Enzo Bianchi intervistato dal direttore di Rocca
E’ online il n. 2 del 2023 di Rocca. Tra gli altri articoli l’intervista rilasciata da Enzo Bianchi al direttore Mariano Borgognoni, che ringraziamo per aver concesso di ripubblicare sulla nostra news.
di Mariano Borgognoni, Rocca 2/2023
Siamo contenti che Enzo Bianchi, il fondatore della Comunità di Bose, ci abbia rilasciato questa bella e densa intervista, tra le primissime dopo gli avvenimenti che hanno attraversato quella comunità. In questa conversazione sono stati toccati molti argomenti che riguardano l’essenza della fede e il modo come cercare di viverla nella compagnia degli uomini che non vuol dire affatto annacquarla o nasconderla dentro un involucro innocuo. Al contrario rimettere Cristo al centro è il primo compito di una fede autentica. Non accontentarsi del non possiamo non dirci cristiani. Ma bisogna parlare una lingua comprensibile ai nostri contemporanei. Sono persuaso che da questo incontro siano venuti fuori spunti e considerazioni di grande interesse esposti con la consueta nettezza. Ho appena letto Cosa c’è di là che mi sembra il tuo libro più intenso, più intimo, libro nel quale vita e morte si richiamano, prendendo senso l’una dall’altra, la vita dal suo limite, la morte da come si è vissuto. Per me torna l’eco dell’essere per la morte, di Heidegger, dell’uomo come essere tempo, limite. Ed è proprio la de-limitazione che dà forma e identità e può consentire una vita autentica. Tu stesso richiami il termine mortali come modo di definire gli umani da parte dei greci. Ora il tuo amico Galimberti dice sempre che però i greci ci insegnano ad accettare questo destino. Il Cristianesimo invece è la sfida contro l’ingiustizia della morte. Soprattutto della morte del buono, del bello, del giusto. Questa pretesa sembra a molti una follia, una specie di credo quia absurdum, per dirla con Tertulliano. [segue]
Secondo te, dov’è il fondamento di questa pretesa del Cristianesimo di conservare, restituire ciò che è bello, ciò che è buono, ciò che è giusto?
Credo che siano diversi i fondamenti, anche se di diverso valore. C’è un fondamento che secondo me viene dalla nostra umanità: il fondamento di una giustizia che reclama un giudizio. Noi all’interno della vita troviamo senso nel bene e vediamo il male nella morte; tutto questo ci porta a giudicare, a discernere e a sentire come un dovere il bene, il vivere l’amore, e a detestare e rifiutare ciò che è male, fa male e porta morte agli altri. Però poi la nostra esperienza nella vita è che degli umani vivono portando morte e altri vivono addirittura dando la propria vita per portare bene, per instaurare amore, per generare vita. Ecco io credo che di fronte a questa esperienza della realtà, gli uomini da sempre hanno percepito dentro la storia, il bisogno che ci sia restituzione di integrità ai poveri, alle vittime della storia, ai disgraziati, ai sofferenti, a quelli che nella vita sono stati derubati del bene e della gioia, e che ci sia un giudizio su quanti hanno generato morte, hanno oppresso i fratelli, non hanno ascoltato il grido dei poveri, non hanno saputo aver compassione e misericordia. Anche molti non credenti, penso soprattutto ad Adorno e alla Scuola di Francoforte, sentivano questo bisogno e per me è sempre stato, nella ricerca di senso della morte e dell’aldilà, qualcosa che ho tenuto davanti.
Hai tratteggiato la ricerca comune degli uomini lungo il tempo ma qual è lo specifico punto di vista cristiano?
La fede cristiana mi dice che Gesù Cristo è risorto dai morti, Lui il primo dei fratelli, Lui che mi precede. Ma attenzione, mi sembra che sovente la Chiesa abbia su questo un messaggio troppo breve: Cristo è risorto perché era Figlio di Dio, e allora molti uomini possono dire, ma se è risorto semplicemente per quello, allora è qualcosa che riguarda Lui che era figlio di Dio, ma a noi non ci tocca. Ma se invece noi leggiamo in Gesù Cristo l’uomo che ha amato fino alla fine e che Dio ha resuscitato proprio per questo amore vissuto, concretizzato nella sua vita, in parole, in segni, in azioni, in comportamenti fino all’estremo, fino a dare la vita per gli altri, e l’ha resuscitato per questo il discorso cambia. È come dire che c’è qualcosa nella nostra vita che può andare al di là della morte ed è l’amore, lì c’è la risposta davvero. Alla finale del Cantico dei Cantici, non a caso l’ultimo libro del Canone Ebraico, l’amore e la morte sono in continuo duello: chi dei due vincerà? L’Antico Testamento lascia tutto aperto, come una grande domanda, dice solo, forte come la morte è l’amore, tenace come l’inferno è la passione amorosa, l’amore è una fiammata del Signore, è una fiammata di vita. Ma per noi cristiani questo diventa qualcosa che in Gesù Cristo vediamo compiuto in pienezza e di conseguenza diventa un fondamento della nostra speranza, della nostra fede. Lui è semplicemente il primo uomo risorto da morte, noi dietro a Lui. Ed è questa la nostra speranza di poter vincere la morte con l’amore, con quei frammenti di amore che sono già immortalità, se li abbiamo vissuti nella nostra vita e che certamente non potranno andare perduti.
Questa sorta di primato dell’amore, anche sulla fede, e questo legare il discorso della Resurrezione non tanto all’esigenza dell’immortalità quanto a un’esigenza di giustizia nei confronti delle vittime. Le vittime ci saranno sempre («i poveri li avrete sempre con voi»), questa è l’altra domanda che ti volevo fare. Anche nella società più giusta, ci sarà la sciagura, la disgrazia, la vittima e questo sarà tanto più drammatico proprio quanto più giusta potrebbe essere la società.
Esattamente.
Mi ricordo una frase di Karl Barth nel Commento alla Lettera ai Romani, quando afferma che i cristiani sono più che leninisti, tanto per dire che la rivoluzione potrebbe risolvere molti problemi, ma rimarranno sempre le vittime.
Resta sempre la verità che finita una rivoluzione bisogna metterne in conto un’altra, per un altro dolore, un’altra alienazione, un altro male, perché le vittime ci saranno sempre. È l’assetto di questo mondo che crea le vittime, le crea la vita, le crea la natura, le crea la nostra limitatezza, la nostra fragilità umana. E quindi per queste io credo ci vuole assolutamente qualcosa che dia a loro ciò che è mancato, altrimenti la nostra vita è miserevole, ed è disperante per quelli che in tutta l’esistenza non hanno mai avuto la possibilità di essere persone con una certa pienezza di vita e ce ne sono tante e le possiamo conoscere. Non è solo chi muore di fame ma anche coloro che sono colpiti da malattia grave nel corpo, nella mente e che non possono mai fare un sorriso di gioia perché la vita glielo nega.
Il tuo ultimo libro mi ha ricordato una lettera di Sorella Maria a quel grande dimenticato, direi ignobilmente dimenticato, che è stato il suo amico Ernesto Buonaiuti. Sorella Maria scriveva «Tu Ginepro sei un mistico, io sono una panica, amo la natura, la terra, i fiori, i tramonti, la musica». Mi pare che tu ti senta vicino a questa sensibilità di sorella Maria, a questa sua fedeltà alla terra.
Tantissimo, da sempre ho sentito questo amore, questa venerazione, addirittura posso dire questa presenza nella vocazione di sorella Maria proprio soprattutto grazie a questo sentimento. In lei ho sentito una dimensione alla quale non ho mai potuto rinunciare: la libertà, sentirsi liberi sempre, anche all’interno della Chiesa, lei mi ha confermato in questo che io sentivo fin da giovane ed ho sempre avvertito.
È per questo che nella mia vita non sono voluto entrare nel sacerdozio, nonostante tante preghiere a diventare prete, per questo non ho voluto far parte della vita religiosa nonostante tanti inviti a diventare religiosi ma ho sempre detto: siamo dei semplici laici, semplici laici come sorella Maria. Come soprattutto per me è stato ispirante Pacomio, il grande fondatore della koinonia, del deserto. Semplici laici e in comunione, una comunione che non abbia muri, che vada oltre la Chiesa, nell’umanità ma poi anche con tutte le creature, con l’universo. E di conseguenza io ho sempre pensato che la Chiesa in qualche misura faceva male ad avere il sospetto del panteismo là dove semplicemente c’era un panenteismo, cioè si vedeva Dio dappertutto. La Chiesa temeva la divinizzazione della natura, l’idolatria, mentre invece la natura è come la Bibbia, è il secondo libro che ci narra Dio. Io credo abbiamo tre libri, la Bibbia, la natura e gli uomini, gli umani, uomini e donne. Tre libri che ci narrano Dio. Se noi tralasciamo uno di questi libri, abbiamo di Dio semplicemente parole distorte.
Torniamo alla questione della morte, questa grande rimossa, rimossa proprio nel senso freudiano, magari è andata a finire nell’inconscio ma da lì disturba parecchio, non si acquieta. Io ho fatto a tempo da bambino a conoscere gesti che accompagnavano la morte. Mi ricordo quando morì mia nonna. Lei dette proprio le ultime indicazioni, mi ricordo che disse a mio zio: «guarda che tuo fratello ha le mani bucate, stai attento se no non tirerà avanti la famiglia». Oggi si vive una forte crisi dei legami, tante persone vivono sole, i parenti spesso sono lontani, la comunità locale è quasi evaporata. Nell’evaporazione di questo mondo come può essere vissuta la morte, umanamente o il più umanamente possibile?
Ma certamente la fatica di morire si è accresciuta, c’è un accrescimento della morte perché la morte è diventata un evento solitario, un evento non più accompagnato da nessuno e sovente addirittura in isolamento. La grande esperienza che abbiamo avuto durante la pandemia non è stata tanto il numero dei morti, ma come si moriva negli ospedali, ormai strappati alle famiglie, alle case, senza più comunicazione, intubati, senza più un volto, una mano vicina che aiutasse nel trapasso, questa è una morte disperante. Non dimentichiamolo, la morte da soli è una morte aggravata e noi oggi rischiamo questo, soprattutto nelle Residenze. Ma in molti contesti continua ad esserci questa morte anonima e certamente noi dobbiamo rifare i tessuti della vita per avere una morte accompagnata. È la qualità della vita che può permettere una qualità della morte, ma se non c’è una qualità della vita, se si spegne ogni relazione, se gli affetti non sono più capaci di essere esternati, di essere mostrati, se non c’è più nessuno che è capace di fare una carezza anche a chi ha l’Alzheimer, a chi oramai è in uno stato di demenza senile o a chi non può sentirla più perché è in uno stato comatoso allora le nostre morti fanno paura. Ci vuole la trasmissione di una grammatica umana di nuovo. Io sovente sono chiamato in Hospice, in altri luoghi a meditare con loro su come si accompagnano umanamente i morenti, non certo a dare indicazioni tecniche perché non sono un medico, ma per me è molto importante la prossimità, e mi soccorre l’aver visto da piccolo tante persone morire da vicino, accompagnate e poi di averne viste almeno quattro o cinque in Comunità, venute da noi a morire e che sono morte mentre io tenevo loro la mano e dicevo loro «vai, vai in pace, vai in pace» e li accarezzavo. Io credo che morti così dovrebbero essere possibili, perché sono umane, non tolgono la gravità della morte, ma non ci fanno sentire soli. Però è evidente, tutto dipende dalla qualità delle relazioni che manteniamo nella vita.
Mi permetto di mettere il punto interrogativo sul titolo del tuo testo, Cosa c’è aldilà? Perché ci si affollano tante immagini, forse anche tanti desideri non soddisfatti qui, quelle alienazioni di cui parlavano Marx, Freud e così via. Tante pagine dantesche che hanno formato il nostro immaginario collettivo. Ma soprattutto di un’altra rimozione vorrei chiederti: quella del giudizio. Si può pensare a un Dio così misericordioso e a buon mercato da essere indifferente alle azioni e anche alla responsabilità umana?
Io da un lato devo dire sono convintissimo della necessità del giudizio, lo confessiamo nel Credo, il Signore verrà a giudicare i vivi e i morti e quando lo canto, lo canto con particolare convinzione. E attenzione, sono convinto che innanzitutto il giudizio riguarda me e sono convinto che riguarda me nella condizione di peccatore. Ho fatto degli errori, ho fatto degli sbagli, ho commesso dei peccati nel linguaggio cristiano, ma conto sulla Sua misericordia. Nello stesso tempo devo dire che faccio fatica, questo sì, a credere che il giudizio non avverrà o sarà una specie di abbuono misericordioso per quelli che non hanno saputo rispondere a chi chiedeva loro compassione e misericordia. Io resto convinto e lo dice anche Papa Francesco che tanti peccati che la Chiesa considera gravi, come i peccati della carne, che sono peccati di debolezza, spariranno nel vedere il Signore. Sarà guardando Lui e Lui negli occhi nostri, come dice il Profeta Ezechiele, che questi peccati si dissolveranno e non li ricorderemo più e trionferà la misericordia. Ma se noi di fronte a chi ci chiedeva misericordia, pietà e compassione non l’abbiamo data, io dentro sento la difficoltà che ci sia una remissione e penso con Gesù a quella immagine, della Geenna, a quella spazzatura di Gerusalemme, spazzatura dove vanno tutte le lordure della città.
È una immagine, semplicemente io non mi sostituisco a Dio e non voglio dire che ci sarà una condanna eterna, no e vorrei che tutti fossero salvati, ma alle persone che sono state ipocrite e che non hanno usato misericordia e compassione a chi glielo chiedeva faccio difficoltà a credere che sia dato facilmente il perdono.
In un recente articolo su Repubblica, parli non del rischio ma della realtà di una sorta di implosione del cristianesimo, implosione soprattutto del cattolicesimo e parli del rischio anche che resti un cattolicesimo senza cristianesimo. Mi sembra che la Chiesa stia tentando di fare qualcosa sul piano assistenziale, fascia alcune ferite, resiste, forse anche troppo, nel difendere ogni piccola trincea. Si è tentato con il Sinodo, fortemente voluto dal Papa, di fare un cammino di nuova connessione con la società, ma è un cammino faticoso perché, almeno a me pare, che il corpaccione della Chiesa, per così dire, non reagisce, non c’è la situazione che c’era al Concilio, dove veniva una spinta dal basso che incrociava qualche cosa che si muoveva anche dall’alto. Qui anche alla base c’è un ‘rinsecchimento’. Penso ai laici, alle donne. Adesso quando si vedono le immagini di riunioni senza donne, o è la Chiesa, o è il Congresso del Partito Comunista Cinese o è la Lega Araba. Per il resto le donne ci sono. Anche l’esperienza della della Pro Civitate Christiana è stata un’esperienza in cui i laici, le donne soprattutto, hanno fatto una prise de parole: non potevano predicare dagli amboni ma lo facevano nelle piazze, nei teatri e nelle fabbriche. Non siamo oggi in questa situazione. Come la vedi? Da dove ricominciare per avere in qualche modo una presenza significativa della Chiesa, delle Chiese anche in senso ecumenico?
Mah, innanzitutto devo dire due cose che mi preoccupano davvero: la prima, io non so se la Chiesa si rende conto che orami da più di sessant’anni, da prima del Concilio, ha come unica preoccupazione se stessa. Tutti i discorsi che noi facciamo da allora mettono al centro la Chiesa, la Chiesa e la sua struttura, la Chiesa e i suoi ministeri, la Chiesa e la sua missione, la Chiesa e la sua liturgia, sempre e solo la Chiesa, in modo ossessivo, posta al centro di ogni discorso. E io ho l’impressione che questo, anche se non tutti ne sono consapevoli, ha frustrato e affaticato la gente e non ha dato quel primato alla Parola di Dio, che per lo meno è balenato durante il Concilio come urgenza e non ha dato quella centralità a Cristo che dovrebbe essere l’oggetto della fede, della preoccupazione, di tutta la sollecitudine pastorale. Invece sempre, sempre e sempre la Chiesa. Io credo che questo ecclesiocentrismo regnante di cui non riusciamo a spogliarci, non ci fa bene, non ci ha fatto bene. Anche questo Sinodo speravo che prendesse una forma in cui di più al centro si mettesse Cristo, invece ci si attarda ancora una volta su tanti problemi della Chiesa. Ora i problemi della Chiesa ci sono e certamente non basta, come qualcuno vorrebbe una riforma spirituale, perché se c’è una riforma spirituale ci deve essere anche una riforma delle strutture e quindi deve cambiare qualcosa, deve cambiare soprattutto il posto per la donna all’interno della Chiesa, devono cambiare i rapporti tra i ministeri, perché adesso c’è troppo clericalismo, deve cambiare una visione anche della morale, perché l’antropologia è mutata e bisogna, pur nella fedeltà alla Parola di Dio, annunciare la Buona Notizia ma in nuovi contesti antropologici, nelle nuove comprensioni che l’uomo ha di se stesso. Mentre invece questo mi sembra non avvenga e continuiamo dunque, a cercare di rispondere con molta inefficacia e sterilità alla domanda di Paolo VI del 1964; «Chiesa che cosa dici di te stessa?» Ma il Cristianesimo è molto più che la Chiesa, non dimentichiamo che significativamente nel Nuovo Testamento l’apostolo Pietro a un certo punto, ha pensato bene di non usare il termine Chiesa quando parlava della Chiesa, ma ha usato due volte il termine «adelphotes», il termine «fraternità» richiamandola alla sua essenza. Noi oggi abbiamo bisogno della fraternità per dire la Chiesa e se oggi la gente non va più in Chiesa, non va più all’Eucarestia è perché là non trova la fraternità, la fonte della fraternità. Per cui questo è il declino, questa è l’implosione. Manca davvero questo essere trascinati da una passione per Cristo e da una fede per Lui. E poi sovente, rincresce dirlo, so che sono poco capito, ma tutti i discorsi che facciamo anche di etica sociale, è giusto che li facciamo, ma non devono essere i soli. Anche gli altri sono capaci di un’etica, anche quelli che non credono in Dio sono capaci di etica, non è vero che senza Dio non c’è l’umanità, non c’è l’etica. Loro sanno, o attraverso la loro ricerca o anche attraverso la loro spiritualità, con altro Dio o senza Dio, trovare delle vie di etica, di morale. Noi invece oggi spendiamo e stemperiamo lì tutto il Cristianesimo. Ma il Cristianesimo è speranza, il Cristianesimo è fede, il Cristianesimo è vita.
Noi sappiamo dare vita agli altri? Sappiamo trasmettere vita, sappiamo trasmettere passione, sappiamo trasmettere fiducia agli uomini? Queste sono le domande che ci dobbiamo fare, invece ci perdiamo in discorsi che si mostrano a distanza di anni sterili, diventiamo sempre più delle minoranze, speriamo minoranze significative, ma se continuiamo così saremo solo più delle minoranze che hanno sapore di archeologia e di folklore.
Permettimi un’ultima domanda su come hai vissuto questi anni un po’ difficili. Tanti di noi hanno accompagnato tutta la vicenda di Bose con molta discrezione e con partecipazione. Comunque, è stato un trauma per coloro che hanno guardato a Bose come uno dei luoghi fondamentali della propria anima di cristiani contemporanei. Come hai vissuto, che cosa hai pensato in questa fase della tua vita e come immagini ancora di vivere la tua vocazione di monaco, di cristiano, di uomo di fede e di pensiero che aiuta molti a capire e a vivere con passione e consapevolezza la Chiesa e la polis?
Devo dire che l’ho vissuto come una profonda ingiustizia nei confronti degli altri tre fratelli allontanati. Io posso pensare che come fondatore potevo dare anche dei fastidi e mi si poteva chiedere, come già stavo facendo vivendo più a Bordighera che in Comunità, di essere più lontano, ma gli altri proprio non hanno fatto nulla che meritasse di vedere la vita spezzata in quella maniera, ormai tutta gente con più di cinquant’anni e che si trova a inventarsi una vita. La mia solitudine certo è stata pesante, vivere solo a Torino, mettere su casa a 79 anni, non è facile. Nello stesso tempo però, i primi anni a Bose ho fatto l’eremita e quello mi è servito anche a riempire di significato la mia solitudine attuale. Il Signore è fedele, il Signore mi è stato vicino, non mi sono mai sentito abbandonato da Lui, anche se mi son sentito abbandonato da fratelli e da sorelle, questo sì, però non ho perso la speranza e nel mio futuro voglio continuare, (i giorni oramai sono pochi, perché gli anni sono ormai quasi ottanta), a fare la mia vita da monaco in amicizia con tutti, accogliendo tutti quelli che hanno bisogno di me e ai quali io posso dare una manciata di ascolto, di affetto e di amore.
La conversazione con Enzo Bianchi termina qui. Ci siamo lasciati con l’idea di consumare un buon pasto nella sua attuale residenza di Torino per continuare a interrogarlo e a interrogarci sulle questioni brucianti della Chiesa e di questo mondo, attraversato da inquietudini vecchie e nuove e, forse, a corto di solide speranze e di un pensiero che possa rendere intelligenti ed efficaci le nostre azioni e anche le nostre migliori intenzioni.
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