Giro evangelico con la lampada di aladin. La lettura della parabola dei talenti da prospettive diverse
La parabola dei talenti letta da un biblista, Bruno Maggioni su Tamtam
La parabola dei talenti letta da un politico, Walter Tocci su Tamtam
Bruno Maggioni
Biblista
La parabola dei talenti letta da un biblista, su Tamtam
(Capiterà) infatti come di un uomo che, partendo per un lungo viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, a ciascuno secondo la sua capacità. E partì. Colui che aveva ricevuto cinque talenti, andò subìto a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Così anche chi ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Ma chi aveva ricevuto un solo talento, andò a scavare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del padrone.
Dopo molto tempo arriva il padrone di quei servi e regola con loro i conti. Chi aveva ricevuto cinque talenti, ne presentò altri cinque dicendo: «Signore, mi hai consegnato cinque talenti, ecco, ne ho guadagnati altri cinque». Gli disse il padrone: «Bravo, servo buono e fedele; sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone». Si presentò poi chi aveva ricevuto due talenti… e disse: «Signore, mi hai consegnato due talenti; vedi, ne ho guadagnati altri due». Rispose il padrone: «Bravo, servo buono e fedele, sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto: prendi parte alla gioia del tuo padrone».
Si presentò anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: «Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; ho avuto paura e ho nascosto quanto mi hai dato sotto terra: ecco prendi quello che mi hai dato». Il padrone gli rispose: «Servo cattivo e infedele, sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; avresti perciò dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli dunque il talento e datelo a chi ha i dieci talenti, perché a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, sarà tolto anche quello che ha. E il servo buono a nulla gettatelo fuori nelle tenebre, là sarà pianto e stridore di denti (Mt. 25,14-30).
I talenti (contrariamente a quanto comunemente si pensa) non sembrano essere le doti o le capacità che Dio ha dato a ciascuno, ma piuttosto le capacità o i compiti che a ciascuno vengono affidati. Difatti la parabola racconta che il padro¬ne diede “a chi cinque talenti, a chi due, a chi uno, secondo le capacità di ciascuno”.
I primi due servitori (il secondo è la ripetizione del primo) sono l’immagine dell’operosità e dell’intraprendenza: trafficano ciò che è stato loro affidato e consegnano il doppio di quanto hanno ricevuto. Sono perciò definiti “buoni e fedeli”. Il terzo invece è pigro, passivo: non traffica, non corre rischi, ma si limita a conservare, e perciò è definito “cattivo e pigro” e “buono a nulla”. Il contrasto sembrerebbe dunque fra operosità e pigrizia, intraprendenza e passività.
A questo punto bisogna osservare che nell’economia della parabola i primi due servitori hanno semplicemente la funzione di mettere in risalto – per contrasto – il comportamento del terzo, che diversamente dai primi due nasconde il suo tesoro in una buca. Anche le prime due scene di rendiconto hanno lo scopo di attirare l’attenzione sulla terza. E’ perciò chiaro che dobbiamo concentrare l’attenzione sul comportamento del servo cattivo, ed è altrettanto chiaro che la chiave dell’intera parabola è il dialogo fra il servo pigro e il padrone.
Il vero rapporto con Dio
Il servo buono a nulla ha una sua idea del padrone, e cioè quella di un uomo duro, che miete dove non ha seminato e raccoglie dove non ha sparso. In una simile concezione di Dio c’è posto soltanto per la paura e la scrupolosa osservanza di ciò che è prescritto: nulla di più. Il servo non intende correre rischi, e mette al sicuro il denaro, credendosi giusto allorché può ridare al padrone quanto ha ricevuto. Si ritiene sdebitato: «Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo denaro: ti rendo quanto mi hai dato».
Anche l’ascoltatore è tentato di ritenere giusto il ragionamento del servo, e ingiusta, invece, la pretesa del padrone. Ma è un giudizio sbagliato. L’ascoltatore della parabola è invitato a cambiare prospettiva: non più quella della gretta obbedienza e della paura, ma quella del coraggio di assumere le opportune iniziative. Il servo della parabola è come rimasto paralizzato dalla paura del rendiconto. La paura lo ha reso inerte e dimissionario, incapace di correre qualsiasi rischio. E così è divenuto un burocrate pieno di scrupoli, ma senza alcuna intraprendenza.
Vigilanza e responsabilità
L’evangelista Matteo – che ha raccolto questa parabola dalla tradizione – ha pensato bene di inserirla nel suo discorso escatologico per illustrare l’imperativo della vigilanza, che poi non è altro che il modo di vivere del cristiano “nel tempo presente”. Il servo vigile e fedele – insegna Matteo – è colui che, superando il timore servile e una gretta concezione del dovere religioso, prende l’iniziativa di atti concreti, generosi e coraggiosi. Attendere il padrone significa assumere il rischio della propria responsabilità. Nel giorno del rendiconto Dio non vorrà semplicemente di ritorno quanto ci ha dato, ma vorrà molto di più. E a parte il giorno del rendiconto, è anche vero che per coloro che si assumono il rischio delle decisioni si aprono prospettive sempre nuove. Chi, al contrario, si chiude in se stesso per paura e rifiuta le occasioni che gli si offrono, diviene sterile e sempre più inutile. E’ forse questo il senso della frase enigmatica: “a chi non ha gli sarà tolto anche quello che ha”.
Ovviamente la parabola – sviluppando il contrasto fra operosità e passività – non intende essere un’esaltazione dell’efficienza. La prospettiva del parabolista è unicamente religiosa. Rivolgendosi alla comunità cristiana del suo tempo, la rimprovera per la sua scarsa intraprendenza nella fede. Non c’è posto per comunità intorpidite, rinunciatarie e paurose di fronte al progetto evangelico. Probabilmente il servo “pigro” non è l’uomo che non compie opere buone, ma l’uomo conservatore e dimissionario, ripetitivo, pauroso di fronte a ogni rinnovamento dettato dalle esigenze evangeliche.
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La parabola dei talenti letta da un politico
La parabola dei talenti è forse la più misteriosa di tutto il Vangelo. È condizionata da un’interpretazione letterale che viene spontanea al lettore moderno, anche se ne stravolge il senso spirituale. La parola talento trae il significato proprio dal fraintendimento della parabola e nonostante questa semantica fallace raccoglie una fortuna indiscutibile nell’epoca nostra.
Le parole sono come le persone e a volte può succedere che un improvviso successo faccia perdere la misura, susciti un’ebbrezza a discapito della sobrietà, giustifichi una sicumera contro qualsiasi dubbio. Soprattutto come per le persone, se la fortuna è accompagnata col potere l’euforia può diventare anche pericolosa e dovrebbe suscitare gli anticorpi del senso critico.
Ho molto amato la parola talento e proprio per questo mi duole e mi insospettisce vederla sempre più spesso frequentare le ville dell’establishment.
Nella lettura della parabola ci si sofferma di solito sul messaggio positivo dei due servi – che mettono a frutto i talenti donati dal signore – per suggerire un generico orientamento morale dell’impegno individuale. Gli esegeti più di parte si spingono addirittura verso un riduzionismo economicistico che fa della parabola una sorta di manifesto del capitalismo ante litteram.
Il centro del racconto, invece, è nel messaggio negativo del terzo servo che sotterra il talento e per questo viene condannato dal signore all’oscurità delle tenebre. Qui colpisce l’eccesso della pena rispetto ad un comportamento che per quanto criticabile non sembra così meritevole di disprezzo.
Sergio Quinzio, sapiente e appassionato lettore della Bibbia, ha difeso le buone ragioni di prudenza del terzo servo, le quali non giustificano, almeno a prima vista, la durezza dell’invettiva, “servo malvagio e infingardo”, né della condanna al “pianto e stridore dei denti”. Possiamo quindi immaginare che tutto ciò sia apparso inaspettato al condannato, il quale non poteva certo immaginare di arrecare un dispiacere tanto grande al donatore di talenti e anzi prova a giustificare la propria prudenza con la durezza del signore: “so che sei un uomo duro che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso”.
Il terzo servo, quindi, è un peccatore inconsapevole. Non solo nasconde il talento, ma sotterra anche la propria colpa. La sua prudenza è del tutto giustificata secondo la morale vigente e diventa peccato solo nel disvelamento di un’altra verità.
La parabola è collocata in un punto singolare del Vangelo, subito prima del giudizio finale in cui il Figlio dell’Uomo “siederà sul trono della sua gloria” e premierà i giusti, anche loro inconsapevoli di aver amato Dio assistendo chi aveva fame o sete… E di fronte alla loro inconsapevolezza il Signore disvela un’altra verità: “ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”.
Dalla parabola al giudizio, quindi, si snoda un racconto unitario del passaggio dall’oscurità delle tenebre alla luce della gloria, dove sia il peccato del servo sia la grazia del giusto trovano ciascuno il proprio riconoscimento di fronte al Signore. L’intero capitolo 25 di Matteo è un discorso sul Riconoscimento.
È la più misteriosa perché è l’ultima parabola e si comprende solo all’interno del discorso escatologico. Quando invece viene letta isolatamente decade in una morale edificante. Il contesto chiarisce anche la struttura temporale del racconto. Esso non si svolge nel tempo ordinario in cui ci domandiamo cosa è giusto fare secondo i valori correnti, ma indica il tempo che resta prima dell’avvento di un nuovo Regno che sovverte i consueti modi di vita. Non è quindi un discorso morale sul buon comportamento del cristiano nella società secondo l’esempio dei primi due servi, ma è un ammonimento a non fare come il terzo servo che conserva sotto la terra del conformismo le proprie paure, invece di prepararsi per un’altra verità.
L’eccesso di colpa del terzo servo – ovvero la crux interpretativa del brano – è una sfida che vuole tenere svegli i discepoli perché non si addormentino prima della Rivelazione, non a caso nella liturgia della Parola la lettura è accompagnata dal misterioso passo paolino del ladro che viene di notte. Come un baluginio, la parabola mostra la luce del Riconoscimento del Signore, seppure ancora incerta e solo riflessa.
Resi più accorti dall’esegesi possiamo allora tornare alla parola talento, così fortemente implicata nella parabola. Ovviamente, qui il nostro discorso lascia qualsiasi riferimento di fede per collocarsi sul terreno politico-sociale, ma con la convinzione che una critica teologica, almeno per una sorta di analogia formale a prescindere da qualsiasi contenuto religioso, possa illuminare il senso critico della contemporaneità, più di quanto in passato la certezza teologica abbia coltivato il dogmatismo della cultura dominante. L’inciampo di un riferimento teologico, infatti, può evitare il pericolo che il dibattito culturale mainstream, sempre più esposto all’omologazione, scivoli su un piano levigato e privo di asperità.
Talento indica una cosa che vale. Il suo valere è sempre rispetto a qualcosa o a qualcuno. La parola non solo esprime, ma istituisce la relazione, dal momento che il valere viene riconosciuto da qualcuno. Il talento è un bene relazionale che suscita un riconoscimento. Proprio in quanto figura del riconoscimento la parola è legata alla parabola da nessi tanto profondi quanto trascurati.
Il valere del talento si esprime in tanti modi che in diverse condizioni possono sia esaltarlo sia deprimerlo. I modi dell’avere e del potere tendono ad accumulare il talento, nel caso positivo per metterlo a disposizione di un’impresa personale o collettiva oppure nel caso negativo per sottrarlo allo scambio con gli altri.
Nel primo caso il riconoscimento del talento è un movimento che si diffonde senza consumarsi, come sottolinea la bella metafora di Thomas Jefferson della luce della candela che serve ad accenderne tante altre senza mai spegnersi. Nel secondo caso, invece, il talento deperisce perché viene a mancare la linfa vitale di qualsivoglia forma di riconoscimento.
Questo è appunto il terzo servo che vive ancora tra noi, è il peccato sociale degli ultimi trenta anni che sotterra il talento nel possesso e nel dominio. E’ l’ideologia dell’establishment teorizzata da un libro di grande successo mediatico (R. Abravanel, Meritocrazia) che vorrebbe organizzare la scuola secondo il principio seguente: “la performance di un bambino di sette anni in lettura/scrittura offre un’ottima previsione del suo reddito a trentasette anni”.
I paesi anglosassoni che si sono spinti su questa strada hanno indebolito le antiche virtù di mobilità sociale, nonostante le retoriche sulle pari opportunità. In quei modelli sociali il terzo servo ha operato sul lato del possesso, come primato della rendita finanziaria che mette in sofferenza l’economia reale, soprattutto il lavoro. In Europa, invece, il terzo servo ha operato sul versante del potere ed è prevalso il modello tecnocratico che rischia di aiutare il declino del vecchio continente, come si vede nella crisi attuale. Allontanando la decisione politica dall’animo dei popoli si risveglia il lato oscuro delle recriminazioni e degli stereotipi che sembravano ormai superati dall’utopia dell’unità politica. E la lunga storia del talento europeo rischia di incagliarsi nell’aridità tecnocratica.
Il possesso e il dominio implicano che l’Altro sia un soggetto indifferenziato – un consumatore o un suddito, che non abbia cioè un volto sociale né una voce civile – e quindi rendono impossibile una vera relazione di riconoscimento.
Paul Ricoeur (Finitudine e colpa), rileggendo a modo suo il famoso concetto hegeliano, ha definito il riconoscimento un desiderio del desiderio, cioè un movimento come quello dello scambio della luce della candela. Il vero talento è la grazia del riconoscimento da parte dell’Altro. Ed è anche grazia nel senso che è ricevuto come dono. Il possesso e il dominio sotterrano il talento in quanto negano il riconoscimento, come il terzo servo che nasconde il dono ricevuto perché non è in grado di vedere l’Altro nel proprio orizzonte esistenziale. La sua colpa è prima di tutto un’incapacità di riconoscimento.
A questo punto possiamo tornare indietro dal significato della parola a quello della parabola per interpretarne il passo più sconvolgente: “a chiunque ha sarà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha sarà tolto anche quello che ha”. Ora è più chiaro: chi cura il talento come desiderio del desiderio lo accrescerà nell’abbondanza e al contrario chi pensa di conquistarlo per una solipsistica affermazione lo perderà inesorabilmente.
Questo passo di Matteo è sempre suonato come uno scandalo per l’edificante morale cristiana che lo legge senza badare al discorso escatologico. La parabola diventa comprensibile solo nella parusia di un’altra verità, che per la fede è un’attesa del Regno e per la politica è l’impegno a ribaltare il pensiero dominante.
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