Per Franco Oliverio

img_6496ADORAVAMO LO STESSO DIO
Ricordando Franco Oliverio

img_6497img_6506Adoravamo lo stesso Dio, ma il suo, quello dei Gesuiti – un Dio blasonato – abitava in via Ospedale; il nostro Dio – quello di una classe di artigiani, di arregatteris, di modesti impiegati, si trovava qualche traversa più in basso, in via Fara. Insomma, con i congregati non avevamo niente da spartire, se non reciproca diffidenza.
Per questo, mai avrei potuto immaginare un incontro ravvicinato, di qualunque tipo, con qualcuno di loro.
Era la Cagliari degli anni ’60. Il nostro era un vicinato povero, ma ordinato. Il nostro quotidiano era la bacheca della Chiesa di S. Anna, ci informava, puntualmente, di quali “cinema” fossero permessi a tutti, quali riservati agli adulti, quali proibiti a pena di peccato mortale. E ci ricordava che chi votava comunista e leggeva la sua stampa non poteva neppure accostarsi ai i sacramenti. …
Insomma. Era tutto chiaro. Chiaro e prevedibile. Fatto salvo l’imprevisto…


1. Il figlio di Alvise.

Si capisce, così, perché pur essendo vicini non solo di Chiesa, ma persino di casa, neppure sospettavo della sua esistenza.
A quei tempi cominciavo ad avvertire – istintivamente e senza ancora darmene ragione – la distinzione di classe – Sembravamo tutti uguali: anche i figli dei ricchi, perché anch’essi, proprio come noi, portavano calzoni corti. Solo che mentre i nostri pantaloncini erano attillati, i loro arrivavano sino al ginocchio. Il perché l’avrei capito solo più tardi.
Anche il nostro amico vestiva diverso. Amava il loden, ad esempio; un capo che non ho mai indossato: preferivo l’eskimo. Lui, invece, nel loden ci abitava tutto l’anno, sinché la stagione lo permetteva, sino all’arrivo del vento caldo di scirocco, che ci incollava addosso, agli uni e agli altri, sentori d’Africa.
Portava occhiali, rotondi, grandi. E poi, quando apriva la bocca …. C’è da dire che confabulare gli piaceva un sacco; amava raccontare, gli piaceva stupire, anche con qualche barzelletta. Ogni giorno ne aveva una fresca di giornata. Tutte le volte che apriva la bocca – dicevo – gli spuntavano due grandi incisivi, sporgenti ed appuntivi, che lo facevano somigliare ad un castoro.
Ah. Mi accorgo di non averlo ancora presentato – ma qualcuno se lo sarà già immaginato –. Il mio interlocutore è Franco: Franco Oliverio, figlio di Alvise, un mitico medico arrivato dall’Africa che curava le emorroidi senza operazione – secondo quanto raccontava la propaganda. Detto così, sembra quasi che quel giovane fosse una specie di eroe omerico. Era cresciuto sotto la guida di padre Cravero, e adorava lo stesso Dio – lo ripeto – sotto la volta di una chiesa barocca dai mille misteri.

2. Ma non era il medico dei drogati.

Eroe o no. Franco Oliverio rischia di passare alla storia come il medico dei drogati. Non ci starebbe neppure male, accanto a tante altre belle icone che, nella nostra città, si sono distinte per aver assistito derelitti e sofferenti: il medico dei poveri, la suora de “is piccioccus e crobi”, il prete dei lebbrosi; l’angelo dei senzatetto …
Tutti esempi di generosità, di dedizione, di abnegazione che nobilitano l’intera città. Perché Cagliari, un cuore ce l’ha. Magari sottotraccia, ma ce l’ha. Solo che a Franco, tra i benefattori, proprio non ce lo vedo. Non perché non abbia altrettanti meriti, se non di più, di alcuni degli eroi della nostra a-giografia – e anche della nostra storia. Ma non siamo qui per fare classifiche.
La sua esperienza è stata esemplare, il suo ricordo piacevole. Solo che appartiene ad un’altra categoria.
E poi – po da segai in curtzu – siccome mi hanno chiamato per spiegare che non è – che non è mai stato – il “medico dei drogati”, dovrò rispettare il copione Se qualcuno ancora lo crede, cercherò di fargli cambiare idea.
Sia chiaro! Che abbia avuto frequentazioni anche con persone che adoravano disperatamente un diverso Dio – persone che inseguendo quel Dio sono morte prima del tempo ed hanno sofferto – non lo nego.
Bisogna riportare alla mente tempi lontani, e non sempre è facile.
Su di un muro di S. Avendrace, per anni, tracciata con vernice bianca, si poteva leggere una frase: “L’eroina uccide a poco a poco”. Mi son sempre chiesto chi l’avesse scritta, e perché. Ma soprattutto, tutte le volte che passavo per Sant’Arrennera, mi angosciava il commento che qualcuno aveva aggiunto sotto quella scritta, con caratteri più piccoli: “tanto non abbiamo fretta!”. Mi sono sempre chiesto perché quella scritta sia rimasta appoggiata a quel muro così a lungo e perché, nessuno l’abbia cancellata. Era la nostra città, la città nella quale abbiamo vissuto.

3. Ripartiamo dal via.

Ma per capire cosa sia successo, dobbiamo fare tre passi indietro e ripartire dal via. Dall’educazione religiosa di Franco, per esempio, simile a quella di molti di noi. All’interno della Congregazione Mariana, quella di via Ospedale era avviato ad una promettente carriera: pensate che si era già conquistato i gradi di “prefetto”.
Già da giovanissimo, si era impegnato, col suo gruppo, in opere di carità: qualcosa che somigliava alla beneficienza. Ancora studente universitario, coi suoi amici, aveva incominciato a frequentare il quartiere di Sant’Elia: facevano ripetizioni ai ragazzi più piccoli e lezioni di catechismo in parrocchia.
C’è da dire che Franco è stato uno dei tanti che si appassionavano al Vangelo; che vi leggevano la predilezione di Cristo per i poveri e la sua diffidenza verso i potenti. In Congregazione gli avevano raccontato, seppur sottovoce, anche la storia dei cammelli capaci di passare attraverso la cruna di un ago più facilmente di quanto un ricco possa varcare la porta del paradiso. E poi, non ci voleva molto a rendersi conto che le persone frequentate e amate da Gesù di Nazareth erano i poveri e i bisognosi. E che le autorità erano quelle che avevano sterminato bambini innocenti per cercare di tappare la bocca, proprio a lui, il Messia, le stesse autorità che poi, da grande, l’avevano torturato e inchiodato alla croce.
Franco in quello che gli raccontavano ci credeva: … nella predilezione per i bisognosi … nel fatto che non si possono servire due padroni … Ma non aveva capito – forse non erano stati del tutto chiari – che non bisognava prendere tutto alla lettera, che quando gli raccontavano certe cose esagerate, – come quella: “vendi tutto quello che hai e seguimi” – non lo credevano veramente, forse scherzavano. Ma Franco, e come lui anche altri, ci sono cascati. Ci hanno creduto davvero, e così sono rimasti fregati per tutta la vita.
Eppure, l’avrebbe dovuto capire. Bastava guardarsi intorno – soprattutto in quei tempi – per essere abbacinati dallo sfarzo, dall’oro e dall’argento … e dai papi con il plurale maiestatis ––– e dai monsignori e vescovi riveriti nel palco delle autorità … e dai preti che dovevi inchinarti e baciar loro la mano, anziché essere essi, come aveva insegnato Gesù, a lavare i piedi degli apostoli.
Con un po’ di luce nel cervello – insomma – l’avrebbe dovuto capire che quegli insegnamenti non bisognava prenderli per oro colato.
Ma Franco no! Lui – testardo – continuava ad inseguire quelle storie evangeliche che si era ficcato nella testa.
Sino a quando i conti non gli sono più tornati. Allora ha buttato all’aria il baraccone. La causa occasionale – così si diceva – è stato quando i Gesuiti si sono impegnati in un affare immobiliare a Villasimius che non lo convinceva. È stato allora che si è ribellato. È stato allora che ha restituito le chiavi del portone, le insegne di prefetto della congregazione mariana e se n’è andato per la sua strada, in compagnia di alcuni amici.
Franco ne ha avuto tanti di amici … e anche un po’ di nemici!
È in quel preciso momento che incomincia la sua storia. Quel gesto spiega tutto il seguito, ci consente di capire di che razza fosse il nostro amico.
Franco non ha organizzato uno scisma, non ha creato un nuovo ordine. Ha solo fatto una scelta – seguito una vocazione – . Ha scorto un sentiero e lo ha imboccato. Quel sentiero gli si è aperto davanti, a poco a poco, gli ha mostrato realtà che non aveva immaginato. Non si è mai tirato indietro, ha deciso, volta per volta, di proseguire il cammino.
Per qualche tratto, ha incontrato compagni di strada, li ha frequentati, ha condiviso esperienze, ma il suo cammino è sempre stato essenzialmente individuale, non espressione di gruppi, camarille o cerchie.

4. La sua Maria di Magdala.

E Maria di Magdala? Credo che Franco, convinto che fosse quello il suo dovere, sia andato a cercarsela, la sua Maria di Magdala – o il lebbroso, o il povero – dove era più probabile poterli incontrare.
A Sant’Elia, per esempio, dove – a quei tempi – si poteva arrivare soltanto con il n. 5, oppure con un motorino rubato. A Sant’Elia, dove abitavano le famiglie che per anni avevano bivaccato ai piedi di Monte Urpinu, sino ai primi anni 50, ma che occorreva spostare altrove per liberare nuovi spazi per la città che cresceva. Dove metterli? Vista la loro reputazione, non era parso male sistemarli lontano dalla città, in uno scampolo di terra incuneato tra le steppe delle servitù militari che dominavano dai colli orientali della città.
Così Franco, non appena diventato medico, si è subito recato a Sant’Elia ed ha aperto un ambulatorio. Anche per fare il medico, certo, per colmare il deficit di un sistema sanitario ancora assente, ma soprattutto per viverlo sino in fondo, quel quartiere.
La sua presenza incuriosiva. Perché nel borgo – che era anche un ghetto –vivevano famiglie che possedevano proprie regole, che scandivano, nel bene e nel male, i tempi della loro esistenza. Non era normale che gli abitanti di Cagliari andassero a passeggiare tra le case di quel colle periferico, che non veniva neppure di passaggio. A S. Elia, insomma, non ci si poteva arrivare per caso.
Di cagliaritani ce ne andavano. Certo! Ma – a parte la pescheria della domenica – quanti frequentavano il borgo dovevano avere un buon motivo. Motivo che, il più delle volte, era preferibile tenere nascosto. La comunità, vigile, osservava e prendeva nota.
Quel giovanotto con il loden, che arrivava su di una mini di color chiaro, indistinto, colori ‘e cani fuendi, cosa ci veniva a fare nel loro territorio? I ragazzi del borgo, che vivevano come potevano, si stupivano di quel ragazzo della borghesia cagliaritana che diventava assiduo frequentatore della loro riserva, e si chiedevano che cosa potesse esserci sotto.
Erano sospettosi. Tanto che – nei primi tempi – uno di essi, per metterlo alla prova, la sera, all’ora del rientro, aveva incominciato a chiedergli un passaggio in macchina per la città.
La verità è che quel ragazzo non aveva alcun bisogno di un passaggio, accampava scuse per levarsi un dubbio. Voleva scoprire cosa spingesse quel giovanottone a recarsi a Sant’Elia. Insomma: voleva verificare, di persona, se per caso, lungo il tragitto, il giovane medico avesse allungato la mano verso la braghetta. Erano cose che potevano succedere – che succedevano – ad alcuni dei visitatori del quartiere.
A quei tempi.
Poteva persino diventare un’opportunità per sbarcare il lunario.
La droga non era ancora arrivata. E poi, Franco non andava ad assistere proprio nessuno, frequentava, intesseva amicizie. Quando capitava che qualcuno ne avesse bisogno lo aiutava come poteva, anche solo facendogli compagnia. Non gli importava se ad avere bisogno d’aiuto fosse un ”ragazzo di vita” o magari un vice–parroco con qualche tormento. Franco, fedele al suo credo, non dava ad intendere che stesse aiutando qualcuno.
Così passava il suo tempo, con indosso il suo loden, con il suo accattivante sorriso castorino.
Ahi Franco.

5. S.Elia: la pietra rigettata dai costruttori diventa pietra angolare.

Sia chiaro che Franco non frequentava il borgo per mettersi in regola con la propria coscienza, per fare la carità – anche se a farla, la carità, non c’è niente di male – .
Solo che Franco faceva piuttosto politica, nella più nobile accezione del termine. Ché ad assistere un emarginato, con tutto il cuore che possa metterci, potrai far sì che si nutra un po’ meglio, che possa curarsi, procurarsi le medicine, magari che non dorma più sotto i ponti, ma sempre emarginato rimarrà.
Insomma, la persona che assisti rimarrà pur sempre un abitante di Sant’Elia, con il suo stigma, con la sua nomea di ladro, di pescatore di frodo, di trafficante, di frequentatore del vizio … E tu sarai il cuore nobile che, pietosamente, si china sul bisognoso. Proprio come nelle immaginette dei Santi che – se non sono anche martiri – vengono dipinti nel gesto di fare la carità ad un povero, ad uno storpio, di dare una carezza ad un bambino.
La politica è un’altra cosa. Si avvicina – dovrebbe avvicinarsi – ad ogni situazione di disagio, non solo per alleviarne gli effetti, ma anche per eliminarla alla radice.
Franco era così, non intendeva limitarsi a lenire una ferita, avrebbe voluto fare molto di più, proprio come la politica può. E poi, quegli abitanti di Sant’Elia, anche coloro che al principio lo guardavano con sospetto, non sono stati suoi pazienti – pure al netto di qualche prestazione sanitaria – ma sono stati suoi amici.
Non so se si capisce la differenza?
Franco, a quei tempi, non era il solo a frequentare quel crocicchio. Anche qualche altro amico si era spostato, assieme a lui, dalla via ospedale al colle di S. Elia; qualcun altro era arrivato da Bonorva, dopo un noviziato con don Vasco Paradisi, nel retrobottega della chiesa del Carmine. Anche don Vasco, poco più tardi, avrebbe subito l’irresistibile fascino del colle e sarebbe andato a viverci, da parroco. Altri arrivavano dalle parrocchie gestite dal clero diocesano. Esperienze – diverse ma tutte debitrici del Concilio Vaticano II – che cominciavano a leggere i segni dei tempi e si scoprivano impegnati nelle vicende terrene.
Era capitato l’imprevisto, insomma. È coì che l’abbiamo conosciuto. Ed è stato bello che sia capitato.
È curioso. Si trattava di giovani che si sarebbero potuti incontrare in altri salotti della città; una città che, dopo aver curato le proprie ferite di guerra, si riguadagnava l’appellativo di “città del sole”. Insomma: si sarebbero potuti ritrovare in ambienti a loro più consoni.
Ed invece si incontravano proprio a Sant’Elia. Così quel quartiere “malfamato” – l’aggettivo più comunemente usato per descrivere il borgo – aveva finito per diventare l’ombelico della città.
Proprio lì, alle pendici del colle di S. Elia, un quartiere dimenticato dai costruttori diventava pietra angolare. Proprio lì, in quel luogo e in quel tempo, abbiamo smesso di attendere il giudizio universale – nella speranza di finire alla destra di un Dio giustiziere – ed abbiamo incominciato a capire che il nostro destino si giocava su questa terra. E abbiamo abbracciato il radicalismo, quello buono, quello che leggevamo nei vangeli.
Adoravamo tutti lo stesso Dio? Credo di sì. Ma, forse, Franco lo adorava di più, o era più capace.
Insomma: mentre molti di noi facevano il minimo sindacale – come si direbbe oggi – Franco, invece, era Lancillotto, Guglielmo Tell e tanti altri messi insieme. Aveva maggiori capacità, più risorse, o forse il loden che indossava aveva qualcosa di magico che, all’improvviso, lo trasformava nel mago Merlino o in Harry Potter.
Franco era un po‘ il nostro eroe. Era il nostro amico un po’ più esperto, un po’ più saggio, un po’ più abile. Gli volevamo bene.

6. Quel giovedì santo del 1969.

Tutto è cominciato quando qualcuno ha scoperto che il colle abitato da quei diseredati sarebbe stato luogo ideale per un quartiere residenziale della borghesia; luogo di pace, di brezze, con ai piedi un porticciolo per soddisfare le più raffinate passioni dei nuovi ricchi. Quindi: via le reti rattoppate dei pescatori, via gli abitanti, trasferiti in qualche altra lontana periferia, ed ecco un progetto per un nuovo quartiere di lusso. Il Comune lo sposava appassionatamene, le ruspe già scaldavano i motori.
Solo che un giorno – esattamente il 3 marzo del 1969, giovedì santo – un piccolo gruppo di quei cattolici che frequentavano il quartiere – permettetemi di ricordarne uno per nome, Andrea Olla – trovando l’operazione profana, scrissero una preghiera e la lessero durante la celebrazioni, alla presenza dell’allora Arcivescovo mons. Paolo Botto.
La preghiera – con la quale contestavano il progetto del Comune – parafrasando la parabola del ricco epulone, ricordava al Signore che nella Pasqua dell’anno seguente non avrebbe più incontrato quei poveri nella sua Chiesa, perché sarebbero stati cacciati dalle loro case per consegnare il colle, trasformato in quartiere di lusso, agli epigoni del ricco epulone.
Quella preghiera l’ha letta uno sparuto gruppo di giovani, intimiditi dalla massiccia presenza della Digos, la squadra politica della polizia, che presidiava l’ingresso della chiesa, e forse anche l’interno.
Quella preghiera è stata scritta dal nostro amico Franco.
Quasi in contemporanea, un altro amico di Franco, quello arrivato da Bonorva passando dalla chiesa del Carmine, aveva scritto un lunghissimo articolo su Gulp, per denunciare l’operazione immobiliare e la sua filosofia. Era intitolato: “Sant’Elia vediamo un po …”.
Cominciava così, a Cagliari, con questi due episodi, la stagione della lotta per la casa, che da Sant’Elia si sarebbe estesa ad altri quartieri.
Franco non era radicale come noi, o forse lo era, ma con in più una grande capacità di mediazione. A distanza di tempo, mi viene da definire quella sua caratteristica con un’espressione tratta dal gergo militare: “intelligenza con il nemico” ; la capacità di interloquire anche con l’avversario.
Conservo il ricordo, come fosse ieri, di una lunga serata passata lungo le scalinate della chiesa di Sant’Elia, al principio della primavera del 1969.
Franco era impegnato in lungo colloquio con il parroco dei S.Elia, mons. Aramu, che dopo l’articolo apparso su Gulp aveva minacciato di querelare l’autore dell’articolo e il suo direttore. A rileggerlo, a distanza di tempo, devo ammettere che quel giovane di Bonorva era andato giù duro: oltreché smascherare il sopruso progettato ai danni degli abitanti del borgo, aveva anche denunciano la presenza di un parroco “insensibile ai problemi locali che cura piuttosto interessi propri e degli amici politici”. Per questo, don Aramu avrebbe voluto querelare tutti quanti. Solo Franco possedeva, a quei tempi, la capacità di svolgere quel difficile ruolo di mediazione.
Ricordo di averlo atteso a lungo, molto a lungo, ai piedi della chiesa, passeggiando nervosamente; sinché non è sceso dalla scalinata, sorridendo, come se niente fosse successo. O forse non era un sorriso, quei due incisivi che gli spuntavano dal labbro superiore, a volte, traevano in inganno …

7. Chi non vespa non mangia la mela.

Grazie all’incontro con Franco, – e con qualche altro profugo dalla via Ospedale – subito entrati a far parte della redazione – il giornale ha fatto un salto di qualità.
Franco si è impegnato in una serie di saggi sulla devianza giovanile: “Disadattati o delinquenti?”, “Giovani sbandati e quartieri periferici”, “Gli istituti i di rieducazione”. A proposito di queste strutture, non aveva timore nell’affermare, a boxi manna, che “è meglio lasciare il ragazzo nella famiglia peggiore che inviarlo nel migliore istituto di rieducazione”.
Denunciava quanti – a cuor leggero – affermavano che “i giovani di S. Elia siano nati delinquenti e che sia inutile qualsiasi sforzo per un loro riscatto sociale e morale”. Proprio così! Qualcuno, suscitando le ire del viceparroco, li aveva persino definiti “tarati”. Franco accusava: “la società si difende dai ragazzi ma non pensa a difendere i ragazzi”. “Parlateci con questi ragazzi – insisteva – e vedrete quanto hanno bisogno di amici, di grandi disposti a capirli”.
Franco con quei ragazzi ci ha parlato. Ci ha parlato tanto che alcuni lo hanno voluto come padrino della Cresima. Il cardinale gli ha indirizzato uno sguardo di meraviglia quando – recatosi a Sant’Elia per la confermazione – ne ha contato 9 di fila, tutti neo figliocci di Franco, tutti con al polso il loro bell’orologio, come allora si usava.
Altro che carità! Politica faceva! Voleva spingere le istituzioni a cambiare l’atteggiamento repressivo nei confronti della devianza minorile; dava grande importanza all’ambiente e all’influenza, non sempre positiva, dei valori proposti dal miracolo economico che si affacciava prepotentemente.
Ascurtai custa: nei primi anni ’70 un’imponente campagna pubblicitaria della Piaggio ha inondato gli spazi pubblicitari della città. Il messaggio era questo: “chi Vespa mangia la mela e chi non vespa no!”
Un messaggio “galeotto”, come il libro passato per le mani di Francesca da Rimini, che si sa come andò a finire.
Franco racconta che uno dei suoi giovani amici gli aveva chiesto “cosa fosse questa mela che poteva mangiare chi avesse un determinato motorino”. E Franco glielo aveva spiegato: “La mela è la sensazione di sentirsi liberi, di correre, di far impazzire il tubo di scappamento, di far impennare la moto. È sentirsi liberi nell’aria fresca, nel movimento, nella velocità, che è contrapposizione alla casa povera, al padre vecchio o assente, ad una vita che poco preannuncia di movimento, a una vita che è già previsa, nel suo svolgersi, da una società che, solo a pochi passi, permette di saltare, di passare dall’altra parte”.
Franco richiamava attenzione sul fatto che alcuni di comprare quella vespa–mela non se lo potevano permettere, e quindi “hanno provato da soli, con gli scooters rubati”. Avrebbe voluto dire che se la Vespa è davvero un segno di cui non si può fare a meno per presentarsi in società, chi può la compra, e chi non può … la ruba.
Capito?
Quest’ultima affermazione non l’ha scritta, forse per evitare che qualche suo amico magistrato la interpretasse come “istigazione a delinquere”. Non l’ha scritta ma l’ha lasciata intendere, in maniera inequivocabile, per chi avesse voluto capire.

8. L’importanza di un registratore a casette.

Franco, spesso, andava in giro con un registratore portatile a cassette, come si usava allora. Non so se per vezzo oppure – visto che a volte si cacciava in situazioni delicate – per potersi poi difendere o dimostrare la propria versione dei fatti.
Per un po’ha fatto anche il giornalista, e anche grazie a quelle cassette, qualche mese più tardi, ci ha consentito uno scoop. Nella facoltà di lettere, occupata dagli studenti del movimento studentesco, si era verificato uno scontro tra gli occupanti ed un gruppo di fascisti, armati di spranghe e bastoni. Lo si voleva far passare per un tafferuglio tra opposte fazioni; ed invece, Franco aveva scoperto che i fascisti avevano reclutato dei giovani in un quartiere periferico, che li avevano prelevati in macchina e portati con loro all’assalto della facoltà occupata, con la promessa di denaro. Pubblicammo gli stralci delle dichiarazioni – registrate – dei giovani “borgatari” che avevano partecipato all’assalto. Nella nostra ingenuità, di allora, il pezzo, con titolo in prima pagina: “Denunciamo i commandos della violenza”, uscì con la firma di Franco e di Mariano, un altro ex–congregato. Franco, a seguito di quell’inchiesta, ricevette minacce, gli arrivarono in ospedale, passammo qualche settimana sul chi vive.
E poi la vicenda di Sant’Elia, passata alla storia come l’attentato al Papa. Ci mancava solo quello! Non bastava che già eravamo una terra di banditi … In realtà, si era trattato solo dello scivolone delle forze dell’ordine, ché tanta era la frenesia di manganellare gli anarchici accampati lungo le pendici del colle, che prima di suonare la carica non si erano premurati di attendere che il Papa abbandonasse il borgo. Così, inseguendo gli anarchici, il tafferuglio che ne era seguito era finito sulla coda del corteo.
Le forze dell’ordine, chiamiamole così, dopo aver scatenato un casino mondiale, volevano metter dentro quanti più cospiratori possibile. Anche gli amici di Franco – che non c’entravano manco per niente – e Franco stesso, volevano acchiappare pure lui.
Se l’era scampata. E poi aveva ripreso a fare il suo lavoro, comprando tutte le fotografie degli avvenimenti che si trovavano sul mercato per avere le prove. 60.000 lire di allora aveva speso. E poi, con il suo registratore a cassetta, aveva ricostruito i fatti con il racconto dei testimoni oculari. Era venuto fuori un numero speciale del nostro giornale, con la cronaca dei fatti e degli antefatti, che aveva persino saltato il mare. Ne eravamo orgogliosi. L’Osservatore romano aveva pubblicato la copia integrale del nostro paginone.
Anche il giornale dei vescovi aveva intitolato che “nessuno ha tirato pietre al Papa”.
Più tardi, la nostra versione, grazie ancora una volta alla straordinaria grinta di Franco, era stata confermata – in occasione del processo che ne era seguito – dal Tribunale di Cagliari.
Prima o poi anche quelle registrazioni saranno cenere, ma intanto le conservo.

9. L’ispettore Javert.

Alcuni periodi sono stati duri: i primi anni 70, soprattutto. Per poterlo capire occorre guardare al contesto. Ve lo ricordate l’ispettore Javert, quello dei Miserabili di Victor Hugo? Con il chiodo fisso di mettere la mani su Jean Valjant, l’ergastolano evaso che si dedicava a proteggere la sua Cosette e a compiere opere di bene.
Ecco. Franco, in quegli anni era perseguitato da un emulo dell’ispettore Javert, che aveva sguinzagliato i propri collaboratori nel tentativo di prenderlo con le mani nel sacco.
A dimostrazione del clima di caccia alle streghe di quel tempo, ricordo la scritta apparsa su un altro muro della città: “Pili confessa, Pilia canta: parole e musica di Villasanta”.
Sospettavano, e non a torto, che Franco frequentasse anche soggetti con qualche conto in sospeso con la giustizia.
Franco certo che li conosceva, li avrebbe dovuti denunciare, ma non lo faceva. Anche perché una delle prime regole che aveva imparato frequentando il borgo, era quella di distinguere chi sapeva star zitto dalla “carogna”, lo spione, il confidente della polizia. Figurarsi se avrebbe mai denunciato uno dei suoi tanti amici, magari un proprio paziente – tradendo il giuramento di Ippocrate – o un ragazzo che stava tentando di riportare sulla retta via, convinto com’era che il carcere l’avrebbe finito per rovinare.
“In qualunque casa andrò, io vi entrerò per il sollievo dei malati. Ciò che io possa vedere o sentire durante il mio esercizio, o anche fuori dall’esercizio, sulla vita degli uomini, tacerò ciò che non è necessario sia divulgato, ritenendolo un segreto”.
Era questo il suo codice!
Ma tutto questo l’ispettore non poteva capirlo: Era ossessionato dall’idea di mettere in gattabuia tutti quei delinquenti, irrecuperabili, a partire dai drogati delle periferie. Non sopportava che quel dottore di buona famiglia, – che oltretutto veniva dal suo stesso ambiente –frequentasse certa gente, che li proteggesse.
Certo che Franco qualche norma del codice penale l’ha violata. Prima della riforma del 1975, la legge obbligava a denunciare il drogato entro tre giorni. E Franco di drogati, anche prima che arrivasse l’eroina, ne ha frequentato. A volte lo cercavano, a volte li andava a cercare.
C’era un equivoco di fondo: l’obiettivo di Franco era quello di recuperarli i drogati, se necessario di curarli, proprio come si dovrebbero recuperare e reinserire, per quanto possibile, tutti gli emarginati e i disadattati.
Ma l’obiettivo di chi governava era esattamente all’opposto del suo orizzonte. Franco lo affermava senza mezzi termini, che il metadone gli americani non l’avevano mica inventato per salvare i tossicodipendenti, ma per aiutare la società – tenendoli a bada – a liberarsi dalla rottura di scatole dei drogati. Il vero obiettivo, insomma, era quello di difendere la società dai drogati.
È per questo, per difendere la società, che l’ispettore Javert sguinzagliava i suoi poliziotti, a caccia di ogni disturbatore, con l’obiettivo di ripulire le strade e i vicoli della città.
Mentre Franco riteneva che la droga avesse a che fare con il disagio, i benpensanti, – girando la faccia dall’altra parte – continuavano a ripetere il catechismo della Cassazione: “la droga viene assunta da giovani sospinti da ansia esasperata di godimento e sedotti dal miraggio di piaceri raffinati specie in campo sessuale”. Ma quando mai!
Che almeno l’obbligo di denuncia l’abbia violato è sicuro. Ma di tutto questo so veramente poco. Perché sono cose riservate, e chi rischiava era lui. Ma che ci sia andato davvero vicino ne sono certo, perché una vola, soltanto una volta, l’ho dovuto aiutare. È venuto da me che si sentiva sul collo il fiato del persecutore. Temeva che gli sbirri, da un momento all’altro, bussassero alla sua porta. Per questo, mi ha chiesto custodire alcune cartelle.
Gliele ho restituite dopo qualche settimana, senza sapere di cosa si trattasse, dopo che le acque si erano calmate. Non so molto di più, non faccio né la spia né il poliziotto. Ma penso che a non fare la carogna facesse bene. Del resto, l’imperatore Adriano – se Marguerite Yourcenar ha riferito la verità – affermava che se le leggi non corrispondono ai fenomeni sociali non è facile applicarle; e che se sono “troppo dure, si trasgrediscono – diceva – e con ragione”. Probabilmente, anche Franco la pensava allo stesso modo dell’imperatore. In ogni caso quella legge, che evidentemente non corrispondeva ai fenomeni sociali, l’hanno poi cancellata.

10. Specialista dalla faringe al buco del culo.

Medico dei drogati? No. Medico e basta! Ché i drogati ancora neppure esistevano a Cagliari; l’eroina non era ancora arrivata quando Franco, appena rientrato a Cagliari con la sua specializzazione, ha incominciato la sua carriera nella sanità pubblica.
Il primo eroinomane, l’ha incontrato solo nel 1975. Prima la droga si acquistava regolarmente in farmacia; all’inizio perché la vendevano senza ricetta. E poi, quando se ne sono accorti e hanno dato una stretta, con le ricette false. Quando i medici, incautamente, lasciavano i ricettari in vista sul cruscotto, arrivava chi spacchettava il finestrino e il gioco era fatto. Si poteva così fare la scorta di Talwin o di Magriz.
Certo che ha avuto a che fare anche con i drogati, come con tutti, quando se n’è presentata l’occasione. Ma erano altri ad occuparsene a tempo pieno, soprattutto preti o frati; Franco anche con loro collaborava intensamente. Una volta, ad un amico che faceva tranquillamente il prete in una borgata di Santa Margherita di Pula, gliene ha portato due o tre, di ragazzi che avevano bisogno di aiuto; così, alla fidata, per chiedergli di occuparsene. E quel prete – non so se fosse in qualche modo predisposto – c’è cascato, ed ha fondato anche lui una Comunità. Per quanto lo conosco, sono sicuro che quel prete sarebbe diventato almeno vescovo, ed invece – per aver voluto insistere sulla cattiva strada – morirà povero pure lui, anche se circondato da tanti amici e molti – veri o falsi – estimatori.
Ancora si credeva – allora – che per esercitare certe professioni fosse necessaria una vocazione. Lo si diceva per i preti, per le maestre, per i medici. Poi, Fabrizio De André ha insinuato che almeno un po’ di vocazione fosse necessaria anche per qualche altro mestiere meno nobile. E forse non aveva torto, perché chiunque voglia fare qualcosa per vocazione, e voglia farla bene, a volte non può fare a meno di ricorrere all’arte della seduzione.
Franco la vocazione, quella di curare la gente, l’aveva di sicuro. La vocazione di curare tutti quanti ne avessero bisogno, ricchi e poveri, belli e brutti. E così faceva: i malati dell’ospedale, i poveri di Sant’Elia, i drogati quando è arrivata quella stagione, poi i malati di Aids – quanto ha avuto a che fare anche con loro!
Curava anche quelli che non lo amavano, anche quelli che – istigati dall’ispettore Javert – gli davano la caccia. Anche a quelli, quando capitava che fossero costretti a rivolgersi a lui. Franco li curava, e loro si stupivano che lui li curasse. Si stupivano, perché non avevano capito niente né di Franco, né del diritto alla salute, né di tante altre cose.
Medico, quindi. Medico nel proprio reparto, prima di tutto, un reparto che alla sera, terminate lo consegne, diventava un ambulatorio per tanti altri malati che arrivavano anche senza ricetta medica: bisognosi, diseredati, o anche solo amici. Perché Franco – cosa che raramente viene ricordata – era un ottimo medico; spesso era l’ultima risorsa per chi aveva peregrinato, inutilmente, in altri ambulatori.
Neppure è del tutto vero che fosse specialista – come lui stesso amava dire – soltanto dalla gola al buco del culo. Possedeva anche le doti del vecchio medico di famiglia d’altri tempi.
È capitato anche a me, una volta, dopo settimane di inutili consulti tra parenti e amici medici. Dopo che tutti avevano classificato la mia febbriciattola come dovuta allo stress – a quei tempi andava assai di moda la medicina psicosomatica – sono finito nel suo ambulatorio.
Dopo avermi rivoltato, a mani nude, con il solo aiuto di uno stetoscopio, mi ha fatto sedere e con quella espressione che a volte – a causa dei denti sporgenti – non lasciava trasparire l’umore, mi ha comunicato la diagnosi: “Hai la leucemia o la mononucleosi”. Poi mi ha messo in mano la prescrizione per un test che avrebbe sciolto la riserva: mi pare si chiamasse il test di Paul Newmann o qualcosa di simile.
Io stesso, come tanti altri, abbiamo continuato a indirizzargli i casi difficili, quelli di un amico o di un parente che non riusciva a venirne fuori.
Era cosciente del fatto che i pazienti fossero tutti differenti, che ciascuno meritasse una attenzione fatta su misura. Ché altro era avere a che fare con un avvocato o con un magistrato, altro con un ragazzo di periferia che magari neppure si rendeva conto della tegola che gli era caduta addosso.
E non sempre era il paziente a recarsi da lui. A volte gli toccava di andarselo a cercare, il paziente. In qualche caso, aveva dovuto persino inseguire un paziente particolarmente recalcitrante, prendendolo alla fidata per poterlo curare. E qui si capisce l’importanza del loden, perché il loden ha tasche ampie e capienti. Franco, all’occorrenza, poteva infilarci dentro la siringa, già caricata con l’antibiotico, per poter somministrare il farmaco – alla fidata, appunto – a un ragazzo con la sifilide che in ambulatorio non ci sarebbe andato manco morto.
Senza dimenticare che, quando è diventato primario, il suo era un reparto modello.

11. Epilogo.

Per la conclusione, mi hanno raccomandato un finale col botto. Perché alla fine il pubblico bisogna accontentarlo, facendolo sganasciare dalle risate o facendolo commuovere.
Ma non è facile. Perché in questa sala non è possibile far calare dall’alto un deus ex machina, e poi perché chi l’ha frequentato la storia la conosce già, magari arricchita da ulteriori particolari, di quelli che non si condividono, di quelli che ciascuno conserva per sé. E se qualcuno tra i presenti non l’avesse conosciuto … Beh, spiegarglielo non sarebbe facile.
E’ preferibile un ricordo più semplice, più delicato.
Mi vengono in mente le parole di un amico di Franco, che quando è stato male, nel pregare per lui, scriveva di aver ancora bisogno di Franco, del dottore, sì, ma soprattutto di aver ancora bisogno della persona, di Franco come persona.
Ed aveva ragione. Perché al netto di tutto ciò che abbiamo raccontato, o che potremmo ancora raccontare, di S. Elia, dei drogati, della Congregazione mariana, del Papa, di Gulp, dell’ospedale, del loden …
Al netto di tutto, Franco era semplicemente un marito, un padre, un amico, una persona semplice che potevamo incontrare per strada ogni giorno. Una persona capace di avvicinare il prossimo suo “con sublime leggerezza”, per dirla con le parole, davvero efficaci, di Maria Paola Masala.
Una persona che – quando non gli stava alle calcagna l’ispettore Jabert – gli piaceva un sacco fermarsi per strada a chiacchierare, a crastulare con gli amici. E gli piaceva raccontare le barzellette, ne aveva sempre una fresca da proporre.
Sapeva molto, ma svelava solo quello che poteva svelare: a ciascuno il suo. Perché dalla vita molto aveva imparato.
Ed io, vent’anni dopo, ancora m’immagino trovarmelo fronte all’improvviso, lungo quel tratto del Corso Vittorio Emanuele che insiste tra la via Tigellio e la via Pola. Venirmi incontro con il suo loden dalle tasche capienti, con i suo occhiali rotondi appoggiati sopra il naso, con il suo sorriso costruito attorno a due incisivi sporgenti, con una voglia matta di raccontare …

Grazie Franco.
(Gianni Loy)

2 Responses to Per Franco Oliverio

  1. Andrea Floris scrive:

    Bellissimo articolo, grazie Gianni

  2. Massimo scrive:

    Sono della classe 1959, forse era il 1977 o 78, ricordo che avevo appena finito il CAR ed ero rientrato a Cagliari nella prima licenza. Un giorno mi sono svegliato in ospedale (poi mi hanno raccontato che ero li, in coma da 3 giorni), un signore in camice bianco, con un grande sorriso mi ha detto “Tranquillo, sei in ospedale e va tutto bene”.
    Grazie Franco, non ti ho mai piu rivisto, ma ti devo la vita!

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