peggio di adesso, che ce la vediamo con i catalani, scesi da navi in armi, come allora i pisani, per essere venuti da Occidente, i catalani, tanto per cambiare. Sempre troppe disgrazie. Ed è difficile piangerle tutte. Settant’anni fa. Ed è scesa la notte, quel giorno di luglio. In pieno buio, morte e distruzione hanno levato polvere, fumo, grida, boati, sentire di tomba e di macerie. Tutto il nostro mondo si è disfatto. Sacco e distruzione per tre giorni e notti. A cominciare dalle mura. Poi per mesi, per anni. E su tutto il sale. Sale del nostro Stagno. Sotto le macerie delle case, puntigliosamente distrutte, una per una, puntigliosamente i pisani hanno sepolto chi ci era vissuto. A cominciare dal quartiere genovese di Santa Gia. Dovunque vanno i genovesi si fanno un’altra Genova. Molti genovesi ho visto fissare increduli le mutilazioni proprie e delle loro case, nel chiarore di luna e degli incendi. Solo tre chiese. Di tutta Santa Gia, Pisa ha lasciato in piedi solo tre chiese. Sotto le lastre delle gradinate ci hanno seppellito i genovesi ricchi, con vivi che per loro potevano pagare. Nel prezzo c’era pure calpestare i loro morti, salendo in chiesa. Oioi la guerra. Ma se ti trovi dentro, odiala con chiarezza. Lo stesso a raccontarla. E ci vuole lo stesso coraggio. Per dire del mio scampo al ferro e al fuoco e al sale devo fare i conti con i miei ricordi. I vecchi ricordano per vere certe cose che forse non sono mai successe. Torna domani. Così di punto in bianco si fa notte che siamo ancora qui cercando d’iniziare. Anche se il colore di certi giorni è sempre fermo sulla stessa ora. Sai gli animaletti che in pericolo si accasciano, si danno per morti, spariscono nel resto delle cose? Tre giorni sono stato interrato nella casa del vinaio di Seui, rasa al suolo da guastatori pisani ubriachi del suo stesso vino, del mio padrone Nanni Pes, chissà che fine ha fatto. Quella notte cercava di salvarsi offrendo vino a botti e a orci pieni, a garganella e con bicchieri di corno di cervo di Barbagia, aiutato da un ladro maldestro che lui, povero Nanni Pes, poco prima aveva scoperto a rubare in cantina, e sono giunti assetati gli sgherri di Pisa. Io sono ancora qui, scampato. Mi sono dato per morto. Mi hanno interrato nelle rovine della casa del vinaio di Seui. Non sapevo più né giorno né notte né l’alto né il basso. Solo di essere morto. Non chiedermi di più, su questo. Ci sono cose che riesci a vivere solo se le dimentichi. E altre che riesci a vivere solo se le ricordi. Per tutta la notte e il giorno dopo le soldataglie hanno ucciso e predato a casaccio. Perché chi è colpito, se sopravvive, è pericoloso. Poi un po’ di cernita dei capi da macello, risparmiando i capaci di riscatto, del remo di galera, del giaciglio di postribolo e di altre servitù. Sporco di sangue. Non so più come so che quella era la terza notte di furia pisana. E non saprò mai com’è che la lapide non ha pesato più sulla mia tomba, da dove sognavo di sfuggire attraveso una fessura larga un’unghia. E mi sono svegliato in un pozzo di macerie, quasi all’aria aperta, come se qualcuno mi avesse appena avvertito in un sogno. Sono sgusciato dal mio buco, con voglia di cibo e di vita. E invece è stato solo per scampare ai guastatori pisani che mi hanno subito scoperto, e rincorso come la mala sorte, me, magro e fiacco di tutti quei mesi di assedio e dei tre giorni d’interro. Sono corso però, fino a sparire ai loro occhi, oltre la luce di una casa in fiamme. Ho passato la breccia nelle mura sulla porta della darsena. Nel grande cortile dei magazzini del porto, al buio ho inciampato in un morto, in un altro e in un altro. E allora mi sono sdraiato anch’io in mezzo ai morti, sporco di sangue di morto. I guastatori pisani hanno frugato e maltrattato i nostri corpi, per magro bottino, poi mi hanno lasciato morto, con benedizione di bestemmie pisane. E tra le molte cose alla rinfusa, ricordiamo Rebecca, già donna pubblica su a Tuvixeddu, fuggita e riparata sull’Isola Nostra, come al purgatorio, pentita dei peccati. Faceva la puttana a Tuvixeddu, in una tomba antica. Era nata lì. E già quando tutto era finito, a più di un anno dall’ultimo sale sparso dai pisani sopra Santa Gia, una grande mattina di sole Rebecca è uscita dal suo antro scuro, è salita sul poggio più alto e ha guardato giù da Tuvixeddu, non verso il castello di San Michele e il Campidano, o verso Castel di Castro e il mare vivo, ma giù verso lo Stagno e i monti scuri di Caputerra. E da lassù ha visto le rive dello Stagno senza più Santa Gia nostra benedetta. E quando, e chi l’ha fatto? Chicchineddu. Bruciata, sventrata, distrutta, poi sale sopra tutto quanto? Ohi malmisia malmisia mal mi sia! E hanno preso fuoco le rose, le culle dei bambini, gli alberi da frutto? Ma si sarà salvato il vecchio Chichineddu, pescatore di frodo, che da vecchio in disarmo allevava cozze e arselle e manteneva in secca la sua barca, in attesa che si avverasse la profezia dell’eremita dello Stagno, che alla fine prossima del mondo il mare avrebbe inondato la città, le case, tutto quanto? Mischino di lui! Lei non sapeva, non voleva crederci, che da un giorno all’altro, via, sparito tutto il mondo che aveva sempre visto, il mondo che l’aveva vista nascere, bruciato da una folgore dal cielo. E lei nemmeno accorta. Non se ne potrà mai capacitare. Anche i nostri graniti precari sotto il sole. E perché l’hanno fatto? Per i nostri peccati, le rispondono molti. E Rebecca comincia a informarsi del mondo. Che cosa gli succede, al mondo, e a noi che ci viviamo? Che non capiti più che gli sparisca sotto i piedi a sua insaputa. Così, le dicono certe cose. Otre ai nostri peccati, le spiegano la punizione dei peccati e la redenzione dai peccati. E capisce e decide che lei è peccatrice, lebbrosa nell’anima, bisognosa di essere mondata. Mea culpa, mea culpa, non bastateranno per redimermi gi anni che ni restano. Pudica letizia. Com’è finita Rebecca sull’Isola Nostra? Questo è il mistero gaudioso di Rebecca. Si diceva convinta che Dominedeus l’ha guidata al suo luogo di penitenza e redenzione. Mischinedda Rebecca, femmina perduta che ignorava di essere perduta, come pure ignorava che altre donne facessero dappertutto il suo mestiere, persino sante come Maria Magdalena. Prima lei la pensava una sua incombenza o punizione, scelta apposta per lei da Dominedeus. E un bel giorno, come Santa Maria Egiziaca, Rebecca passa anche lei lo Stagno a nuoto nei punti meno larghi, fino all’Isola Nostra. E lì incomincia a vivere una vita pudica di letizia, dice lei, con noialtri. Alla luce del sole e la faccia a ogni vento. Per scontare i peccati, nel nostro paradiso povero presente, fatto di indecisioni e pressappoco, Rebecca si è fatta attenta covatrice di semen bachi, all’occorrenza, e filatrice precisa di organzino, di dritto e di rovescio. Così, per lei che faceva a sua insaputa il mestiere più vecchio del mondo, noi abbiamo inventato cose nuove.

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