Sa missa de sa Die e atru.
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Il significato storico e simbolico di SA DIE DE SA SARDIGNA
di Francesco Casula
“Firmaisì! E arrazza de brigungia! Arrazza ‘e onori! Sardus, genti de onori! E it’ant a nai de nosus, de totus ! Chi nc’eus bogau s’istrangiu po amori ‘e libertadi ? Nossi, po amori de s’arroba! Lassai stai totu! Non toccheis nudda! Non ddi faeus nudda de sa merda de is istrangius! Chi si dda pappint a Torinu cun saludi! A nosus interessat a essi meris in domu nostra! Libertadi, traballu, autonomia!”
Nella divertente e brillante finzione letteraria e teatrale, in “Sa dì de s’acciappa” lo scrittore Piero Marcialis (1) fa dire così a Francesco Leccis, – beccaio, protagonista della rivolta cagliaritana contro i Piemontesi – rivolgendosi ai popolani che, infuriati volevano assaltare i carri, zeppi di ogni ben di dio, per sottrarre ai dominatori in fuga “s’arroba” che volevano portarsi a Torino.
Ed è questo – a mio parere – il significato profondo, storico e simbolico, della cacciata dei Piemontesi da Cagliari il 28 Aprile 1794: i Sardi, dopo secoli di rassegnazione, di abitudine a curvare la schiena, di acquiescenza, di obbedienza, di asservimento e di inerzia, per troppo tempo usi a piegare il capo, subendo ogni genere di soprusi, umiliazioni, sfruttamento e sberleffi, con un moto di orgoglio nazionale e un colpo di reni, di dignità e di fierezza, si ribellano e alzano il capo, raddrizzano la schiena e dicono: basta! In nome dell’Autonomia e dunque, per “essi meris in domu nostra”.
E cacciano i Piemontesi, i Nizzardi e i Savoiardi, non per motivi etnici, ma perché rappresentano l’arroganza, la prepotenza e il potere: 600-620 secondo lo storico Luciano Carta, 514 secondo Girolamo Sotgiu e Raimondo Carta Raspi: comunque moltissimi, una burocrazia politico-militare e parassitaria vastissima. Tenendo presente che Cagliari agli inizi dell’800 aveva 20.000 abitanti, vi era più di un “burocrate” e “parassita” piemontese ogni 40 abitanti!
Si è detto e scritto che si è trattato di “robetta”: di una semplice congiura ordita da un manipolo di borghesi giacobini, illuminati e illuministi, per cacciare qualche centinaio di piemontesi. Non sono d’accordo.
A questa tesi, del resto ha risposto, con dovizia di dati, documenti e argomentazioni, Girolamo Sotgiu (2).
Il prestigioso storico sardo, gran conoscitore e studioso della Sardegna sabauda, polemizza garbatamente ma decisamente proprio con l’interpretazione data da storici come il Manno o l’Angius al 28 Aprile, considerato alla stregua, appunto, di una congiura.
Simile interpretazione offusca – a parere di Sotgiu – le componenti politiche e sociali e, bisogna aggiungere senza temere di usare questa parola «nazionali».
Insistere sulla congiura – cito sempre lo storico sardo – potrebbe alimentare l’opinione sbagliata che l’insurrezione sia stato il risultato di un intrigo ordito da un gruppo di ambiziosi, i quali stimolati dagli errori del governo e dalle sollecitazioni che venivano dalla Francia, cercò di trascinare il popolo su un terreno che non era suo naturale, di fedeltà al re e alle istituzioni.
A parere di Sotgiu questo modo di concepire una vicenda complessa e ricca di suggestioni, non consente di cogliere il reale sviluppo dello scontro sociale e politico né di comprendere la carica rivoluzionaria che animava larghi strati della popolazione di Cagliari e dell’Isola nel momento in cui insorge contro coloro che avevano dominato da oltre 70 anni.
Non fu quindi congiura o improvviso ribellismo: ad annotarlo è anche Tommaso Napoli, padre scolopio, vivace e popolaresco scrittore ma anche attento e attendibile testimone, che visse quelli avvenimenti in prima persona.
Secondo il Napoli l’avversione della «Nazione Sarda» – la chiama proprio così – contro i Piemontesi, cominciò da più di mezzo secolo, allorché cominciarono a riservare a sé tutti gli impieghi lucrosi, a violare i privilegi antichissimi concessi ai Sardi dai re d’Aragona, a promuovere alle migliori mitre soggetti di loro nazione lasciando ai nazionali solo i vescovadi di Ales, Bosa e Castelsardo, ossia Ampurias.
L’arroganza e lo sprezzo – continua – con cui i Piemontesi trattavano i Sardi chiamandoli pezzenti, lordi, vigliacchi e altri simili irritanti epiteti e soprattutto l’usuale intercalare di Sardi molenti, vale a dire asinacci inaspriva giornalmente gli animi e a poco a poco li alienava da questa nazione.
Note Bibliografiche
1.Piero Marcialis, Sa dì de s’acciappa, Dramma storico in due tempi e sette quadri, editore Condaghes, Cagliari.
2.Girolamo Sotgiu, L’Insurrezione a Cagliari del 28 Aprile 1794, Editore,AM&D, Cagliari.
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Dalla pag fb di Antonello Giuntini.
Ocannu puru, po sa Die de sa Sardigna hat a essiri celebràda sa Missa in lingua sarda, in sa Sea (cattedrale) de sa capitale de sa Sardigna.
Unu ateru passu a innantis poita bengat riconnota sa possibilidade, po chini tenet su donu de sa fidi cristiana, de pode pregai a Deus in sa lingua nostra, segundu sa riforma liturgica decidia oramai 60 annus fait in su Conciliu Vaticanu Segundu. Finas in su Segundu Cunciliu Plenariu Sardu in su 2001, apustis 10 annus de traballus, in su documentu finali votau da is obispus sardus hiant decidiu de podi imperai puru sa lingua nostra in liturgia.
Seus aspetendi da 20 annus chi poderint cussa promissa fata…
C’ est però una novidadi manna custa borta: sa C.E.S. (Conferenza Episcopale Sarda) hat finalmente mandau a Roma is tradutzionis de is 10 Modulus de sa Missa.
Aspetaus
E insà, ajó a cresia su 28 de abrili, cenabara chi benit, a is 11 de a mengianu.
[…] “Sa missa cantada in Catedrale” del 28 aprile u.s. […]