La tragedia di Cutro
Il mostruoso tra noi
14-03-2023 – di: Marco Revelli
Su Volerelaluna
Il mostruoso è tra noi, e si traveste da normalità. La sequenza di atti di questo governo guidato da una che si definisce “donna, madre, cristiana”, fin dal suo nascere ma con plastica evidenza dopo la tragedia di Cutro, ce ne offre una dimostrazione inquietante
Che cos’è “il mostruoso”? E’ l’applicazione sistematica alle proprie scelte, soprattutto se pubbliche, dell’”inumano”, il quale a sua volta consiste nella pratica relazionale di considerare gli uomini come “cose”, di spogliarli della loro natura di esseri simili a noi per trattarli come oggetti di cui disporre. Non lo scopriamo oggi. E’ una degenerazione presente da tempo, in modo pervasivo, nell’orizzonte esistenziale della modernità (in fondo è il codice segreto del capitalismo come relazione sociale), che ha avuto un’espansione iperbolica nel cuore dell’Europa nel periodo feroce tra le due guerre mondiali, come “caso-limite”, ma che oggi continua a riproporsi carsicamente in forme omeopatiche. Günther Anders ne introduce il concetto in uno straordinario libretto sulla figura di Eichmann, ma si affretta a precisare che “il tempo del mostruoso forse non è stato un puro interregno” e anzi il suo ripetersi non solo è possibile ma è probabile perché “uomini come Eichmann sono davvero qualcosa di assolutamente emblematico della condizione del nostro mondo odierno. Essi sono – l’affermazione è agghiacciante – persino inevitabili”.
Ebbene, come classificare le esternazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che di fronte alla strage di bambini di Cutro ne rende colpevoli i genitori, molti dei quali anch’essi tra le vittime, se non sotto la voce dell’”Inumano”? E provenendo da una fonte istituzionale, come espressione della forma mentale di quel Potere, nella categoria del “mostruoso”? O come qualificare le parole dell’on. Federico Mollicone di Fratelli d’Italia che, nell’affermare l’insopportabilità dei flussi di migranti clandestini ha lamentato che le persone che vivono in luoghi come Cutro o che operano nel campo dei soccorsi “debbano subire scene raccapriccianti come quella di vedere appunto dei bambini morti sulla spiaggia” ? Ha detto proprio così il neo Presidente della Commissione cultura scienza e istruzione della Camera, senza un attimo di dubbio sull’enormità di quanto gli stava uscendo di bocca, come se quei poveri morti fossero colpevoli di essere lì, per il raccapriccio che provocavano nei legittimi proprietari del luogo.
C’è, in tutto questo, una sconvolgente incapacità di “vedere” l’altro, di porsene, sia pure per un istante, nelle stesse condizioni (si direbbe di “identificarsi” con lui), o anche solo di considerare le situazioni da cui provengono (se un genitore sceglie di portare un proprio figlio in un viaggio di quel genere, sapendo il rischio mortale che corre, evidentemente è perché fugge da un rischio peggiore, non ci vuole Papa Francesco per capirlo). Se lo scafista criminale e assassino appare loro come l’unica possibile fonte d’aiuto nel tentativo di fuggire da una condizione disperata è perché gli altri possibili attori sul terreno, a cominciare dalle autorità degli Stati di partenza e di quelli destinazione, gli si presentano di fronte come figure altrettanto pericolose, anzi peggio. Non calarsi in questo tipo di problematica è sintomo di un’assenza di empatia così totale, da suggerire la presenza di patologie psichiche ben conosciute dalla scienza: è noto che in psichiatria lo “psicopatico” è caratterizzato da una grave incapacità di vedere la sofferenza altrui e di soffrirne a sua volta (il senso etimologico, appunto, della parola empatia che derivando dal greco ἐν -πάϑεια significa mettersi “in sofferenza” con l’altro), il che ne spiega spesso il successo politico e sociale grazie alla simmetrica capacità di manipolare gli altri a proprio vantaggio come fossero appunto oggetti. Ma qui, più che a casi di devianza individuali o a deficit di socialità personali, siamo di fronte a fenomeni collettivi, a modi di agire e di sentire sistemici. Sono modi di pensare, protocolli di azione, dinamiche impersonali, logiche di apparato ciò che incorpora, e rende “istituzionale” quel deficit di humanitas. L’intera meccanica della tragedia di Cutro è, da questo punto di vista, esemplare.
Quello che ha determinato la strage non è stato un ordine riferibile a un preciso individuo o a un singolo ufficio. E’ stata una dinamica di sistema, una logica d’apparato che ha incorporato nei propri codici di funzionamento un ordine gerarchico di priorità nel quale la vita delle persone, nel caso si tratti di migranti, anziché al primo sta all’ultimo posto, subordinata ad altre preoccupazioni e ad altri obiettivi (l’invalicabilità dei confini, il controllo dei flussi, il buon nome del ministro competente in carica, suoi calcoli elettorali…). Quelle che a ragione sono state definite “le regole della vergogna”.
L’ha spiegato, come meglio non si poteva, il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di Porto, oggi in pensione, quando ha detto che fino a un certo punto il primo pensiero degli uomini del mare, fossero la Guardia Costiera o ogni altro corpo dotato di natanti, era quello di salvare le persone, come la legge del mare detta da secoli e secoli, poi, tutto è cambiato, e il primo riflesso è stato quello di evitare guai a se stessi, per non essere sospettati di qualcosa considerato riprovevole, come l’immigrazione clandestina. Una vera e propria rivoluzione copernicana o, meglio, un’”inversione morale”, come è stata definita la tecnica di trasformare la virtù di chi salva in vizio, anzi in crimine, che era stata avviata dal famigerato decreto Minniti, nel 2016, che pretendeva di imporre alle ONG operanti nel Mediterraneo un “codice d’onore” che le sottoponeva a controllo poliziesco, era proseguita con rinnovato impegno con Salvini (che aveva nel retrobottega l’altro Matteo, Piantedosi, a fargli da braccio secolare) ed è arrivata fino a questo capolinea luttuoso. Il soccorso, da allora, “è diventata l’ultima cosa da fare”, dice il Contrammiraglio. Che racconta: “Salvavamo centinaia di migliaia di vite umane e, nonostante il grandissimo lavoro e lo sforzo immane, per tutti noi era un vanto, un orgoglio portare a terra ogni persona. E soprattutto ti arrivava il riconoscimento, la stima di un Paese intero, persino l’invidia. Ed è stato per tutta Italia un grande arricchimento poter dire: se hai salvato una vita, hai salvato il mondo”. A un certo punto però, continua, “le nostre motovedette sono diventate i ‘taxi del mare’, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani… l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dalle foto dei calendari del Corpo“.
Naturalmente l’imput al “sistema operativo” è stato dato da uomini (e donne) in carne ed ossa, che hanno ri-disegnato l’orizzonte di fondo del mutamento di prospettiva etico-politica (non tutti necessariamente di destra o post-fascisti, alcuni come si è visto arrivati anche dalle macerie di quello che fu il Partito comunista italiano). Ma poi la macchina ha proseguito da sola, come fanno appunto tutti gli apparati burocratici, producendo su scala allargata l’inumano in forma impersonale. Con la perentorietà indiscutibile dei protocolli su cui non si discute (più). E con quell’effetto-leva che hanno appunto i moderni apparati di sistema, capaci di moltiplicare su scala infinitamente ampia gli effetti delle piccole decisioni quotidiane, rendendo la sproporzione tra l’immaginato e il realizzato così ampia da cancellare ogni senso della personale responsabilità. E’ la ragione per cui oggi (ieri) Giorgia Meloni può esclamare, sgranando gli occhioni azzurro-ghiaccio davanti ai giornalisti indignati, “ma voi credete davvero che noi del Governo abbiamo voluto la morte di quei naufraghi?”, incapace di vedere in quei poveri corpi sparsi sulla spiaggia l’esito di una catena di azioni e decisioni di cui lei e i suoi ministri (compreso quello che alla sua sinistra non smetteva di chattare compulsivamente sullo smartphone) e i suoi sottosegretari giù giù fino ai gradi minori erano e sono, direttamente o indirettamente, responsabili.
D’altra parte per intravvedere che cosa aleggi tra le ombre del sottofondo oscuro di quelle menti basterebbe il desolante spettacolo di quella festa mal riuscita celebrata nonostante il clima luttuoso di una tragedia immane. Che cosa abbia spinto la capa del governo che non aveva trovato nemmeno un minuto per rendere omaggio a quelle bare allineate nel Palazzetto dello Sport di Crotone a risalire tutta l’Italia, fino a due passi dal confine svizzero, all’agriturismo di Ugiate Trevano, per intonare col compare Salvini quello sgangherato karaoke senza chiedersi se non sia poco opportuna un’esibizione festosa mentre ancora il mare restituisce, giorno dopo giorno i corpi di giovani, donne, bambini e bambine soprattutto. E se la canzone di Marinella, scelta per l’occasione, non costituisse uno strappo nello strappo della sensibilità che normalmente spinge anche i più rozzi tra i rozzi a non parlar di corda in casa dell’impiccato. Le cronache ci restituiscono una gioiosa “serata di brindisi con vino rigorosamente padano, paccheri al sugo bianco, filetto, torta ai frutti rossi, e karaoke”, tra il pubblico, ospite d’onore, Antonio Angelucci, immobiliarista, boss della sanità privata, un curriculum giudiziario di tutto rispetto, proprietario dei quotidiani che avrebbero parlato, a proposito del nuovo naufragio simile a quello di Cutro, di “Assalto all’Italia” e che, a proposito delle critiche al rave governativo di Ugiate Trevano , titoleranno ironizzando sul “reato di compleanno”…
E’ difficile farsi una ragione di tanto disprezzo delle più elementari forme dell’umano vivere, di questa ostentazione svaccata di ordinaria disumanità che va al di là di ogni differenza politica e culturale per toccare i fondamenti della convivenza e del rispetto; volgarità che esisteva certamente anche prima, ma che era stata a lungo tenuta celata, per vergogna, nel ripostiglio delle cose sporche. Lo è tanto più adesso, con la notizia ancora calda della nuova strage evitabile e non evitata, quando anche il direttore del quotidiano “La Stampa” titola il proprio editoriale Il naufragio dell’umanità scrivendo che come nel caso di Cutro, anche questa volta “potevamo salvarli, e non l’abbiamo fatto”. E quando vibra ancora nell’aria quel mostruoso “Ciao ciao” con cui dalla sala operativa di Roma è stato risposto alla telefonata di Sea Watch che chiedeva disperatamente soccorso per il barcone poi rovesciatosi. Perché, continuo a chiedermi, lo fanno, e lo ripetono? Forse pensando che davvero il Paese sia, nella sua maggioranza, così logorato moralmente da identificarsi con questo stile da suburra? Convinti di parlare in questo modo alla sua “pancia” strizzando l’occhio all’involgarimento come hanno fatto finora con evasori, redditieri di posizione, furbetti dei tanti quartierini di cui hanno riempito i codicilli della Milleproroghe? Contano di prender voti dalla parte peggiore dell’elettorato allineandosi verso il basso? Flirtando con quella disumanità diffusa che si respira nell’aria. O forse, più semplicemente, lo fanno perchè “così sono”.
E ancora una volta mi soccorre, quantomeno con la fiammella della ragione, il già citato Günther Anders, che di questi sotterranei della contemporaneità ha più di ogni altro fatto oggetto di sofferta riflessione, e che ci ha spiegato, già una sessantina di anni fa, che “dolore, lutto e pietà, per poter nascere, hanno bisogno di quella particolare condizione che si chiama stima” perché – scrive – “noi possiamo sentirci in lutto solo per coloro che avremmo potuto stimare”. E questi nuovi governanti che c’infangano la terra, di quegli uomini, donne, bambini che noi oggi piangiamo non avevano nessuna stima. Li consideravano intrusi. Peggio, fattori di possibile inquinamento, in conformità di quella sciagurata dottrina che predica il pericolo della “sostituzione etnica” (qualcosa che sa tanto di parente con l’omologa “pulizia etnica”) o, più banalmente, “sostituzione del popolo”. Salvini ne è un capofila prolificissimo (Tomaso Montanari sul “Fatto” ne ha tracciato un documentato profilo). Ma nemmeno Meloni scherza. Forse oggi, chiamata a frequentare i salotti buoni internazionali non gradisce che lo si ricordi, ma pochi anni fa twittava amabilmente contro l’UE, “complice dell’immigrazione incontrollata, dell’invasione dell’Europa e del progetto di sostituzione etnica dei cittadini europei volute dal grande capitale e dagli speculatori internazionali”, indignata perché la Commissaria Mogherini si era permessa di affermare che senza i migranti ci “sarebbe il crollo delle nostre società”. E poco dopo si ripeteva cinguettando di “Prove generali di sostituzione etnica in Italia” dimostrate dal fatto che in quell’anno più di 100 mila italiani avevano lasciato la nostra Nazione mentre in compenso, erano “sbarcati 153 mila immigrati, nella stragrande maggioranza uomini africani”.
Ecco perché non scherziamo affatto, né ci abbandoniamo a esercizi retorici, quando diciamo che in questa classe politica che è arrivata al governo si avverte, piantata nel fondo del suo DNA, una radice fascista. Un pezzo profondo di quell’autobiografia della nazione che l’aveva quasi distrutta ottant’anni fa. Il fascismo, colto nella sua superficie, è stato un’espressione cialtronesca del peggior spirito strapaesano diffuso nel nostro paese. Ma colto nella sua dimensione esistenziale e antropologico-culturale è stato anche, purtroppo, una cosa seria. Un fenomeno cioè caratteristico di un particolare tipo umano (o sarebbe meglio dire dis-umano) che ha fatto del principio di diseguaglianza declinato sul versante del rapporto gerarchico superiorità/inferiorità e di quello etnico (razza superiore/razza inferiore), la propria cifra. E che corrisponde a una patologia del “moderno” radicata nel profondo e capace di conservarsi al di là delle sue specifiche concretizzazioni di tempo e di luogo. E’ in qualche modo l’idea lanciata da Umberto Eco di un Ur-fascismo, o di un “fascismo eterno”, che va oltre le contingenze storiche e si esprime in particolari forme di carattere e di relazionalità orientate al disprezzo e alla sottomissione. Alla cancellazione dell’altro come proprio pari, e alla sua riduzione o a servitore, o a nemico o, infine, a “cosa inutile”. Quell’orizzonte non si è mai chiuso completamente. E oggi ne contiamo le vittime.
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