Israele può cambiare: Un nuovo Israele è possibile?

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La proposta di Primo Levi
DISTINGUERE LO STATO DI ISRAELE DALLA DIASPORA EBRAICA
21 DICEMBRE 2023 / EDITORE / DICE LA STORIA /
Lo Stato d’Israele può cambiare la sua natura e diventare uno Stato democratico costituzionale e di più popoli (compresi i palestinesi), le cui tradizioni culturali e religiose siano salvaguardate senza essere ridotte ad affare privato come negli Stati atei dell’Occidente

Raniero La Valle su Costituente Terra e su Chiesadituttichiesadeipoveri.

Pubblichiamo l’intervento di Raniero La Valle al meeting romano “Non è una striscia. È Gaza” del 9 dicembre 2023.

Mi avete posto la domanda se Israele può cambiare: Un nuovo Israele è possibile? Prima di tutto vediamo perché è necessario.

Ciò che è oggi lo Stato di Israele è sancito dalla Legge fondamentale approvata dalla Knesset giovedì 19 luglio 2018, dalla quale lo Stato di Israele era definito come lo “Stato nazione del Popolo Ebraico”. Essa però impegna lo Stato come istituzione, non il popolo d’Israele come tale, tanto è vero che fu approvata da una ristrettissima maggioranza di 62 voti favorevoli e 55 contrari, con la contrarietà dell’allora presidente di Israele Reuven Rivlin, che in una lettera ai parlamentari aveva espresso il timore che essa potesse “recare danno al popolo ebraico, agli Ebrei nel mondo e allo Stato di Israele”, e con la contrarietà di una ampia corrente di ebrei secondo la fede.

Perché è necessario il cambiamento? Perché con questa identità dello Stato che esso viva in pace è impossibile, e il genocidio è inevitabile. La terra come diritto naturale, storico e religioso, quindi assoluto, non si può discutere nemmeno per una sua piccola parte, compresa Gaza e la Cisgiordania: i rabbini della corrente ortodossa si opposero al ritiro da Gaza deciso da Sharon e lo accusarono di essere un nazista. Gerusalemme è definita, senza alcun compromesso possibile, come una città indivisibile e capitale eterna di Israele. Il popolo ebreo esercita un diritto originario all’autodeterminazione, cioè alla sovranità e ai diritti politici, ed è l’unico a cui è riservato tale diritto all’autodeterminazione. Lo Stato di Israele estende la sua competenza anche agli Ebrei della diaspora, quando fossero in pericolo, in quanto ebrei, indipendentemente dalla loro cittadinanza.

Dunque per i palestinesi non c’è posto se non in quanto privati dei diritti e soggiogati, e siccome questo non è definitivamente possibile, devono essere espulsi o indotti o costretti ad andarsene. La guerra di Gaza è un momento della realizzazione politica, cioè effettiva, di questo modello giuridico.

Per questa ragione Liliana Segre ha espresso il suo disagio dicendo:

“L’eterno ritorno della guerra mi fa sentire prigioniera di una trappola mentale senza uscita, spettatrice impotente, in pena per Israele ma anche per tutti i palestinesi innocenti, entrambi intrappolati nella catena delle violenze e dei rancori”. “E non ho soluzioni. E non ho più parole. Ho solo pensieri tristi. Provo angoscia per gli ostaggi e per le loro famiglie – sottolinea – Provo pietà per tutti i bambini, che sono sacri senza distinzione di nazionalità o di fede, che soffrono e muoiono. Che pagano perché altri non hanno saputo trovare le vie della pace”.

Questo è perché è necessario.

Il secondo punto è se è possibile. Io credo di sì, ma non se si propone un cambiamento impossibile. Il cambiamento impossibile è quello proposto dalla cultura avanzata e laica dei palestinesi. Parlo dei palestinesi che si rifanno alla tradizione di Arafat e dell’OLP, e non della cultura di Hamas e degli estremisti islamici. Questa proposta è quella di uno Stato laico, democratico e pluralista in Palestina.

Questo è anche l’unico modello proposto dall’Occidente. Dato che ormai è stato reso impossibile dall’esercito, dai coloni e dal governo la soluzione dei due Stati; è rimasta solo l’opzione di un solo Stato democratico, non etnico, non confessionale, non mitico. Questa è la soluzione che corrisponde all’attuale cultura dell’Occidente, laica secolare post-teista, Di fatto, anche se non di nome, la concezione dello Stato in Occidente è una concezione atea, tanto che Berlinguer dovette differenziarne il PCI dicendo che esso era non teista, non ateista, non antiteista. Se non lo era il PCI tanto meno lo può essere Israele. Chiedere a Israele di non essere più uno Stato la cui ragione di essere è la fede religiosa dell’ebraismo, cioè il riferimento alla legge, alla Torah, e ai profeti, e che non sia più la patria d’elezione, sicura e riconosciuta, di tutti gli Ebrei che vi si vogliano insediare e vivere significa, questo sì, negare l’esistenza dello Stato d’Israele e buttare a mare tutte le decisioni dell’ONU a favore di Israele e tutta la storia di questi 75 anni.

Quindi la soluzione è la più difficile. Deve cambiare la concezione e la natura dello Stato, che non deve essere né lo Stato moloch né lo Stato leviatano che sta nell’ideologia bellicista e sovranista dell’Occidente, ma uno Stato in cui coesistano diversi ordinamenti giuridici che permettano e garantiscano a ognuno dei popoli che lo abitano di mantenere la propria cultura, le proprie tradizioni e la propria religione. Questo Stato non esiste in natura, e non esiste finché noi ci comportiamo come i nipotini di Thomas Hobbes e di Friedrich Nietzsche, ma che in qualche modo fu intuito dai Costituenti italiani che fecero la battaglia per una Costituzione laica e democratica, ma che includesse gli art. 7, 8 e 9 della Costituzione repubblicana (cioè convivenza Stato-Chiesa, religioni libere ma non affare privato, tutela del patrimonio storico della nazione in funzione delle generazioni future, dunque uno Stato in cui le religioni, le culture e la vita delle generazioni culture erano riconosciute non come fatti privati, ma come realtà e patrimoni pubblici e plurali.

Realizzare questo progetto di Stato è difficilissimo, e tanto più lo è oggi nelle condizioni attuali dell’ideologia politica e del patriarcato militarista e violento dello Stato di Israele, ma questo è possibile, come è stata possibile l’uscita dal regime di cristianità.

Tuttavia questo sicuramento non è possibile oggi, ma potrà esserlo attraverso un lungo e per noi imprevedibile percorso. Certo non basta, come tutti dicono, far fuori Netanhyau.

Iinvece c’è un altro cambiamento possibile e necessario oggi. È quello reclamato da Primo Levi nella intervista a Gad Lerner del 1984, ed è una distinzione, se non una presa di distanza, tra la Diaspora degli Ebrei sparsi nel mondo e lo Stato di Israele, e per noi la distinzione tra lo Stato di Israele e il popolo ebreo della diaspora, a cominciare dagli Ebrei di Roma e d’Italia. Il centro di irradizione dell’ebraismo, dice Primo Levi, non può essere oggi lo Stato di Israele, a cui noi ebrei della diaspora dobbiamo ricordare la tradizione ebraica di tolleranza. Diceva Levi che questo passaggio del baricentro dell’ebraismo dallo Stato di Israele agli ebrei della diaspora, riguardava l’attuale – e sottolineava l’attuale – Israele, cioè l’Israele di allora, figuriamoci che cosa si debba dire dello Stato di Israele di oggi. Solo se si riesce a separare il popolo ebreo dalla macelleria israeliana di Gaza e della Cisgiordania è possibile resistere all’antisemitismo risorgente, e per dirla in modo ancora più angosciato, solo se si distingue lo Stato apocalittico di Israele dal resto dell’ebraismo, si può salvare il popolo ebreo.

Ma in ogni caso proporre e promuovere questa soluzione che salva insieme il popolo d’Israele e il popolo palestinese, è il nostro compito politico, ed anche per questo vogliamo un soggetto politico che lotti per la pace, la Terra di tutti, e la dignità di tutte le persone ed i popoli.
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LA BUONA NOTIZIA: MILIONI DI EBREI SI OPPONGONO AL GENOCIDIO A GAZA
21 DICEMBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / L’UNITÀ UMANA /
L’abuso dell’Olocausto per giustificare le politiche dello Stato di Israele. La falsa tesi della debolezza delle vittime

Sig Giordano

La storia dei miei nonni sopravvissuti all’Olocausto mi ha insegnato cos’è un genocidio, ed è così che posso condannare ciò che Israele sta facendo a Gaza in questo momento. Come osa Israele sfruttare la sofferenza della mia famiglia per cercare di giustificare il suo genocidio a Gaza?
Se i miei nonni fossero ancora vivi, in questo ottobre si sarebbe celebrato l’ottantesimo anniversario del loro incontro. Nel 1943 i miei nonni, Isidor e Marianne, si incontrarono a Theresienstadt, un campo di concentramento nella Cecoslovacchia occupata dai nazisti. Ero molto legato a mio nonno Isi, che sopravvisse alla nonna. Tra le sue cose mi affidò la stella “ebraica” di stoffa gialla con sopra la parola “Jude” che gli avevano fatto indossare nel campo.
Durante un incontro alle Nazioni Unite (ONU) il 31 ottobre, Gilad Erdan, ambasciatore israeliano all’ONU, ha indossato una stella ebraica simile a quella di mio nonno. Rivolgendosi al Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha dichiarato che indossava la stella per denunciare il silenzio del Consiglio riguardo all’attacco del 7 ottobre contro Israele. Erdan ha paragonato questo silenzio al silenzio che permise che si verificasse l’Olocausto. In risposta Dani Dayan, il direttore dello Yad Vashem, il museo israeliano memoriale dell’Olocausto, ha subito denunciato quell’uso improprio della stella, sostenendo che Erdan stava “disonorando le vittime dell’Olocausto, così come lo Stato di Israele”.
Dayan aveva assolutamente ragione nel richiamare l’attenzione su quanto fosse offensivo che Erdan indossasse la stella gialla. Le ragioni di Dayan, tuttavia, sono completamente sbagliate. Per sostenere il suo argomento, Dayan ha sostenuto che la stella gialla simboleggia la debolezza del popolo ebraico durante l’Olocausto, ribadendo una narrazione storica inquietante e falsa.
I sionisti hanno a lungo cercato di raffigurare le vittime dell’Olocausto come deboli per sostenere la fondazione e poi il mantenimento dello Stato di Israele. Questa mossa iniziò anche prima dell’Olocausto, quando alcuni sionisti si allinearono con la scienza razziale eugenetica dell’epoca sostenendo che gli ebrei dovevano purificare la propria razza e creare una propria razza forte. Arthur Ruppin, eminente scienziato sociale e capo dell’ufficio palestinese dell’Organizzazione sionista mondiale all’inizio del XX secolo, promosse l’insediamento in Palestina come risposta ai pericolosi risultati della “mescolanza razziale” degli ebrei europei. Non era il solo, poiché molti intellettuali ebrei sostenevano che la formazione dello Stato sionista avrebbe consentito agli ebrei di “rigenerare i propri corpi” degenerati nelle condizioni di assimilazione nell’Europa occidentale e di oppressione in quella orientale.
Una volta fondato Israele, le vittime dell’Olocausto furono regolarmente trattate come deboli e come esempi all’opposto di ciò che rappresentava lo Stato sionista, il che portò al pessimo trattamento per i sopravvissuti che divennero cittadini israeliani. Come Dayan stesso ha ribadito, l’Olocausto rappresenterebbe un monito sul contrapporre la debolezza degli ebrei nella diaspora alla forza degli ebrei nello Stato di Israele.
Nonostante la distanza delle loro opinioni, leader israeliani come Erdan e Dayan fanno regolarmente uso dell’Olocausto per difendere la violenza di Stato contro i palestinesi. A differenza di Erdan e Dayan, conoscere il genocidio contro i miei antenati mi ha permesso di capire che ciò che sta accadendo oggi in Palestina è un genocidio. Sapere che si sta perpetrando un genocidio è doloroso di per sé. Sapere che un genocidio viene compiuto presumibilmente a mio nome (in quanto ebreo) è estremamente doloroso. Ma sapere che un genocidio viene giustificato con l’appropriazione della sofferenza della mia famiglia mi fa infuriare. Sono furioso. Come osa lo Stato di Israele insultare la storia della mia famiglia?
Gli orrori che la mia famiglia ha dovuto sopportare sono inimmaginabili per la maggior parte delle persone. Mia nonna e mio nonno, adolescenti quando si incontrarono al campo, sono gli unici membri sopravvissuti delle loro famiglie. Mio nonno faceva parte della resistenza nel campo, e nascondeva le persone che erano sulle liste per essere deportate ad Auschwitz. Mio nonno ha letteralmente salvato la vita a mia nonna. Questa non è una storia di debolezza. Tuttavia, è una storia dalla quale ho imparato molte lezioni sulle condizioni che consentono il genocidio.
Ricordo che avevo 8 o 9 anni e sedevo al tavolo di cucina a fare colazione mentre mia madre cucinava. La radio era accesa come ogni mattina e trasmetteva le notizie di 1010 WINS [radio privata di New York, ndt.]: “Dacci 22 minuti, ti daremo il mondo”. Nei titoli un gruppo di resistenza rivendicava la responsabilità di un attentato da qualche parte fuori dagli Stati Uniti. Ho chiesto a mia madre: “Cos’è un gruppo di resistenza?” Lei mi ha spiegato l’idea di resistenza parlando dell’Olocausto e della lotta di suo padre per reagire.
Anche se non tutte le persone che affermano di resistere sono automaticamente nel giusto, quando sono cresciuto mi sono reso conto che il modo in cui si vede la resistenza in una determinata situazione dipende dal proprio punto di vista. Ciò può sembrare ovvio, ma nei media occidentali, nella politica e nei contesti educativi vediamo regolarmente un’associazione tra gruppi di resistenza e terrorismo che crea un lato giusto e uno sbagliato dati per scontati.
Nei giorni successivi all’11 settembre 2001, come cittadino americano che vive negli Stati Uniti mi sono ricordato che quando mi opponevo all’idea di invadere l’Afghanistan ero “con noi” o “contro di noi”. Il nazionalismo forzato mi ha ricordato gli studi sull’Olocausto che avevo intrapreso durante il college. La creazione della mentalità “Noi contro loro” per proteggere la Germania era stata una parte fondamentale nel coinvolgere ampi segmenti di tedeschi non ebrei nella lotta contro il popolo ebraico.
La resistenza si muove contro coloro che detengono il potere. Inoltre essere oppressi, per definizione, significa essere dalla parte dei perdenti in una dinamica di potere. Allora, com’è possibile che Israele, un paese con uno degli eserciti più potenti del mondo, sostenuto dalla più potente potenza militare ed economica del mondo, gli Stati Uniti, abbia cercato di dipingersi come il campione di un popolo oppresso che deve lottare contro i movimenti di resistenza palestinesi?
Jonathan Greenblatt, direttore dell’Anti-Defamation League (ADL) [organizzazione non governativa ebraica internazionale con sede a New York in difesa dei diritti civili e contro l’antisemitismo, ndt.] ha pubblicato un articolo sulla rivista Time dopo l’attacco del 7 ottobre sostenendo che non c’è modo di interpretare l’attacco di Hamas se non come “odio” e “intolleranza tossica nella sua forma più pura”. E se invece di rendere eccezionale l’esperienza ebraica in modo che l’Olocausto diventi un esempio di migliaia di anni di odio per gli ebrei prestassimo attenzione alle reali lezioni che possiamo imparare dagli orrori dell’Olocausto? La lezione di cui abbiamo bisogno non è che gli ebrei sono sempre stati e sempre saranno odiati. La lezione dell’Olocausto è che coloro che detenevano il potere economico e politico usarono il nazionalismo e l’idea a giustificazione del genocidio che i tipi di persone cosidette inferiori costituissero una minaccia per lo Stato-nazione.
Molti ebrei e non ebrei resistettero per quanto poterono. Il problema non era una resistenza debole, il problema era la forza delle narrazioni nazionaliste ed eugenetiche.
La buona notizia è che milioni di persone e di ebrei stanno prendendo posizioni critiche della situazione e opponendosi ai messaggi che ci vengono porti dai più potenti leader israeliani e statunitensi. Siamo solidali con i palestinesi che lottano per il loro diritto all’esistenza e all’autodeterminazione. Vediamo cambiamenti nei sondaggi d’opinione pubblica, e il numero di azioni guidate e sostenute dagli ebrei contro l’attuale genocidio è più grande che mai. Molti parlano apertamente e dicono ad alta voce che “Mai più” significa “Mai più per nessuno”.

(traduzione dall’inglese di Luciana Galliano)
18 dicembre 2023, da Mondoweiss
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One Response to Israele può cambiare: Un nuovo Israele è possibile?

  1. […] mille per uno. Nel sito pubblichiamo un articolo sulle misure europee contro i migranti, una relazione sulla crisi di Gaza di Raniero La Valle e un’informazione relativa alla critica di parte ebraica sulla politica dello Stato di Israele. […]

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