Marxismo e cattolicesimo: la strana coppia. Conversazione con Luciana Castellina
di Marco Bevilacqua giornalista e traduttore, su Rocca
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Luciana Castellina, una lunga vita vissuta come una missione: quella della pace e della difesa dei diritti dei più deboli e delle minoranze. Una missione non ancora finita, alla bella età di 93 anni: dopo aver attraversato il Novecento con la trasparenza e la determinazione di chi non ha mai avuto paura di confrontarsi e di esporsi, nel pieno del terzo millennio la sua voce e il suo sguardo sul mondo sono ancora nitidi e autorevoli. E il suo tempo continua a scorrere fra conferenze, dibattiti, libri e articoli in cui a fremere sono ancora, come sempre, il cuore e la passione.
Onorevole Castellina, a cent’anni dalla sua nascita e a trent’anni dalla morte, la testimonianza e l’esempio di padre Ernesto Balducci sono più che mai attuali. Mi riferisco in particolare ai concetti di dialogo e accoglienza, che erano il fulcro del suo pensiero e oggi sono altrettanto centrali nelle dinamiche del mondo.
L’assenza di padre Balducci mi pesa moltissimo. Ernesto è stato un prezioso interlocutore del movimento pacifista, e il suo pensiero e i suoi scritti ne sono tuttora punti di riferimento imprescindibili. È stato lui a insegnarci che non esiste soltanto la guerra fatta con gli eserciti, ma ci sono anche quelle condotte con le ingiustizie, con la prepotenza e con la prevaricazione. Abbiamo così imparato a riconoscere tutti i tipi di guerre, comprese quelle striscianti, silenziose, condotte con le armi della propaganda e dell’economia. Il mondo di oggi è pieno di iniquità proprio perché il dialogo e l’accoglienza sono valori in disuso, invece che essere fari di civiltà.
Padre Balducci vedeva lontano anche sulla questione ecologica. È stato lui a evocare per primo l’immagine di un uomo non più padrone, ma custode della natura. Un messaggio poi ripreso dalla Laudato si’ di papa Francesco.
Anche in questo campo il legame che si era stabilito fra padre Balducci e noi del Partito di Unità Proletaria (Pdup) era davvero speciale. Anche noi avevamo posto la questione ecologica fra le priorità politiche e culturali, con il risultato di essere irrisi come propugnatori e nostalgici della civiltà rurale. Pensi che da più parti ci davano addirittura dei reazionari! Per molti decenni il disastro arrecato dall’uomo alla natura è stato disconosciuto. Un ritardo di consapevolezza catastrofico, che oggi ha una conseguenza diretta: ora il rischio è quello di non poter più arginare i fenomeni estremi (il cambiamento climatico, la siccità, le alluvioni) che si sarebbero in qualche modo potuti contenere agendo per tempo. Per fortuna, rispetto agli anni Ottanta e Novanta, il livello di coscienza diffusa sulle questioni ambientali è cresciuto molto. Ma la situazione è difficile, proprio a causa del tempo perduto. Anche qui, padre Balducci ha avuto il merito di precorrere i tempi, mettendoci in guardia su quanto stava accadendo.
Abbiamo parlato di guerre. Secondo lei, cosa accadrà nei prossimi mesi sullo scenario ucraino?
Purtroppo, temo che dovremo aspettarci un vero disastro. Ogni giorno la televisione trasmette immagini raccapriccianti dal fronte, dalle città distrutte e dalle campagne martoriate, e niente fa pensare che si possa interrompere questo orrore. Io dico solo che non si può pensare di fermare la guerra inviando armi e allargando i confini della Nato. Azioni come queste si traducono in un aumento della virulenza del conflitto, e soprattutto in una escalation del pericolo atomico: non dimentichiamo che la tecnologia bellica attuale consente di scagliare ordigni nucleari anche utilizzando vettori a medio e corto raggio. E non credo che per lanciare questi ordigni serva necessariamente la decisione suprema di un capo di Stato. Possono essere gli stessi vertici militari a optare per questa scelta, nella concitazione di uno scontro armato caratterizzato da minacce reciproche più o meno dirette e sempre più capillari.
L’unica azione sensata è fermare questa guerra, a qualunque costo e il prima possibile. Non è vero che non si possa aprire un negoziato, ma certo una trattativa sul cessate il fuoco è irrealizzabile se nel frattempo di agisce in tutt’altra direzione.
Che cosa significa oggi essere militante di sinistra?
Significa avere la voglia di cambiare il mondo per renderlo migliore. I nemici da combattere sono l’assuefazione, la rassegnazione, la crescente disaffezione dei cittadini alla vita pubblica. Sono venuti meno i partiti, i tradizionali canali della democrazia organizzata, quelli in grado di collegare la società civile con le istituzioni. La conseguenza è una sorta di scollamento fra Stato e cittadini: tant’è che il Parlamento, che dovrebbe essere la massima espressione della rappresentanza politica, sembra aver perso i legami con la realtà del Paese. D’altro canto, è vero anche che si sono moltiplicate le forme di partecipazione alternative. Pensiamo solo alla galassia delle associazioni, al volontariato, all’impegno di molti giovani. In assenza dei partiti, buone indicazioni operative giungono proprio da questo mondo. Il progetto di dialogo tra cristiani e sinistra europea denominato Dialop (Trasversal dialogue project), ideato da Walter Baier (presidente del think tank Transform!europe della Sinistra Europea) e Franz Kronreif (focolarino cattolico esperto di dialogo tra culture diverse), ha incontrato il favore e l’appoggio di papa Francesco. Tutti hanno capito che il confronto e la collaborazione sui grandi temi fra le tradizioni marxista e cattolica, due visioni del mondo che si sono combattute aspramente per oltre due secoli, sono oggi possibili e auspicabili in vista del bene comune. È questa la strada giusta da percorrere, per combattere l’apatia della società civile e la forza manipolatoria dei social. Un mondo migliore è ancora possibile.
Mi ha colpito una sua recente dichiarazione: «Bisogna difendere la diversità perché la cultura dell’altro ci aiuta a rivisitarci criticamente».
In realtà si tratta della citazione di una frase di Edward Said, scrittore e intellettuale palestinese esiliato che ha insegnato per molti anni Inglese e Letteratura comparata alla Columbia University: Said diceva che ‘l’altro è una risorsa critica per noi stessi’. Una vera e propria filosofia di vita, che ho sempre cercato di adottare.
Un concetto che forse si potrebbe collegare a quello di ius scholae, l’ennesima impasse politica in cui ancora una volta rischia di arenarsi la cultura dell’integrazione…
Ritengo ignobile che si debba ancora discutere sull’esistenza o meno di un vero e proprio diritto. Provo profonda vergogna quando sento parlare con tanta enfasi dei valori dell’Occidente, mentre ancora non si concede la cittadinanza a ragazzi che sono nati qui, che parlano l’italiano e sono perfettamente integrati nella nostra società.
Cosa ricorda degli anni del Manifesto?
I miei anni al Manifesto coincidono con quelli del Sessantotto, un grande movimento che nemmeno il Pci ha «digerito» e compreso nella sua articolazione. Erano anni di grande fermento, di idee e di proposte. Il nostro giornale se ne faceva carico, non aveva paura di andare contro l’ortodossia. Ricordo un grande coinvolgimento, un acceso confronto che talvolta creava contrapposizioni muro contro muro. L’impressione è che tutta quella energia, tutta quella forza innovativa siano andate disperse, in parte equivocate e stravolte dalla lotta armata, in parte non comprese da una società ancora diffidente verso il cambiamento e in parte, appunto, tradite da una sinistra ingessata, piena di rigidità.
Lei ha avuto una vita ricca di incontri e di esperienze umane. A quali persone si sente più legata?
Indubbiamente, le persone significative incontrate nei molti anni della mia attività politica sono state molte. Mi sento particolarmente affezionata a figure appartenenti a una cultura diversa dalla mia. Io non sono credente, ma ho sempre trovato anche nel mondo cattolico interlocutori preziosi e leali che hanno non sono credente, ma ho sempre trovato anche nel mondo cattolico interlocutori preziosi e leali. Il massimo esempio di questa fertilità di relazioni è proprio rappresentato da Ernesto Balducci. Ma anche don Milani è stato per me un compagno di strada di fondamentale arricchito il mio lavoro e il mio impegno. Il suo pensiero critico verso una società opulenta e distratta, la sua predilezione per i poveri e i diseredati sono stati per me una continua fonte di arricchimento e di ispirazione. Anche lui mi manca molto.
Considerando il suo lungo percorso politico e umano, ha qualche rimpianto o ripensamento?
Davanti a ciò che sta accadendo proprio in questi giorni, sento di dovere fare una autocritica, la stessa che dovrebbero farsi in molti. Dalla caduta del Muro di Berlino in poi, non abbiamo posto attenzione ai processi che si sono innescati nell’Est dell’Europa. Semplicemente, non ce ne siamo occupati. Nel giro di tre decenni, la Nato è passata da dodici Paesi a trenta, e nel frattempo la Russia, con la quale negli anni abbiamo diradato sempre più i rapporti, è caduta nelle mani peggiori che si potessero auspicare dopo la fine dell’Urss. Anche la mia organizzazione, l’Arci, in tutti questi anni ha ridotto al minimo le relazioni con il mondo russo. E non parlo di ora, naturalmente, ma di tutto il periodo in cui la società russa si trasformava tumultuosamente, affrontando un cambiamento radicale nell’organizzazione della società e della rappresentanza politica, superando una grave crisi economica, consegnandosi poi agli oligarchi e tornando infine a coltivare sogni imperiali. Abbiamo abbandonato a loro stesse intere generazioni di giovani disorientati, e invece avremmo potuto, quando la sinistra italiana era ancora forte, organizzata e autorevole, aiutarli a interpretare la situazione, a confrontarsi, a ideare alternative. Ora è tutto nelle mani di Putin e dei suoi orribili amici. Questo per me è molto più di un rammarico, somiglia piuttosto a un senso di colpa. Ricordo ancora, in occasione del World social forum di Porto Alegre, nel 2001, le parole di un giovane attivista russo, che mi disse: ma perché voi di sinistra vi occupate solo dell’Amazzonia e per niente di quanto sta accadendo in Russia?
Come vede il suo futuro?
A 93 anni non è che ci si pensi molto, al futuro… Però spero di poter continuare a lavorare come faccio tuttora. Se non potessi più farlo, mi sentirei perduta. Certo che adesso, con questo caldo, si fa una fatica…
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Luciana Castellina, nata a Roma nel 1929, giornalista e scrittrice, ma soprattutto grande militante politica. Nel 1947 si iscrisse al Pci, partito da cui fu radiata nel 1969 quando, con Magri, Natoli, Parlato, Pintor e Rossanda, fondò Il Manifesto, quotidiano in aperto disaccordo con la linea del partito. La sua carriera politica proseguì tra le fila del Partito di Unità Proletaria per il Comunismo (1974-84), di Rifondazione Comunista (1991-95) e del Movimento dei Comunisti Unitari (1995-98). È stata direttrice di Liberazione dal 1992 al 1994, più volte eurodeputata e presidente della Commissione europea per la cultura, la gioventù, l’istruzione e i mezzi d’informazione. È autrice di numerosi libri, fra cui «Nottetempo» (2012) e «Amori comunisti» (2018). È presidente onorario dell’Arci.
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Marco Bevilacqua
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