Internazionale
Israele sull’orlo del baratro
di Andrea Gaiardoni su Rocca (*)
Benjamin Netanyahu e i partiti dell’ultradestra che sostengono il governo israeliano sono stati eletti, lo scorso dicembre, sulla base di una promessa elettorale che garantiva ordine e sicurezza. Eppure sta accadendo l’esatto contrario. Sono bastati pochi mesi per far scivolare Israele sull’orlo del baratro, con una tensione sociale mai sperimentata in 75 anni di storia. Perché alla nuova, violentissima campagna militare lanciata nella Cisgiordania occupata (calpestando le norme del diritto internazionale), con gli israeliani che continuano a espandere i loro insediamenti con la forza a scapito dei villaggi palestinesi, si sommano le clamorose manifestazioni antigovernative seguite alla presentazione del contestatissimo progetto di «riforma della giustizia», che punta a smantellare lo stato democratico, a sottomettere il potere giudiziario e ad accentrare l’autorità nelle mani della politica, nello specifico della maggioranza del Parlamento israeliano. In Israele c’è una sola camera, la Knesset: un governo sopravvive soltanto se ha la maggioranza di quei 120 seggi. E l’unica istituzione nazionale che può «bilanciare» quel potere, controllarlo, obbligarlo a rimanere entro i binari del lecito, è l’Alta Corte di Giustizia (il presidente di Israele, ad esempio, non può mettere il veto alle leggi approvate dal Parlamento). La riforma proposta da Netanyahu consentirebbe alla Knesset di ribaltare le decisioni della Corte con una maggioranza semplice di 61 voti. Inoltre, sempre stando al testo presentato e contestato, la Corte Suprema verrebbe privata del potere di controllo sulla legalità delle leggi via via emanate dal Parlamento (in Israele non esiste una Costituzione scritta: il «faro» è nelle leggi fondamentali, che definiscono i diritti individuali e le relazioni tra cittadini e stato). La terza modifica riguarda la selezione dei giudici che fanno parte del supremo tribunale israeliano: non più nominati da una ristretta cerchia indipendente (ex politici ed ex magistrati), ma con un potere maggiore attribuito al governo, anche per le nomine nei tribunali ordinari.
il fardello di Netanyahu
Perciò i manifestanti, da oltre tre mesi, invadono con straordinaria compattezza e determinazione le piazze israeliane, invocando il rispetto della democrazia, denunciando il rischio di scivolare in un sistema di democratura, termine coniato dallo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano per descrivere «la convivenza di elementi democratici e autoritari all’interno di un modello che potremmo definire come democrazia ristretta» (gli esempi pratici non mancano: dall’Ungheria alla Polonia, fino alla Turchia; tutte realtà dove governi democraticamente eletti hanno via via smantellato i controlli e gli equilibri per minare l’indipendenza della magistratura). E non è soltanto la società civile che ha deciso di scendere in piazza, alzando la voce come mai era accaduto prima: anche i militari, i riservisti dell’esercito che si sono rifiutati di entrare in servizio come segno di protesta, al pari degli agenti del Mossad (il servizio segreto israeliano), come anche i piloti da combattimento d’élite, per non dire dei magistrati e di una consistente porzione della politica, compreso il presidente d’Israele, Isaac Herzog, che al culmine della crisi, alla fine di marzo, aveva rivolto un appello al governo: «Per il bene dell’unità del popolo di Israele, vi invito a interrompere immediatamente il processo legislativo della riforma». Con l’aggravante che Benjamin Netanyahu, il premier più longevo della storia d’Israele, che pur di tornare a ricoprire il ruolo di primo ministro ha ripescato dai bassifondi della politica israeliana i partiti più ferocemente nazionalisti e ultraortodossi, dando spazio, voce e ruoli a leader dalla fedina penale ben più che opaca (assai frequenti i precedenti penali per incitamento al razzismo e per aver dato sponda a gruppi considerati terroristi), deve difendersi da quattro procedimenti giudiziari aperti nei suoi confronti con l’accusa di corruzione, frode e abuso di potere. Processi che potrebbero decretare la fine della sua carriera politica. Da qui la convinzione, per la stragrande maggioranza degli israeliani, che l’azione di Bibi Netanyahu sia animata esclusivamente da interessi personali: togliere potere ai giudici per salvarsi la pelle. Una mossa da «ultima spiaggia» che va però a coincidere proprio con gli interessi dell’estrema destra e dei partiti ultraortodossi, fortemente critici contro l’operato della magistratura. Per dirne una: Aryeh Dery, presidente del partito Shas, che rappresenta soprattutto gli ebrei ultraortodossi sefarditi, non è potuto diventare ministro nell’attuale governo Netanyahu (c’era un accordo in tal senso) proprio per l’intervento dell’Alta Corte israeliana, che ha giudicato «inopportuna» l’assegnazione di un ruolo così rilevante a un personaggio condannato lo scorso anno per corruzione, peraltro con pena sospesa in cambio della promessa del suo ritiro dalla politica attiva. Più in generale, gli estremisti, sia di destra, sia religiosi non tollerano gli interventi della Corte Suprema quando (saltuariamente) vanno in qualche modo a ostacolare il progetto dei coloni di accaparrarsi le terre dei palestinesi. Come nel 2020, quando i magistrati abrogarono una legge votata dalla Knesset che consentiva ai coloni di costruire insediamenti su territori privati posseduti da palestinesi. Gli ultraortodossi accusano inoltre la magistratura di non rispettare la loro libertà religiosa, e i loro privilegi. Per fare ancora un esempio, in Israele il servizio militare è obbligatorio per tutti, donne e uomini, ma non per gli ultraortodossi. Basta frequentare le scuole religiose (le Yeshiva) per avere diritto a presentare prolungate esenzioni dal servizio militare, senza limiti di tempo. La Corte Suprema si è più volte pronunciata a favore del superamento di questo privilegio.
il ricatto dell’estrema destra
Questi dunque gli schieramenti sul campo. Da un lato Netanyahu, con il suo cinismo, disposto a tutto pur di salvarsi (politicamente) la pelle. Dallo stesso lato gli ultranazionalisti e gli estremisti religiosi che sperano di massimizzare la loro presenza al governo e che ormai lo hanno in pugno. Come dire: se indietreggi di fronte alle proteste di piazza facciamo cadere il governo e tu dovrai difenderti nei processi senza la copertura del ruolo di primo ministro (difatti Itamar Ben-Gvir, ministro della sicurezza nazionale, leader del partito israeliano di estrema destra Otzma Yehudit, ha preteso e ottenuto, in cambio della sua «fedeltà», la creazione di una «guardia nazionale di circa duemila uomini alle sue dirette dipendenze). Di fronte, tutto il resto della società civile e militare israeliana, che proprio non vuol saperne di consegnare agli estremisti il controllo totale del paese, senza più regole o contrappesi. E, accanto a loro, i più fedeli alleati di Israele, quegli Stati Uniti che si sono più volte dichiarati «profondamente preoccupati» per quanto sta accadendo e per tutto ciò che comporta una progressiva instabilità d’Israele in una regione così delicata come il Medio Oriente. Difficile immaginare, a questo punto, una via d’uscita che non abbia gravi conseguenze. Il voto sulla riforma della giustizia è stato soltanto sospeso e rinviato a fine aprile: inutile dire che un’eventuale approvazione sarebbe anche un durissimo colpo per i palestinesi che vivono nella Cisgiordania occupata, che in assenza di una Corte nelle sue piene funzioni perderebbero di fatto qualsiasi forma di difesa dei propri diritti. Netanyahu deve oltretutto fare i conti con un calo di consensi mai sperimentato prima (secondo un sondaggio pubblicato pochi giorni fa appena il 31% degli elettori giudicava positivamente l’operato del governo). Quindi prende tempo. Tenta di mediare, senza in realtà avere alcuna intenzione di farlo. Ha appena deciso, con un voltafaccia abbastanza clamoroso, di reintegrare nel ruolo di ministro della Difesa Yoav Galant, anche lui come Netanyahu membro del Likud, che aveva «osato» criticare pubblicamente la riforma (l’aveva definita «una minaccia per la sicurezza di Israele») e che perciò era stato immediatamente licenziato, scatenando ancor più le proteste degli oppositori (e dei sindacati). «È vero – ha ammesso il premier –, in passato abbiamo avuto divergenze di opinioni, ma ora ho deciso di lasciare tutto alle spalle: continueremo a lavorare insieme per la sicurezza dei cittadini di Israele». Nel suo immaginario si tratta di un gesto «distensivo», ma non è così. È fumo negli occhi. Come anche i «colloqui» con l’opposizione, nella prospettiva utopica di trovare un compromesso su quella riforma giudiziaria.
escalation di terrorismo senza alcuna pietà
Un compromesso non si troverà mai: se vince Netanyahu, perde la democrazia. Ma il problema è a monte. Perché la fragilità politica rende Israele più debole, più vulnerabile. Come ha osservato il generale Moshe Ya’alon, ex ministro della difesa tra il 2013 e il 2016: «Ho prestato servizio nell’esercito per decenni e non ho mai visto un comportamento così spericolato come quello di Netanyahu ora. Il suo complotto ossessivo per rovesciare la democrazia israeliana rappresenta una minaccia immediata alla sicurezza di Israele. I nostri nemici stanno a guardare, e la nostra capacità di deterrenza sta calando». Israele è realmente sull’orlo del precipizio. Con l’estrema destra di governo che sembra sempre più disposta a rischiare il tutto per tutto, come se non temessero più alcuna reazione, né della società, né dei palestinesi, né degli alleati. Un’estrema destra che dopo il raid della polizia israeliana di inizio aprile nel complesso della moschea di Al-Aqsa, a Gerusalemme (durante il mese sacro musulmano del Ramadan) e l’uccisione di un ragazzo palestinese di 15 anni in un campo profughi vicino a Gerico, ha organizzato un corteo, al quale hanno partecipato anche 7 ministri dell’attuale governo (tra i quali il ministro delle finanze Bezalel Smotrich e il ministro della sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir), con migliaia di coloni che hanno marciato verso un insediamento ebraico evacuato due anni fa. Una palese minaccia degli estremisti che non hanno alcun timore di gettare ulteriore benzina sul fuoco delle rivendicazioni. E con i terroristi palestinesi, Hamas su tutti, che non vedevano l’ora di avere l’ennesimo pretesto per scatenare la loro cieca, folle, reazione: una donna israeliana uccisa con le sue due figlie di 15 e 20 anni; l’avvocato italiano Alessandro Parini che sul lungomare di Tel Aviv ha lasciato la vita, travolto e ucciso da un’auto guidata da un arabo-israeliano, senza precedenti, lanciata a tutta velocità; la pioggia di 34 razzi sparati dal sud del Libano verso il nord d’Israele (25 intercettati dal sistema di difesa Iron Dome), salutati dalla Jihad islamica palestinese come «un’operazione eroica contro i crimini israeliani nella moschea di Al-Aqsa». Rimpalli di accuse, vittime civili, in tributo crescente di morte e di dolore e di rancori che non può avere alcuna giustificazione sulla base delle proprie «ragioni». Questa strada porterà Israele, e non soltanto, oltre l’orlo del baratro. Pochi giorni fa il capo di stato maggiore Yoav Horowitz, ex capo dello staff di Netanyahu tra il 2016 e il 2019, oggi uno dei volti più noti delle proteste antigovernative, ha rilasciato un’intervista al quotidiano Haaretz nella quale ha disegnato un profilo dell’attuale premier: «È arrivato a vedersi come qualcosa tra un imperatore e il presidente di una superpotenza, è deciso a diventare il Vladimir Putin di Israele. Io c’ero quando l’ha incontrato, in passato. Ho visto la sua adorazione. Ho visto quanto desiderava essere come lui. La mia previsione? Netanyahu non si fermerà fino a quando l’intero sistema giudiziario non sarà sul pavimento, implorando perdono per averlo messo sotto processo». E allora, chi lo fermerà? Ormai anche nell’opinione pubblica di destra, che pochi mesi fa aveva votato per l’attuale coalizione, comincia a farsi largo l’ipotesi che forse sarebbe un bene per Israele archiviare, definitivamente, la lunga, dolorosa, pericolosa, parentesi politica di Bibi Netanyahu.
Andrea Gaiardoni
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(*) Come abbiamo scritto di recente, il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale del numero 8/2023 di Rocca ha preannunciato, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della stessa rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, ci siamo uniti con Aladinpensiero a tale programma, promettendoci sia di “rimbalzare” gli articoli di Rocca in argomento, sia di proporne altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto ricordiamo che ci siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari, che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese. Si tratta di iniziative proposte dalla Caritas di Gerusalemme, rivolte soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio.
Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
In questa circostanza proponiamo l’articolo di Andrea Gaiardoni, esemplare per chiarezza, pubblicato nel numero 9 di Rocca da alcuni giorni online (fm).
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Per quanti volessero approfondire: https://www.limesonline.com/sommari-rivista/israele-contro-israele
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Eventi
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Mercoledì 19 aprile 2023 a Iglesias.
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Giovedì 20 aprile 2023 verso Sa Die.
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna
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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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